Qualcuno potrà vivere, qualcuno no. Non sarà il destino a decidere. Il mondo in cui viviamo, dominato da un sistema che, in attesa di nuovi vocabolari, chiamiamo ancora capitalista, si basa anche sulla disuguaglianza dell’opportunità di vivere e morire. Lo si è visto, e lo si vedrà meglio, anche con il virus che si porta ancora via tante vite in ogni angolo del mondo grazie “anche”, scrive Patrizia Cecconi, ai “disservizi” dei sistemi santari. Quella disuguaglianza, un portato della necropolitica, brillante definizione coniata dal filosofo camerunense Achille Mbembe, si alimenta, tra le altre cose, dell’indifferenza. Nei mesi scorsi, però, la necropolitica ha varcato un’altra soglia: la mancanza di rispetto per chi muore. Una soglia scivolosa, che ha generato indignazione, rabbia e altri sentimenti che possono rendere migliori noi e forse anche anche molti di coloro che hanno fatto del curare gli altri in un ospedale il loro lavoro. La morte, scrive Patrizia, è più naturale ancora della vita, perché in fondo si può non nascere ma non si può non morire, però alla morte non ci adattiamo e morire credendosi soli è inaccettabile. Per questo, a distanza di 25 anni, ci racconta una ferita tremenda, che s’infiamma non appena qualcosa la sfiora: “Mio padre morì proprio così: solo. Senza neanche il conforto di un infermiere. Solo, disumanamente solo. Il giornale che pubblicò la notizia titolò “Fino all’ultimo respiro”, perché fino all’ultimo respiro i medici mostrarono la loro serena lontananza da ciò che comunemente chiamiamo umanità”

In questi mesi di tragedia e di follia, di terrore indotto e di paura consapevole, di vessazioni che trasformano liberi cittadini in individui spaventati, docili verso il potere e feroci verso chi non si allinea; in questi mesi in cui un virus inafferrabile ha portato via decine di migliaia di vite grazie “anche” ai disservizi del sistema sanitario, qualche anima bella sperava saremmo diventati tutti migliori. Invece i migliori restavano tali, ma pochi, e gli altri liberavano le più basse pulsioni, divisive, cattive, persecutorie. In questi mesi, però, una cosa ho colto come profondamente umana. Una cosa che forse ci renderà davvero leggermente migliori e renderà migliori anche i medici. Non quelli che abbiamo visto svolgere il loro lavoro con dedizione umana e professionale, quelli già sono “migliori”, ma gli altri, quelli che nel paziente non vedono un umano che soffre ma solo un corpo curabile o incurabile.
La cosa che forse ci renderà migliori è l’attenzione, emersa finalmente a livello generale, alle ultime ore di vita di un essere umano in isolamento, mentre il respiro lo abbandona e nessuno gli è vicino. Questo è stato il sincero lamento di chi in questi mesi ha perso una persona cara sapendola intubata senza speranza. Qualche infermiera/e di profonda umanità, ha messo in contatto tramite videotelefono il malato con i suoi familiari. Alcuni sanitari ci hanno garantito che nessuno è stato lasciato morire solo. Può darsi. La morte è più naturale ancora della vita, perché in fondo si può non nascere ma non si può non morire, però alla morte non ci adattiamo e morire credendosi soli credo sia una delle morti più tristi.
Mio padre morì proprio così: solo. Senza neanche il conforto di un infermiere. Solo, disumanamente solo.
Il giornale che pubblicò la notizia titolò “Fino all’ultimo respiro”. Infatti, fino all’ultimo respiro i medici mostrarono la loro serena lontananza da ciò che comunemente chiamiamo umanità.
Morì solo, abbandonato a se stesso mentre il respiro si faceva sempre più lento. Un’agonia durata circa 15 ore senza poter avere quel minimo conforto che ti dà lo sfiorare la mano di chi ti vuole bene.
Non era infettivo, un’angina pectoris non lo è. Non erano i tempi del coronavirus e nessuno si scandalizzava per un uomo di settanta anni lasciato morire solo, senza neanche la presenza di uno straccio di medico o di infermiere. Buttato là, in attesa della morte, dopo un’intera nottata in cui, su una barella, era passato da cardiologia a terapia intensiva senza che i due reparti decidessero di accoglierlo. Quindi, in una criminale decisione forse ipotizzata come salomonica, lasciato nel corridoio fino alle 9 del mattino – come dichiarato senza ombra di vergogna nella cartella clinica – per poi essere accolto in cardiologia. Quando ormai era troppo tardi.
La cartella clinica registra che alle 10, cioè dopo undici ore di agonia, veniva finalmente visitato dal cardiologo il quale dichiarava che non c’era più nulla da fare e lo inviava in terapia intensiva. Lì sarebbe rimasto ancora solo, in quella solitudine che immagino sia un dolore nel dolore, dove il tempo è dilatato dalla percezione di essere stato abbandonato. Senza rispetto, senza attenzione a quel respiro che andava svanendo. Disumanamente solo, essendo stato impedito a qualunque familiare di potergli almeno fare un sorriso di due secondi per dirgli “siamo con te.”
Un medico, entrato a fare un veloce giro di controllo, rispose in malo modo a mia madre, che “osò” chiedere informazioni, dicendole di non disturbare, ché al momento giusto sarebbero stati loro a darle “la notizia.”
Non era cattiveria, era semplice disumanità.
La “notizia” arrivò verso le due del pomeriggio: “Porti gli abiti per vestire la salma”.
Siamo tutti mortali, con la morte non si ragiona, ma c’è modo e modo di morire. Soprattutto se non si sta in zona di guerra ma in un ospedale romano, il San Giovanni. Le tante morti di questi mesi mi riportano quel ricordo.
Sono passati oltre 25 anni da allora, ma ci sono ferite che hanno cicatrici sensibili, che s’infiammano appena qualcosa le sfiora. La mia s’infiamma quando penso ai prigionieri palestinesi malati, trattati con tale crudeltà che vengono fatti morire soli, incatenati fino alla fine al letto di morte. S’infiamma quando penso ai prigionieri scomparsi nelle galere di Al Sisi, e spesso morti sotto tortura, accompagnati dal ghigno dei loro carnefici. S’infiamma quando penso ai prigionieri delle galere turche o libiche o tutte quelle volte che penso a una morte ingiusta, in Italia o in qualche parte del mondo. S’infiamma, e risento per qualche momento quel dolore tanto inutile quanto pungente che mi accompagnò a lungo dopo la morte “offerta” a mio padre dai medici del San Giovanni.
Da tre mesi s’infiamma pensando ai poveri morti intubati per cercare di salvarli con una terapia che, purtroppo, oggi si sta dimostrando in molti casi errata. S’infiamma anche pensando a tutti quei vecchi abbandonati nelle case ironicamente definite di riposo, ai quali non è arrivato alcun conforto, con e senza covid-19. Penso allo sguardo disperato di vecchi uomini e vecchie donne che vidi in una di quelle case tanti anni fa. Non avevano nessuno che gli dicesse “sono nato da te” o “un giorno ci siamo amati”. Nessuno che gli parlasse, neanche gli infermieri, perché per routine o per sovraccarico di lavoro non avevano tempo per essere gentili. E in questi giorni scopro che centinaia di morti nelle cosiddette RSA non hanno avuto nessuno che li riconoscesse nemmeno dopo la morte. Corpi parcheggiati in attesa della fine. Soli.
Se una cosa positiva questo virus maledetto ci ha regalato, è quindi quella di aver reso chiaro che nessuno deve essere lasciato morire solo. Io, che non sono buonissima, faccio un’eccezione per i torturatori sparsi per il mondo. Loro sì, soli, con l’unica compagnia delle ombre dei loro torturati. Ma nessun altro. Nessuno. A meno che non sia una sua scelta.
Questo invisibile killer ha fatto emergere l’umanità nel personale sanitario, al punto che molti medici e infermieri lo hanno affrontato pur sapendo di poterne essere sopraffatti e sono stati vicini ai malati fino alla fine pagando, in molti casi, con la loro stessa vita. La pìetas umana ha vinto e vorrei che questa lezione di umanità la ricordassero i medici e gli infermieri anche quando il nuovo coronavirus si sarà ritirato.
Io, che come già detto non sono buonissima, non perdono i medici del San Giovanni per il trattamento riservato a mio padre e chissà a quanti altri malati. Non dimentico le numerose, ripetute negligenze che lo hanno tenuto in ospedale per un mese e mezzo invece dei 7 giorni previsti.
Non dimentico niente di quel mese e mezzo, ma ciò che non perdono assolutamente è la disumanità con cui è stato lasciato morire. La morte lo avrebbe preso comunque, ma in un altro modo e in altro momento, e noi l’avremmo accolta con qualche lacrima, qualche fiore e qualche ricordo bello che ci avrebbe restituito il sorriso. Non ha colpe la morte. Al contrario di chi può disporre di come, in che modo, permetterle di portarsi via una vita.
Per questo al virus killer riconosco di aver, suo malgrado, fatto spuntare quella sensibilità mai emersa prima a livello collettivo verso gli ultimi momenti della vita.
Mio padre morì proprio il giorno in cui finalmente doveva essere dimesso. Solo, come tanti altri. Come fosse normale. E morì per un attacco di angina pectoris ignorato dagli infermieri e dai medici per troppe ore.
Potrei dire che la sua morte aveva cominciato a camminare verso di lui vent’anni prima, quando il suo datore di lavoro – dopo aver ceduto i suoi beni in false donazioni – dichiarò fallimento, mettendo sulla strada qualche centinaio di dipendenti. Aveva cinquant’anni allora. Troppo giovane per la pensione, troppo vecchio per un nuovo lavoro. Era un tipografo di altissimo livello mio padre e lavorava presso la casa editrice Tumminelli specializzata in pubblicazioni d’arte e di storia. Ma al vecchio Calogero Tumminelli, che insieme a Trèves e Treccani aveva rappresentato un gioiello nel campo editoriale e tipografico italiano, era succeduto il figlio e la gloriosa casa editrice era finita nelle mani di un “gentiluomo” che per oltre dieci anni non aveva pagato i contributi ai suoi dipendenti i quali, una volta in mezzo alla strada, scoprirono anche questo bel regalo. Non avevano neanche diritto alla cassa integrazione a causa dei mancati versamenti. Cominciò il tormento con gli avvocati e i patronati per recuperare qualcosa.

Mio padre cominciò a morire allora. Quanti, oggi, finiti in mezzo alla strada, rischiano di fare la sua fine?
Improvvisamente la sua famiglia non aveva più il reddito che le permetteva di vivere decorosamente e lui, disperato, cominciò a recarsi presso tutte le case editrici e le tipografie del comune di Roma, anche le più misere, a cercare lavoro. Si offrì di fare qualunque cosa, lui, che era così fiero dell’abilità di riprodurre alla perfezione opere famose nei quaderni d’arte della vecchia Tumminelli, lui accantonò tutte le sue competenze pur di avere un salario qualunque da portare a casa. Furono giorni terribili, improvvisamente si ammalò di diabete, perse molti gradi di vista, gli venne l’angina pectoris, divenne irascibile. Mia madre si affidò agli usurai di nascosto di suo marito per poter fare la spesa.
Mio fratello entrò in aeronautica, io vinsi un concorso in Banca d’Italia, non volevo farlo, per me quel concorso era la sconfitta delle mie idee, ma era necessario, “ognuno doveva fare la sua parte” diceva mia madre, come sento ripetere in questi mesi fino alla noia. Lo feci per senso del dovere e sperai di non vincerlo. Ma quando lo vinsi fu una grande boccata d’ossigeno per la mia famiglia. Sarei rimasta il tempo necessario a sistemare le cose e poi mi sarei dimessa. Così fu, infatti.
Questi ricordi tornano alla mente pensando a tutti coloro che in questo momento stanno provando l’angoscia che provò mio padre quando perse il lavoro. Questa non è una ferita come quella della sua morte in disumana solitudine, ma è un punto sensibile. Mi sento vicina, sebbene inutilmente, a chi per la pandemia vedrà rovinata la sua vita. Penso alla rabbia che queste persone proveranno vedendo affacciarsi alla tv politici di tutti i tipi che dai loro ricchi scranni offriranno sciocche ricette o incrementeranno l’odio invece di tacere e vergognarsi per la loro parte.
Penso a chi, come mio padre, d’improvviso dovrà sperare nello stipendio di un figlio affinché si possa portare qualcosa in tavola. Sento ancora quella sua umiliazione che ferisce più della fame.
Poi pian piano le cose si assestarono, ma l’angina pectoris restò lì e l’avrebbe portato a morire prima del tempo, perché 11 ore abbandonato in corridoio, senza un farmaco salvavita, furono troppe.
Ora, che a causa del virus si affollano i ricordi, ripenso a quando tornava dal lavoro con l’immancabile Paese Sera sotto il braccio e ci leggeva qualche notizia. Fu così che intorno ai 13 anni venni a scoprire cosa fosse la garrota e chi fosse il fascista Franco che condannava a morte i combattenti baschi torturandoli fino alla fine, appunto, con la garrota.
Ancora oggi penso che mentre moriva lentamente perdendo il respiro, anche lui ripensasse a quelle morti sotto la dittatura franchista. Ma noi eravamo in democrazia! Una democrazia che però non serve a molto quando, per situazione oggettivamente subalterna, sei nelle mani di medici che non si curano di te e lasciano che tu muoia. E per di più da solo come un cane randagio.
Non aveva neanche la voce per chiedere aiuto, mio padre. Era stato operato un mese prima alle corde vocali. Non avrebbe disturbato con fastidiosi lamenti! Forse gli sarà scesa qualche lacrima silenziosa pensando che i suoi figli e sua moglie lo avevano dimenticato. Io lo avevo visto piangere due volte, in silenzio: quando morì Berlinguer e quando morì Petroselli. Petroselli per lui (ma per milioni di italiani) era un mito come uomo oltre che come politico. Altri tempi, altre stature! Troppi ricordi stanno affiorando e mi fermo qui.
Penso che questo virus, oltre ad essersi preso direttamente o indirettamente troppe vite ne abbia devastate, psicologicamente ed economicamente, molte altre e di questa devastazione non è il solo colpevole. Il governo centrale e molti governi locali hanno le loro responsabilità e alcune loro decisioni le considero addirittura ignobili, come quella d’impedire che i morti avessero un funerale e, ovviamente con tutte le attenzioni del caso, che le persone più care potessero render loro omaggio. Se si trattava di sciocco accanimento o di qualcos’altro ben progettato per ammansire il popolo col terrore del contagio non si sa, comunque era un provvedimento ignobile, inutile e disumano e non è stato certo l’unico! E’ ovviamente un mio punto di vista, ma ad oggi i fatti mi danno ragione.
Torno a quel che ci farà essere migliori, dopo questi mesi tormentati da un elemento maledettamente incurante della morte, che sembra arrivato come lo “sterminator Vesevo” di leopardiana memoria: viene, distrugge, va, forse torna. Cosa ci lascia per essere migliori? Il rispetto per chi muore. Questa sensibilità attivatasi solo ora a livello collettivo è un segno di umanità che resiste nonostante tutto. Nessuno deve morire abbandonato.
Mio padre morì così. Solo. Come tanti altri. E non ce n’era motivo.
La covid-19 ci ha insegnato almeno questo: che la tenerezza di una mano che ne stringe un’altra, o di un sorriso, o anche di una lacrima deve accompagnare l’addio. Questo lascito di umana sensibilità che il virus, pur essendo parte di quella natura indifferente all’uomo, quella che “con lieve moto in un momento annulla”, ci ha lasciato come insegnamento, è ciò che forse ci renderà migliori.
Grazie per aver condiviso la sua storia.
Le posso assicurare che non è cambiato molto nella sanità pubblica.
Almeno qui in Lombardia.
Spesso medici e infermieri sono più presenti, ma la cosiddetta “azienda” ospedaliera” si comporta proprio come una azienda: reparti fatiscenti, materiali scadenti e negligenze da denuncia.
Noi lo abbiamo vissuto l’anno scorso con mia madre presso l’ospedale San Paolo di Milano.
L’unico nostro rimorso è non aver fatto una denuncia ai carabinieri per aprire uno squarcio su tutta la vicenda, come ci avevano chiesto anche i medici e gli infermieri.
una storia dolorosa che ha come unica fortuna una figlia capace di averla raccontata in questo modo preciso, coinvolgente, struggente.
E’ vero solo disumanità. ma quella basta. nella mia storia molto molto meno importante ma che ha una interminabile notte di dolore atroce per una operazione sbagliata (con una placca mal messa mi schiacciarono un nervo) dove chiamavo infermieri per avere un sedativo, l’unica risposta che ebbi fu: ‘fai bene, piangi, vedi che piangendo il dolore passa’ . questo è zero di fronte alla lunghissima agonia del signor Cecconi, lo so. ma per me una ferita indimenticabile, quella del dolore potrà anche passare, quella della disumanità no.