In parecchie decine di città europee, da Lesbos a Stoccolma – passando per Cinisi, Empoli, Roma, Vicenza, Treviso, Milano, Copenaghen, Bruxelles, Parigi, Marsiglia, Bilbao, Siviglia, Vienna, Helsinki, Berlino, Nicosia, Lisbona, Coimbra, Liverpool – il 24 settembre si è manifestato per il Chiapas. Non solo, purtroppo, per salutare l’invasione della nutrita delegazione zapatista che si comincia a sparpagliare per il continente, ma per denunciare – anche di fronte alle ambasciate messicane – il serio rischio di una guerra civile e l’offensiva contro i popoli indigeni dei narco-paramilitari protetti dal governo locale nazionale. L’intera regione del sud-est messicano sembra vicina al collasso e le ragioni di quella che appare molto più di una semplice crisi sono molto profonde. Affondano le radici nella stessa natura dello Stato messicano che, come ricorda lucidamente qui Gustavo Esteva, citando la linguista mixe Yásnaya Aguilar Gil, è stato creato dopo l’indipendenza non per interrompere l’ordine coloniale ma per perfezionarlo. Poche settimane fa, a Madrid, le parole niente affatto retoriche ma certo di portata storica dell’Escuadrón Marítimo Zapatista, l’Escuadrón 421, hanno ricordato i 500 anni di resistenza indigena. Molti altri lo hanno fatto, anche su molti dei media “che contano” e che naturalmente, in certi casi, fanno ampio ricorso a un vocabolario intriso di demagogia. Nessuno ha però ricordato che quegli indigeni per 300 anni hanno resistito alla dominazione spagnola ma negli ultimi 200 hanno resistito e resistono allo Stato messicano, qualunque sia il governo che assuma temporaneamente la leadership delle sue istituzioni

Questa settimana si è ripetuto il rituale ufficiale. Né le autorità né gli sbandieratori si sono resi conto del vuoto che ora hanno di fronte. Quando si sentono nominare di nuovo gli “Eroi che ci hanno dato una patria”, molti si chiedono: a chi l’hanno data? E in che cosa consiste questa patria?
È necessario riesaminare da cima a fondo l’episodio che ora chiamano la Prima Trasformazione. Ha ragione la nota intellettuale mixe[1] Yásnaya Aguilar: “La creazione dello Stato messicano dopo l’indipendenza non è l’interruzione dell’ordine coloniale, ma il suo perfezionamento” (El País, 6/8/21). Abbiamo bisogno che questo diventi esplicito e arrivi a far parte della coscienza generale. Altrimenti, la commemorazione patriottica è un insulto che nasconde a malapena il suo stampo coloniale.
Cinquecento anni fa gli spagnoli invasero i territori dei popoli indigeni, non del Messico. La grande quantità di morti del primo secolo non è da attribuire a massacri o combattimenti. Delle persone che vivevano qui, 9 su 10 sono morte perché non hanno potuto resistere ai virus portati dagli spagnoli, che i loro corpi non conoscevano. Molti di loro sono arrivati a chiedersi se dovevano continuare a vivere, se anche i loro dei erano morti. Ci sono stati suicidi collettivi.
Lo scoraggiamento che si è diffuso fra gli indigeni a causa di quella tragedia ha reso possibile il dominio, ma essi non hanno smesso di essere ciò che erano né di lottare. Così si sono guadagnati il rispetto degli spagnoli, che alla fine del periodo coloniale hanno chiamato “Repubbliche degli indios” gli spazi in cui i popoli indigeni si governavano a modo loro e mantenevano i propri modi di vita.

All’inizio del XIX secolo, essi costituivano ancora la stragrande maggioranza della popolazione. Quando è scoppiato il conflitto con la corona spagnola hanno lottato per sbarazzarsi di quel giogo, non per inventare un paese. I creoli e i meticci, da parte loro, hanno cercato soprattutto di ereditare il regime di dominazione. La Costituzione che hanno scritto nel 1824 ha lo stampo religioso e spirituale della Spagna, fin dal primo articolo, e manifesta l’esclusione coloniale dei popoli indigeni: li menziona solo una volta, come tribù straniere.
Si dice giustamente che sono stati 500 anni di resistenza indigena. Ma non si dice che per 300 anni hanno resistito alla dominazione spagnola e negli ultimi 200 anni hanno resistito allo Stato messicano. Lungi dall’essere un’opportunità di liberazione, la cosiddetta Prima Trasformazione è stata per i popoli originari l’imposizione di un giogo atroce che dura ancora oggi.
La Seconda Trasformazione è stata ancora peggiore. Con lo stesso atteggiamento di esclusione nei confronti degli indigeni assunto dalla prima Costituzione, che era di stampo spagnolo ma imitava gli Stati Uniti, Benito Juárez ha voluto liberarli dal sistema della ‘comunalità’,[2] in modo che avessero piccole proprietà come gli agricoltori statunitensi. Ha anche dato agli Stati Uniti diritti perpetui sull’istmo di Tehuantepec, mediante una ferrovia che ha diviso in due il paese.[3]

Come per molti altri sogni di don Benito, è toccato a Porfirio Díaz il compito di realizzare anche questi. Nel 1907 ha inaugurato la linea ferroviaria dell’Istmo. Per quanto riguarda i popoli indigeni, ha applicato le Leggi di Riforma per organizzare un esproprio senza precedenti. Invece di piccole proprietà indigene, sono state create haciendas[4] di creoli e meticci, e quasi tutti gli indigeni sono stati messi al loro servizio, come lavoratori semi-schiavi.
Quella che ora chiamano la Terza Trasformazione ha fatto concessioni ai popoli indigeni la cui partecipazione era stata decisiva nel corso della Rivoluzione, come la creazione di una forma di proprietà terriera che riconosce i territori che avevano prima della creazione dello Stato messicano. Non era quello che si aspettavano, ma rappresentava un impegno dello Stato messicano. È stato adempiuto tardi e male. Il presidente Cárdenas,[5] ad esempio, ha dato metà del paese a piccoli proprietari terrieri e ad ejidos,[6] ma non ha riconosciuto un solo ettaro che fosse di proprietà dei popoli indigeni. Non sapeva come farlo. I primi atti in questo senso non sono stati fatti fino al 1947.
La Quarta Trasformazione vuole spingere ancora più lontano i sogni di don Benito. Mantiene l’ossessione di dividere il paese in due e consegnerà alle multinazionali, sostenute dai loro governi, il controllo di una striscia dell’Istmo di Tehuantepec. E l’attacco ai popoli indigeni continua. Il direttore del Fonatur[7] ha definito esplicitamente il carattere del megaprogetto di cui è responsabile dichiarando che è un progetto genocida, che cerca di far scomparire gli indigeni. Sulla linea della tradizione che ha fondato il sistema educativo messicano, si tratta di de-indianizzarli. Mentre loro chiedono: “Mai più un Messico senza di noi”, si vuol fare a meno di loro. L’attacco è visibile ogni giorno, poiché il megaprogetto viene imposto in modo distruttivo contro la volontà delle comunità. Questa settimana l’aggressione è arrivata all’estremo di attaccare direttamente gli zapatisti, che sono un simbolo e un esempio della resistenza, e di assassinare uno di loro.
I popoli indigeni oggi fanno appello a elementi costituzionali e giuridici che sostengono le loro richieste, e non smetteranno di portare avanti la loro lotta. Non sono disposti a scomparire, a smettere di essere quello che sono. Se, nello stato di eccezione non dichiarato in cui di fatto viviamo, il governo persiste nell’ignorare le loro richieste, ricorreranno alla resistenza diretta, quella resistenza che va avanti da 500 anni. E non si fermerà.
Fonte: “Nunca más”, in La Jornada, 20/09/2021.
Traduzione a cura di Camminardomandando.
[1] Popolo indigeno del Nord-est dello Stato di Oaxaca (ndt).
[2] Uso comunitario di terreni che non sono né privati né pubblici. A tale riguardo si veda ad esempio: Gustavo Esteva, Nuovi ambiti di comunità. Per una riflessione sui ‘beni comuni’, disponibile online e in edizione cartacea (Mutus Liber 2014) (ndt).
[3] Attualmente oggetto di un megaprogetto che coniuga il potenziamento della linea con treni ad alta velocità e lo sviluppo turistico, lungo i 1500 km della penisola dello Yucatan (ndt).
[4] Grandi aziende agricole, con terreni destinati al pascolo e all’agricoltura (ndt).
[5] Presidente del Messico dal 1934 al 1940 (ndt).
[6] Proprietà rurali di uso collettivo (ndt).
[7] Il Fondo Nacional de Fomento al Turismo (Fondo Nazionale di Promozione del Turismo), che si occupa della pianificazione e dello sviluppo dei progetti turistici nazionali, fra cui quelli legati al Treno Maya nello Yucatan (ndt).
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