Gli zapatisti cominciano a preparare il viaggio nei cinque continenti che hanno annunciato per il prossimo aprile. Nella seconda parte di un lungo testo che va in direzione contraria alla navigazione dei conquistadores lanciati alla “scoperta” del Nuovo Mondo – così come all’abituale ordine numerico crescente ed è dunque la n.5 (la precedente, la 6, è qui) -, il subcomandante Galeano spiega che le zapatiste e gli zapatisti viaggiano per imparare (anche per ballare, ma una cosa non esclude l’altra) e per costruire un’opportunità che sembra non esistere. Qualcosa di impensabile. Chi penserebbe mai, d’altra parte, che chi resiste alla centrale termoelettrica in un minuscolo angolo del Messico, possa interessarsi alla Palestina, ai mapuche, ai baschi, al migrante, all’afroamericano, alla giovane ambientalista svedese, alla guerriera curda, alla donna che combatte in Giappone, in Cina, nelle Coree, in Oceania, nella madre Africa? Per questa nuova avventura c’è bisogno di immaginare, magari liberandosi della tirannia dei social network, che sia ancora possibile scegliere il modo di guardare e di parlare. E per imparare serve cambiare certe domande passando, per esempio, dal “questo è bene o male?” (necessario ad apporre l’immancabile “like”) al “cos’è veramente questo?”. Ci sono poi, in questo testo, almeno altre due cose essenziali da segnalare introducendolo: una è il fondamentale significato della porta tra i popoli originari, oggi zapatisti. La morte era una porta piantata quasi all’inizio della vita, l’infanzia la incontrava prima dei 5 anni e l’attraversava tra febbri e diarree. “Quello che facemmo il primo gennaio 1994 fu tentare di allontanare quella porta”, ricorda un biglietto trovato nel prezioso baule dei ricordi del defunto subcomandante Marcos. L’altra è il racconto parallelo sul significato del nuovo viaggio zapatista intitolato “La zattera”, perché è tratto dal Quaderno di appunti del Gatto-Cane, misterioso caso irrisolvibile per le scienze umane e protagonista di primo piano nella narrazione zapatista che simboleggia la libertà di poter sfuggire alla scelta tra due opzioni identitarie imposte: tutte le opzioni definitive sono una trappola. Non ci sono solo due strade, due colori, due sessi… C’è invece una strada altra da percorrere, una strada tutta nuova, da inventare e da scegliere cambiando il modo e la direzione dello sguardo
Supponiamo che sia possibile scegliere, ad esempio, il modo di guardare. Supponiamo di potervi liberare, anche per un attimo, dalla tirannia dei social network che impongono non solo cosa guardare e di cosa parlare, ma anche come guardare e come parlare. Quindi, supponi di guardare in alto. Molto in alto: dal più vicino al locale al regionale al nazionale al globale. Lo vedi? È vero, un caos, un pasticcio, un disordine. Quindi supponiamo che tu sia un essere umano; ebbene, non è un’applicazione digitale che, rapidamente, guarda, classifica, gerarchizza, giudica e sanziona. Quindi scegli cosa guardare… e come guardare. Potrebbe essere, è un’ipotesi, che guardare e giudicare non siano la stessa cosa. Quindi tu non solo scegli, ma decidi. Cambiare la domanda da “questo è male o bene?”, a “cos’è questo?”. Certo, la prima domanda porta a un invitante dibattito (ci sono ancora dibattiti?). E da lì al “Questo è male – o bene – perché lo dico io”. O, forse, c’è una discussione su ciò che è bene e male, e da lì agli argomenti e alle note a piè di pagina. È vero, hai ragione, è meglio che ricorrere ai “like” e “manina in alto“, ma ti ho proposto di cambiare il punto di partenza: scegliere la meta del tuo guardare.
Ad esempio: decidi di guardare i musulmani. Puoi scegliere, ad esempio, tra chi ha perpetrato l’attacco contro Charlie Hebdo o tra chi ora sta marciando per le strade della Francia per rivendicare, reclamare, imporre i propri diritti. Dato che sei arrivato a leggere queste righe, è molto probabile che preferisci i “sans papiers“. Ovviamente ti senti anche obbligato a dichiarare che Macron è un idiota. Ma, distogliendo questa rapida occhiata verso l’alto, guardi di nuovo i sit-in, gli accampamenti e le marce dei migranti. Ti chiedi quanti sono. Ti sembrano troppi, o pochi, o tantissimi, o abbastanza. Sei passato dall’identità religiosa alla quantità. E poi ti chiedi cosa vogliono, per cosa lottano. E qui decidi se andare sui media e sulle reti per scoprirlo … o ascoltarli. Supponi di poter fare loro delle domande. Chiedi quale è il loro credo religioso, e quanti sono? Oppure chiedi loro perché hanno lasciato la loro terra e hanno deciso di raggiungere suoli e cieli che hanno un’altra lingua, un’altra cultura, altre leggi, un altro modo di vivere? Forse ti risponderanno con una sola parola: guerra. O forse ti spiegheranno in dettaglio cosa significa questa parola nella loro realtà. Guerra. Decidi di indagare: guerra dove? O meglio ancora. Perché questa guerra?
Poi ti sommergono di spiegazioni: credenze religiose, controversie territoriali, saccheggio di risorse o, chiaro e semplice, stupidità. Ma non ti accontenti e chiedi chi trae vantaggio da distruzione, spopolamento, ricostruzione, ripopolamento. Trovi i dati di diversi enti. Indaghi sugli enti e scopri che si trovano in diversi paesi e che producono non solo armi, ma anche automobili, missili interstellari, forni a microonde, servizi di consegna pacchi, banche, social network, “contenuti multimediali”, abbigliamento, telefoni cellulari e computer, calzature , alimenti biologici e non biologici, compagnie di navigazione, vendite online, treni, capi di governo e gabinetti, centri di ricerca scientifica e non scientifica, catene di hotel e ristoranti, “fast food“, compagnie aeree, impianti termoelettrici e, naturalmente, fondazioni di aiuti “Umanitari”. Si potrebbe dire, quindi, che la responsabilità è dell’umanità o del mondo intero.
Ma ti chiedi se anche il mondo o l’umanità non siano responsabili di quella marcia, sit-in, accampamento di migranti, di quella resistenza. E poi concludi che, può essere, è probabile, forse, è un intero sistema che è responsabile. Un sistema che produce e riproduce il dolore, chi lo infligge e chi lo subisce.
Ora volgi lo sguardo alla marcia che percorre le strade della Francia. Supponiamo che siano pochi, pochissimi, che sia solo una donna che porta il suo piccolo. Ti interessa ora il suo credo religioso, la sua lingua, i suoi vestiti, la sua cultura, il suo modo di fare? Ti importa che sia solo una donna che porta il suo bambino tra le braccia? Ora dimentica per un momento la donna e concentra lo sguardo solo sul bambino. Ha importanza se è maschio o femmina o altroa? Il suo colore della pelle? Forse scoprirai, ora, che ciò che conta è la sua vita.
Ora vai oltre, dopotutto hai già raggiunto queste righe, quindi qualcuna in più non ti farà male. Ok, non troppo danno.
Supponi che questa donna ti parli e che tu abbia il privilegio di capire cosa sta dicendo. Pensi che ti chiederà scusa per il colore della sua pelle, il suo credo religioso o no, la sua nazionalità, i suoi antenati, la sua lingua, il suo genere, il suo modo di fare? Tu, ti premuri di chiedere scusa per quello che sei? Ti aspetti che ti perdoni e che lei torni alla sua vita con questo conto saldato? O che lei non ti perdonerà e ti dici “beh, almeno ci ho provato e mi dispiace sinceramente per quello che sono?”.
O hai paura che non ti parli, che ti guardi soltanto in silenzio, e senti che quello sguardo ti chiede “E tu, che fai?”.
Se arrivi a questo ragionamento-sentimento-angoscia-disperazione, allora, mi dispiace, non c’è rimedio: sei un essere umano.
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Chiarito così non sei un bot, ripeti l’esercizio sull’Isola di Lesbo; sulla Rocca di Gibilterra; nel Canale della Manica; a Napoli; sul fiume Suchiate; sul Río Bravo.
Ora sposta lo sguardo e cerca Palestina, Kurdistan, Euskadi e Wallmapu. Sì, lo so, confonde un po’… e non è tutto. Ma anche in quei luoghi ci sono quelli (tanti o pochi o troppi o abbastanza) che lottano per la vita. Ma si scopre che concepiscono la vita inseparabilmente legata alla loro terra, alla loro lingua, alla loro cultura, al loro modo. Quello che il Congresso Nazionale Indigeno ci ha insegnato a chiamare “territorio”, e che non è solo un pezzo di terra. Non ti tenta che queste persone ti raccontino la loro storia, la loro lotta, i loro sogni? Sì, lo so, per te potrebbe essere meglio rivolgerti a Wikipedia, ma non è allettante ascoltarlo direttamente e cercare di capirlo?
Torna ora tra il Río Grande e il fiume Suchiate. Vieni in un posto chiamato “Morelos”. Avvicina il tuo sguardo al villaggio di Temoac. Concentrati ora sulla comunità di Amilcingo. Vedi quella casa? È la casa di un uomo che in vita portava il nome di Samir Flores Soberanes. Davanti a quella porta è stato assassinato. Il suo crimine? Opporsi a un megaprogetto che rappresenta la morte per la vita delle comunità a cui appartiene. No, non ho sbagliato nella formulazione: Samir è assassinato non per aver difeso la sua vita individuale, ma quella delle sue comunità.
Inoltre: Samir è stato assassinato per aver difeso la vita di generazioni a cui non si è ancora pensato. Perché per Samir, per i suoi compagni, per i popoli indigeni raggruppati nel CNI e per noi, noi zapatisti, la vita di comunità non è qualcosa che accade solo nel presente. È soprattutto ciò che verrà. La vita della comunità è qualcosa che si costruisce oggi, ma per domani. La vita nella comunità è qualcosa che si eredita. Pensi che il conto sia saldato se gli assassini – intellettuali e materiali – si scusino? Pensi che la sua famiglia, la sua organizzazione, il CNI, noi, saremmo soddisfatti che dei criminali chiedano perdono? “Perdonami, l’ho denunciato in modo che i sicari potessero giustiziarlo, sono sempre stato una boccaccia. Mi correggerò, oppure no. Ho già chiesto scusa, ora rimuovi il tuo presidio e andiamo a completare la centrale termoelettrica, perché altrimenti andranno persi molti soldi”. Credi che è questo che si aspettano, ci aspettiamo, che è per questo che lottano, che noi lottiamo? Che dichiarino “scusate, sì, abbiamo ucciso Samir e, per inciso, con questo progetto, abbiamo ucciso le sue comunità. Allora perdonateci. E se non ci perdonate, non ci interessa, il progetto va portato a termine”?
E si scopre che le stesse persone che chiederebbero scusa per la centrale termoelettrica, sono le stesse del Treno a torto chiamato “Maya”, le stesse del “corridoio transistmico”, le stesse delle dighe, delle miniere a cielo aperto e delle centrali elettriche, le stesse che chiudono le frontiere per fermare la migrazione causata dalle guerre che loro stessi alimentano, le stesse che perseguitano i mapuche, le stesse che massacrano i curdi, le stesse che distruggono la Palestina, le stesse che sparano agli afroamericani, le stesse che sfruttano (direttamente o indirettamente) i lavoratori in ogni angolo del pianeta, le stesse che coltivano ed esaltano la violenza di genere, le stesse che prostituiscono bambini, le stesse che ti spiano per scoprire cosa ti piace e te lo vendono – e se non ti piace, fanno in modo che ti piaccia – le stesse che distruggono la natura. Gli stessi che vogliono farti credere, a te, agli altri, a noi, che la responsabilità di questo crimine globale e in atto è responsabilità delle nazioni, dei credo religiosi, della resistenza al progresso, dei conservatori, delle lingue, delle storie, dei modi. Che tutto sia sintetizzato in un individuo … o individua (non dimenticare la parità di genere).
Se tu potessi andare in tutti quegli angoli di questo pianeta morente, cosa faresti? Beh, non lo sappiamo. Ma noi, zapatiste e zapatisti, andremmo ad imparare. Certo, anche per ballare, ma una cosa non esclude l’altra, credo. Se ci fosse questa opportunità, saremmo disposti a rischiare tutto, tutto. Non solo la nostra vita individuale, ma anche la nostra vita collettiva. E se questa possibilità non esistesse, lotteremmo per crearla. Per costruirla, come se fosse una nave. Sì, lo so, è pazzesco. Qualcosa di impensabile. Chi penserebbe che chi resiste alla centrale termoelettrica in un minuscolo angolo del Messico, possa interessarsi alla Palestina, ai mapuche, ai baschi, al migrante, all’afroamericano, alla giovane ambientalista svedese, alla guerriera curda, alla donna che combatte in un’altra parte del pianeta, in Giappone, in Cina, nelle Coree, in Oceania, in madre Africa?
Non dovremmo, invece, andare, per esempio, a Chablekal, nello Yucatán, nella sede di Equipo Indignación e chiedere: “Ehi! Siete di pelle bianca e siete credenti, chiedete scusa!”? Sono quasi sicuro che risponderebbero: “nessun problema, ma aspetta il tuo turno, perché ora siamo impegnat@ ad accompagnare coloro che si oppongono al Tren Maya, coloro che subiscono espropriazioni, persecuzioni, carcere, morte”. E aggiungerebbero:
“Inoltre dobbiamo rispondere all’accusa che il supremo ci fa di essere finanziati dai progressisti come parte di un complotto interplanetario per fermare la 4T”. Di quello che sono sicuro è che userebbero il verbo “accompagnare”, e non “dirigere”, “comandare”, “condurre”.
O meglio dovremmo invadere l’Europa al grido di “Arrenditi viso pallido!”, e distruggere il Partenone, il Louvre e il Prado e, invece di sculture e dipinti, riempire tutto con ricami zapatisti, specialmente di mascherine zapatiste – che, per inciso, sono efficaci e carine; e invece di pasta, crostacei e paella, imporre il consumo di mais, cacaté e yerba mora; al posto di bibite, vini e birre, pozol obbligatorio; e chi esce senza passamontagna, multa o carcere (sì, facoltativo, perché non bisogna neanche esagerare); e dichiarare “E a quei rockers, marimba obbligatoria! E d’ora in poi solo cumbias, basta con il reggaeton (ti tenta, vero?)! Su, tu, Panchito Varona e Sabina, e gli altri del coro, cominciate con “Cartas Marcadas”, e in loop, anche se sono le dieci, le undici, le dodici, l’una, le due e le tre … e poi basta, perché domani dobbiamo alzarci presto! Ehi tu, ex re dei fuggiaschi, lascia in pace quegli elefanti e comincia a cucinare! Minestra di zucca per tutta la corte! (lo so, la mia crudeltà è squisita)?
Ora dimmi: pensi che l’incubo di quelli in alto sia di essere costretti a chiedere perdono? Non sarà che ciò che popola i loro sogni di cose orrende è che scompaiano, che non siano importanti, che non vengano presi in considerazione, che siano niente, che il loro mondo cada a pezzi senza far rumore, senza nessuno che li ricordi, che eriga per loro statue, musei, canti, giorni da commemorare? Non sarà che a gettarli nel panico sia la possibile realtà?
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Fu una delle poche volte in cui il defunto SupMarcos non fece ricorso a una similitudine cinefila per spiegare qualcosa. Perché, non sta a voi saperlo, né io a raccontarvelo, il trapassato riusciva a collegare le tappe della sua breve vita, ciascuna, a un film. Oppure accompagnare una spiegazione sulla situazione nazionale o internazionale con un “come nel film tale”. Naturalmente, più di una volta ha dovuto ricomporre la sceneggiatura per adattarla alla narrazione. Poiché la maggior parte di noi non aveva visto il film in questione, e non avevamo segnale per consultare Wikipedia nei cellulari, ci credevamo. Ma non allontaniamoci dall’argomento. Aspetta, credo che l’abbia lasciato scritto su uno di quei fogli che riempiono il suo baule dei ricordi… Eccolo! Dunque:
“Per capire il nostro impegno e la dimensione della nostra audacia, immagina che la morte sia una porta che viene varcata. Ci saranno molte e varie speculazioni su cosa c’è dietro quella porta: paradiso, inferno, limbo, nulla. E riguardo a queste opzioni, dozzine di descrizioni. La vita, quindi, potrebbe essere concepita come la via per quella porta. La porta, quindi la morte, sarebbe dunque un punto di arrivo … o un’interruzione, lo squarcio impertinente dell’assenza che ferisce l’aria della vita.
A quella porta si arriverebbe, allora, con la violenza della tortura e l’assassinio, l’infortunio di un incidente, il penoso socchiudere la porta in una malattia, la stanchezza, il desiderio. Cioè, benché la maggioranza delle volte si arrivi a quella porta senza desiderarlo né pretenderlo, sarebbe anche possibile che fosse una scelta.
Tra i popoli originari, oggi zapatisti, la morte era una porta piantata quasi all’inizio della vita. L’infanzia la incontrava prima dei 5 anni e l’attraversava tra febbri e diarree. Quello che facemmo il primo gennaio 1994 fu tentare di allontanare quella porta. Certo, bisognò essere disposti ad attraversarla per riuscirci, benché non lo desiderassimo. Da allora tutti i nostri sforzi sono stati e sono tuttora per spostare quella porta il più lontano possibile. “Allungare l’aspettativa di vita”, direbbero gli specialisti. Ma vita degna, aggiungeremmo noi. Spostarla fino a metterla da parte, ma ben prima del cammino. Ecco perché abbiamo detto all’inizio della sollevazione che “per vivere, moriamo”. Perché se non ereditiamo la vita, cioè il sentiero, allora per cosa viviamo?”
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Ereditare vita.
Questo è precisamente quello che preoccupava Samir Flores Soberanes. E questo è quello che può sintetizzare la lotta del Frente de Pueblos en Defensa del Agua y de la Tierra de Morelos, Puebla y Tlaxcala, nella loro resistenza e ribellione contro la Centrale Termoelettrica e il cosiddetto “Proyecto Integral Morelos”. Alle loro richieste di fermare e cancellare un progetto di morte, il malgoverno risponde sostenendo che andrebbero persi molti soldi.
Là, in Morelos, si sintetizza l’attuale scontro in tutto il mondo: denaro contro vita. E in questo scontro, in questa guerra, nessuna persona onesta dovrebbe essere neutrale: o con i soldi, o con la vita.
Quindi, potremmo concludere, la lotta per la vita non è un’ossessione tra i popoli indigeni. È piuttosto … una vocazione … collettiva.
Bene. Salute, e non dimentichiamo che perdono e giustizia non sono la stessa cosa.
Dalle montagne delle Alpi, pensando a cosa invadere per primo: Germania, Austria, Svizzera, Francia, Italia, Slovenia, Monaco, Liechtenstein? No, sto scherzando… o no?
El SupGaleano che si produce elegantemente nel saluto col gomito.
Messico, Ottobre 2020
Dal Quaderno di Appunti del Gatto-Cane:
Una montagna in alto mare. Parte I: La zattera.
“E nei mari di tutti i mondi che sono nel mondo, si vedevano montagne muoversi sull’acqua e, con il volto negato, donne, uomini e otroas su di esse”.
“Crónicas del mañana”. Don Durito de La Lacandona. 1990
Al terzo tentativo fallito, Maxo si è fermato a pensare e dopo pochi secondi ha esclamato: “Ci vuole una corda”. “Te l’avevo detto”, ha detto Gabino. I resti della zattera galleggiavano sparsi sbattendo tra di loro nel flusso della corrente del fiume che, facendo onore al suo nome di “Colorado”, si tingeva del fango rossiccio delle sue rive.
Hanno quindi chiamato uno squadrone di cavalleria che è arrivato al ritmo della “Cumbia Sobre el Río Suena”, del maestro Celso Piña. Hanno legato le corde in due lunghi tratti. Hanno mandato una squadra dall’altra parte del fiume. Con le corde legate alla zattera, entrambi i gruppi potevano così controllare la rotta dell’imbarcazione senza che il fascio di tronchi si sciogliesse trascinato da un fiume che nemmeno si accorgeva del tentativo di navigazione.
Lo sproposito in corso è nato dopo che si era decisa l’invasione … scusate, la visita ai cinque continenti. E poi niente da fare. Perché quando si è votato, e alla fine il SupGaleano ha detto “siete matti, non abbiamo una barca”, Maxo ha risposto: “ne faremo una”. E subito hanno iniziato a fare proposte.
Come ogni cosa assurda nelle terre zapatiste, la costruzione della “barca” ha attirato la banda di Defensa Zapatista.
“Le compagne moriranno miseramente”, ha dichiarato Esperanza, con il suo già leggendario ottimismo (in qualche libro la bimba ha trovato questa parola e ha capito che si riferiva a qualcosa di orribile e irrimediabile e la usa allegramente: “Le mie mamme mi hanno pettinato miseramente”, “La maestra mi ha dato un voto miseramente”, e così via), quando al quarto tentativo la zattera si è sfasciata quasi immediatamente.
“E i compagni”, si è sentito in dovere di aggiungere Pedrito, pensando che la solidarietà di genere fosse appropriata in questa circostanza… miserabile.
“Nah”, ha replicato Defensa. “Compagni li puoi sostituire, ma compagne… e dove le trovi? Compagne davvero, vere compagne, non chiunque”.
La banda di Defensa era posizionata strategicamente. Non per contemplare le vicissitudini dei comitati per costruire la nave. Defensa e Esperanza si tenevano per mano con Calamida, che aveva già tentato due volte di tuffarsi nel fiume per soccorrere la zattera e, entrambe le volte, era stata acchiappata da Pedrito, Pablito e l’amato Amado. Il cavallo orbo e il gatto-cane erano stati subito scartati. Si preoccupavano inutilmente. Quando il SupGaleano ha visto arrivare l’orda, ha assegnato 3 plotoni di miliziane sulla riva del fiume. Con la sua abituale diplomazia e senza smettere di sorridere, il Sup ha detto loro: “Se quella bambina arriva all’acqua, siete morte”.
Dopo il successo nel sesto tentativo, i comitati hanno provato a caricare la zattera con quelle che hanno definito “cose essenziali” per il viaggio (una specie di kit di sopravvivenza zapatista): un sacco di tostadas, panela, un sacco di caffè, qualche pallina di pozol, una fascina di legna da ardere, un telo di nylon in caso di pioggia. Controllando si sono accorti che mancava qualcosa. Certo, non ci è voluto molto per portare una marimba.
Maxo era dove Monarca e il SupGaleano stavano riguardando alcuni disegni di cui vi racconterò un’altra volta e ha detto: “Ehi, Sup, vuoi che mandi una lettera a quelli dall’altra parte: che cerchino una corda e la leghino in modo che sia ben lunga, e la lancino fino a qui e poi dalle due sponde potremo muovere la “barca”. Ma bisogna che si organizzino, perché se tutti lanciano una corda dalla loro parte, semplicemente non ci arrivano. Bisogna che le leghino bene insieme, e siano organizzati”.
Maxo non ha atteso che il SupGaleano uscisse dal suo smarrimento e ha cercato di spiegargli che c’era una grande differenza tra una zattera di tronchi legati con le liane e una nave per attraversare l’Atlantico.
Maxo è andato a supervisionare la prova della zattera con tutta l’attrezzatura. Hanno discusso su chi sarebbe salito per provarla con le persone, ma il fiume scorreva con un tetro rumore, cosicché hanno deciso di fare un fantoccio e fissarlo in mezzo all’imbarcazione. Maxo era come un ingegnere navale perché anni fa, quando una delegazione zapatista era andata a sostenere l’accampamento di Cucapá, è entrato nel Mare di Cortez. Maxo però non ha detto che è quasi annegato perché il passamontagna gli si era appiccicato al naso e alla bocca impedendogli di respirare. Come un vecchio lupo di mare ha detto: “è come un fiume, ma senza corrente, e più grande, molto di più, come la laguna di Miramar”.
Il SupGaleano cercava di tradurre come si dice “laccio“ in tedesco, italiano, francese, inglese, greco, basco, turco, svedese, catalano, finlandese, ecc., quando la maggiore Irma si è avvicinata e gli ha detto “digli che non sono sole”. “Né soli”, ha aggiunto il tenente colonnello Rolando. “Né soloas”, ha azzardato la Marijose che era venuta per chiedere ai musicanti di fare una versione del Lago dei Cigni ma in cumbia. “Così, allegra, ballabile, affinché i cuori non siano tristi”. I musicanti hanno chiesto cosa sono i “cigni”. “Sono come le anatre ma più belli, come se avessero il collo allungato. Cioè sono come le giraffe ma camminano come le anatre”. “Si mangiano?”, hanno chiesto i musicanti che sapevano che era ormai l’ora del pozol ed erano venuti solo per lasciare la marimba. “Ci credi! i cigni si ballano”. I musicanti si sono detti che poteva andare bene una versione del “polletto con patate”. “Ci penseremo”, hanno detto, e se ne sono andati a bere pozol.
Nel frattempo Defensa Zapatista e Esperanza cercavano di convincere Calamidad che, dato che il SupGaleano era occupato, la sua capanna era vuota ed era molto probabile che avesse nascosto un pacchetto di merendine nella scatola del tabacco. Calamidad era dubbiosa, cosicché hanno dovuto dirle che là avrebbe potuto fare i popcorn. E sono andate. Il Sup le ha viste allontanarsi ma non si è preoccupato perché era impossibile per loro trovare il nascondiglio delle merendine nascoste sotto sacchi di tabacco umido e, rivolgendosi al Monarca e indicando alcuni schemi, gli ha chiesto “Sei sicuro che non affondi? Perché vedi bene che sarà pesante”. Il Monarca ci pensa e dice: “Certo”. E poi, seriamente: “Beh, che portino i palloncini, così galleggeranno”.
Il Sup ha sospirato e ha detto: “più che una barca, quello di cui abbiamo bisogno è un po’ di buon senso”. “E più corda”, ha aggiunto il SubMoy, arrivato giusto nel momento in cui la zattera affondava fino alla cima di carico.
Mentre a riva il gruppo dei Comitati contemplava il relitto e la marimba galleggiare a testa in giù, qualcuno ha detto: “Per fortuna che non abbiamo caricato l’apparecchiatura sonora, che è più costosa”.
Tutti hanno applaudito quando il fantoccio di pezza è venuto a galla. Qualcuno, lungimirante, gli aveva messo due palloncini gonfi sotto le braccia
In fede.
Miau-Guau.
Video:
Traduzione “Maribel” - Bergamo Testo originale http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2020/10/09/quinta-parte-la-mirada-y-la-distancia-a-la-puerta/
Livia Cerasari dice
Tra filosofia e fiaba… molto bello !
gabriella chielli dice
Questo scimmiottatore infelice ed oscuro di Marcos, che crede di usare i suoi modi percorrendo tragitti di universalità scomposta e rancorosa,opposta all’amorevole fraterna-sorellanza di Marcos,fa pena.
siamo orfani di un pensiero inclusivo ed acuto alla mercè di un vischioso emulatore.
tristezza
Gabriella