Nella comunità della Terra, per dirla con il titolo dell’ultimo libro di Mbembe, non può esistere più qualcosa tagliato fuori, c’è solo una co-appartenenza senza fine. Si tratta di una prospettiva che fa saltare quei dispositivi gerarchici (di classe, di genere, di specie…) con cui siamo abituati a leggere il mondo. Saremo allora capaci di desiderare un altro mondo?
Il recente volume di Achille Mbembe La comunità della Terra (Bologna, Marietti, 2024) può essere letto come un contributo ulteriore al dibattito in corso su scala globale su come pensare e praticare un’alternativa al modello sociale neo-liberale, prendendo, per forza di cose, le distanze dai modi tradizionali d’intendere una comunità. Mi riferisco a una serie di lavori che in questi anni hanno animato e continuano ad animare il dibattito. Tanto per citare a caso: penso ai contributi di Negri e Hardt sul comune/commonwealth, inteso come politiche dei corpi e processi costituenti, potenza della facoltà relazionali, linguistiche e affettive inerenti alla natura umana, forza creativa della cooperazione sociale; alla “comunità che viene” di Agamben, come progetto senza presupposti e fondamenta, ma basato su singolarità senza fissazioni identitarie; alla “comunità inoperosa“ di Nancy (una comunità che non mette in opera alcuna comunità strutturata, ma che si riconosce nell’in-comune, nel semplice partecipare all’esistenza); alla communitas di Esposito, dove ciò che crea relazione è un impegno donativo verso l’altro, nell’accettazione della comune finitezza e vulnerabilità.
Ecco, ciò che contraddistingue il lavoro di Mbembe da quello degli autori citati (e si potrebbe nominarne altri) risiede proprio nella collocazione spaziale da cui emerge: l’Africa. Per chi non lo conosce, Achille Mbembe è un africanista, filosofo e storico di origine camerunense, attualmente residente in Sud-Africa, considerato come uno fra i più autorevoli autori post-coloniali, anche se lui ha rifiutato di recente tale definizione, in quanto la sua ricerca non mira a un ritorno a una patria arcaica, marginale e rurale, ma si confronta a tutto campo con le questioni urgenti poste dalla contemporaneità.
Metafisiche ancestrali
Infatti la comunità della Terra a cui Mbembe si riferisce è in gran parte l’esito della contaminazione fra le metafisiche animiste africane e il pensiero critico contemporaneo (in una prospettiva simile si colloca anche il lavoro di Bayo Akomolafe, cfr. il suo Queste terre selvagge oltre lo steccato, Roma, Exorma, 2023). Con l’espressione “metafisica animista africana” il riferimento va al pensiero e alle cosmologie autoctone, unitamente al simbolismo e alle pratiche connesse (i rimandi presenti nelle note si richiamano principalmente alle tradizioni dell’Africa occidentale, come quelle bambara, dogon e yoruba). Mbembe aggiunge come l’Africa sia uno dei territori del mondo in cui si sono espresse una teoria della vita, della parola e dell’ontogenesi di cui non si è ancora appreso davvero il potenziale racchiuso. In queste conoscenze ancestrali non esiste un reggente supremo della Terra, rispetto alla verticalità di un “Dio nell’alto dei cieli” qui gioca un ruolo primario il principio di animazione e condivisione del soffio vitale, pertanto niente è mai identico a se stesso, nulla è una ripetizione permanente della stessa cosa; la vita è colta come un vasto mosaico in cui ogni vivente è soggetto a ricombinazioni, mutazioni, trasferimenti, è, in altre parole, costitutivamente incompleto, aperto all’inedito e all’inesplorato, in costante risonanza con le altre forze del vivente. Le relazioni significative non si limitano alla specie umana, ma transitano da una forma all’altra, le società umane non sono che un segmento di una più ampia comunità degli esseri, visibili e invisibili, vivi e morti.
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Collocando nel presente queste narrazioni (che mostrano fra l’altro affinità con quelle meso- e sud-americane del buen vivir) Mbembe intende offrire una prospettiva politica intelligibile circa le possibili forze di trasformazione del vivente di fronte alle dinamiche di globalizzazione in corso d’opera. C’è un termine che il nostro autore usa per descrivere la forma generale con cui il mondo occidentale ha dispiegato e ancora dispiega il suo potere. Questo termine è necropolitica (che è anche il titolo di un breve saggio di Mebmbe, uscito in italiano nel 2016 da Ombre corte, a cura di Roberto Beneduce).
Biopolitica, necropolitica, psicopolitica
Che cos’è la necropolitica? Questa parola ne evoca immediatamente un’altra, più conosciuta: biopolitica, espressione divenuta centrale nel dibattito filosofico e politico in seguito alla comprensione fornita da Foucault a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Per Foucault la biopolitica è un’area d’incontro tra potere e sfera della vita, è il territorio in cui agisce un insieme di pratiche per mezzo delle quali la rete dei poteri gestisce e disciplina i corpi. Tale incontro si realizza a partire dal XVII e XVIII secolo, un periodo storico preciso, quello del dispiegamento del modello capitalista, dove il controllo delle condizioni della vita umana diviene questione eminentemente politica.
Dal punto di vista di Byung-chul Han – filosofo sudcoreano ben trapiantato in Germania, quindi nel cuore dell’Occidente – il paradigma biopolitico oggi non funziona più, finendo per venire soppiantato da un altro, da lui chiamato psicopolitico (cfr. il suo Psicopolitica, Milano, Nottetempo, 2016). Qui il potere, anziché vietare e disciplinare i corpi, forgia silenziosamente le menti, non obbliga ma seduce, è permissivo e non inibitivo, fa interiorizzare come propri bisogni e desideri quelli che il modello neo-liberale veicola massicciamente. Così il totalitarismo digitale in cui siamo immersi esercita un potere in cui ciascuno si sottomette da sé, autosfruttandosi e autoesponendosi, divenendo, in altri termini, una sorta di lavoratore che sfrutta se stesso nell’arco intero del proprio tempo di vita, dove ad esempio la libera scelta si riduce a libera selezione fra le offerte del mercato e la stessa politica non indica più una partecipazione attiva al governo della polis, bensì il cittadino elettore, ormai passivo consumatore dello spettacolo politico, reagisce criticando, lamentandosi, disinteressandosi, così come fa un consumatore di fronte a una merce scadente.
Ma se questo rispecchia sufficientemente la situazione del primo mondo, quello in cui noi viviamo, alquanto differente è lo sguardo di Mbembe, collocato a un’altra latitudine, il sud del mondo. Qui la biopolitica fin dall’inizio si è convertita in necropolitica e l’esercizio della sovranità con i suoi apparati disciplinari è stata attuata attraverso la costruzione di “zone di morte”, esercitando il potere di decidere chi può vivere e chi deve morire. Il paradigma necropolitico presuppone come condizione iniziale la divisione dell’umanità in gruppi distinti in base a una serie di caratteristiche determinate arbitrariamente. Rientrano in questa categoria ovviamente il razzismo e il colonialismo, i quali si sono esplicati in varie modalità, dalla selezione alla pulizia etnica, dalla proibizione dei matrimoni misti alla sterilizzazione coatta, avendo precedentemente distinto quali parti del globo sono da sottoporre all’impossessamento e quali legittimate a esercitare questa forma di dominio.
È bene però non circoscrivere al passato tali pratiche, perché razzismo e colonialismo si ripresentano puntualmente, mutando forma se il caso lo richiede. Li ritroviamo oggi nei genocidi, nei massacri e nelle spoliazioni che avvengono sotto i nostri occhi, così come nell’accanimento paranoico con cui si continuano a erigere frontiere, muri, recinti. Non solo, come nota Mbembe in un altro saggio (Critica della ragione negra, Como, Ibis, 2016), la razionalità al servizio del dominio può arrivare a manifestarsi in forme inusitate: “razza e razzismo non appartengono solo al passato. Hanno anche un avvenire, soprattutto in un contesto nel quale la possibilità di trasformare il vivente e di creare specie mutanti non è più solo fantascienza”.
Va aggiunto come la pulsione di morte che alimenta il paradigma necropolitico e la sua logica di guerra abbia investito l’economia attraverso una serie di pratiche predatorie nei confronti di ogni forma vivente. Nel contesto della finanziarizzazione del globo tutto dev’essere misurato, quantificato e mercificato, ingabbiando ogni forma di vita dentro una rete di catene socio-tecniche, ignorando il prezzo che si sta pagando: cambiamento climatico, inquinamento degli elementi (terra, acqua, aria), crac borsistici, saturazione dei mercati, consumismo esasperato, impoverimento delle masse, disoccupazione, depressione e guerre.
Di fronte a ciò il nostro primo mondo sembra ripiegarsi su se stesso, insidiato dalla paura, dall’ansia e dal panico nei confronti del futuro. Ogni principio-speranza pare dissolto e al suo posto si diffondono tristi narrazioni sulla fine che, tutt’al più, invitano a un’áskesis, a un rassegnato ritiro dal mondo. Tale sensibilità però è meno presente nel sud del mondo, osserva Mbembe, in quanto ha già vissuto esperienze del limite estremo, addestrandosi per secoli a generare il vivente in un mondo reso invivibile. La comunità della Terra, ultima utopia possibile, viene formulata a partire da questo mondo resistente che, attraversando sofferenze inimmaginabili, ha saputo dislocarsi e continuare a vivere.
Per una comunità della Terra
Il punto di partenza è di un’evidenza sconcertante: la Terra, luogo di origine per la nostra e per ogni specie vivente, è qualcosa di precostituito, precedente ogni forma di vita. La Terra – che sia Pacha Mama, la madre terra celebrata dai popoli nativi o l’“ipotesi Gaia” studiata dagli scienziati contemporanei – è ciò che accoglie, accomuna e separa i viventi a partire dal loro “corpo-abito, sia esso animale, minerale, vegetale o umano”, dice Mbembe; ma è solo “nella relazione che intratteniamo con l’insieme dei viventi che, in ultima analisi, si manifesta la verità di ciò che siamo”. Però, esiste al momento solo come utopia l’intendere questa immensa trama planetaria a cui partecipiamo come progetto politico, ed è forse l’ultima utopia a disposizione di fronte all’incombere funesto dell’utopia neo-liberale, quella della crescita illimitata su un pianeta sempre più piccolo.
Affinché il sogno di cui parla Mbembe possa manifestarsi come utopia concreta è necessario immaginarlo, convocarlo, assemblarlo e animarlo con tutte le energie a disposizione, riconnettendosi alle forze del cosmo, elaborando una coscienza planetaria e inventando nuove pratiche. Nella comunità della Terra non può esistere più qualcosa tagliato fuori, disconnesso, cacciato via, ma c’è solo una co-appartenenza senza fine. Tutte le forme di vita, l’essere umano, unitamente alle altre specie animali, vegetali e minerali, includendo anche i microbi, i batteri e i virus, così come i dispositivi artificiali e tecnologici, insieme alle forze invisibili, agli antenati e agli spiriti vanno a colti e riconosciuti come segmenti di una struttura retiforme ininterrotta.
Si tratta di una prospettiva spiazzante, che fa saltare quei dispositivi gerarchici (di classe, di genere, di etnia, di specie), vecchi di secoli, con cui siamo stati educati e formati, raffinati strumenti che analizzano, classificano, separano, escludono o eliminano, premiando e punendo all’occasione. Con La comunità della Terra di Mbembe ci troviamo dinanzi a un passaggio difficile e impegnativo, sia nel pensiero che nella pratica, perché è un invito a ripensare radicalmente la nostra relazione con la vita. Indubbiamente non è semplice, ma forse è quello che il nostro tempo sta chiedendo con urgenza e su cui non è possibile indugiare ulteriormente. Saremo allora capaci di desiderare un altro mondo?
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