«Vuoi sapere cos’è la guerra? È come quando tu litighi con i tuoi amichetti». In realtà bambini e bambine non sanno provare un odio così forte nei confronti dell’altro da volerlo ammazzare, come invece accade in guerra. Dobbiamo smettere di utilizzare il termine «conflitto», nel quale si vuole mantenere viva la relazione, come sinonimo di «violenza» e addirittura di «guerra». Abbiamo bisogno di liberare il linguaggio dalla frenesia bellica. Un paragrafo tratto dal libro La manutenzione dei tasti dolenti di Daniele Novara


Soprattutto a partire dagli ultimi decenni, il termine «conflitto» viene usato al posto del più legittimo «guerra» nelle tante situazioni drammatiche e disperate di morte, distruzione e violenza che si registrano nel mondo. Guerre a volte non dichiarate, ma che esprimono una crudeltà particolare. Ricordo un articolo dal titolo “In Siria oltre centomila civili sono stati uccisi durante due anni di conflitto”. Questa sovrapposizione semantica ha un che di angosciante, che crea un blocco emotivo profondo. Anche nel caso della guerra Russia-Ucraina, i media hanno continuato a usare il termine «conflitto», mentre il numero di morti e feriti aumentava di giorno in giorno.
L’idea di usare per queste catastrofi lo stesso termine che si usa nella vita comune per descrivere un dissapore con il compagno o la compagna che vuole andare in vacanza in un posto che non ti piace, con i figli adolescenti che giocano troppe ore alla PlayStation, con il vicino di casa che taglia l’erba in giardino alle 7 del sabato mattina, con un amico o amica che non ti ha invitato per un appuntamento importante risulta sconvolgente, a dimostrazione che sta prevalendo un linguaggio poco attinente alla realtà. Sempre più si preferiscono le iperboli, le giravolte semantiche, le locuzioni azzardate, se non l’uso di un vero e proprio discorso hater, basato sulla negazione e sull’odio.
Il termine «conflitto» deriva dal latino e significa soffrire insieme, contiene il prefisso latino cum che porta parole come comunicazione, compagnia, coinvolgimento, contatto, comunità, convegno, anche complicazione. Come si può usare questa parola come sinonimo di ogni sorta di nefandezza? Non si tratta di cercare una assoluta correttezza, ma di evitare quelle forzature che poi agiscono sul sentire comune. Di distinguere ciò che va distinto: una cosa è la guerra, quella catastrofe immane che vediamo nelle immagini che arrivano dalle fonti mediatiche – e che ho avuto l’opportunità di vedere personalmente in Kosovo appena dopo l’invasione di questo piccolissimo Paese da parte della Serbia –, e altro è la divergenza che puoi avere con il barista che non ti ha servito il cappuccino esattamente all’italiana… O con tuo figlio quattordicenne che alle 11 di sera non ha ancora finito di studiare per l’interrogazione di domani… O con il barbiere che tu avevi regolarmente fissato e adesso ti dice che non c’è prenotazione a nome tuo.
Davvero assurdo quando si arriva a dire ai bambini: «Vuoi sapere cos’è la guerra? È come quando tu litighi con i tuoi amici». Il bambino non può provare un odio così forte nei confronti dell’altro da volerlo ammazzare, come invece succede in guerra. Non sono suoi nemici, sono compagni di gioco con cui ha vicissitudini conflittuali. È tutto un altro mondo…
Proviamo quindi a liberare il linguaggio dalla frenesia bellica e a restituirlo alla realtà che la vita di tutti i giorni ci offre. Purtroppo sembra più facile lavorare sui litigi tra i bambini che non sull’acquisizione della differenza semantica tra conflitto e guerra negli adulti.
Usare i termini «conflitto», «violenza» e «guerra» come sinonimi genera angoscia. Il nostro cervello inserisce la violenza nell’area della sopravvivenza. Il conflitto si trova invece nell’area della manutenzione relazionale. Se li confondiamo, rischiamo di introdurre anche il conflitto nell’area della sopravvivenza. A un certo punto, nella violenza – come dice Rita Levi Montalcini – si attiva il cervello rettiliano, quello che si trova nello strato più profondo e che ci garantisce la reazione di sopravvivenza. Quando abbiamo iniziato a lavorare sui litigi fra bambini, ci siamo sentiti dire da qualche maestra: «Se non interveniamo si ammazzano! Lo sta morsicando! Gli sta staccando un orecchio!». Cose incredibili ma comprensibili perché, se alla base c’è questa confusione, un semplice diverbio infantile ci provoca la stessa angoscia di una situazione di violenza vera e propria (leggi anche Decalogo del buon conflitto).
Tratto dal nuovo libro di Daniele Novara (direttore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, Cpp), La manutenzione dei tasti dolenti (Bur). Titolo originale del paragrafo Non dite ai bambini. «La guerra è come quando voi litigate»!. Il libro sarà presentato il 4 novembre.
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