di Alberto Zoratti*
Sono passati due anni dal dicembre 2015, da quando i Paesi membri della Convenzione sul cambiamento climatico hanno deciso di convergere verso un terreno comune, quell’accordo di Parigi che avrebbe modificato l’architettura climatica per gli anni a venire. Un passaggio necessario anche se per ora insufficiente, considerato che le emissioni (solo da combustibili fossili e industria) hanno superato le 36 miliardi di tonnellate nel 2016, ben il 62 per cento in più rispetto al 1990, considerato come data di riferimento per molti passaggi storici, come lo stesso Protocollo di Kyoto.
Quelle 36 mliardi di tonnellate sono destinate a salire del 2 per cento quest’anno, secondo le stime sul Carbon Budget pubblicate su Nature Climate Change e presentate alla COP23 di Bonn nel padiglione del WWF. Le promesse di riduzione delle emissioni, consegnate negli ultimi due anni dai Paesi membri al segretariato delle Nazioni Unite non bastano.
Quegli NDCs, i contributi nazionali per combattere il cambiamento climatico, se mantenuti sulla traiettoria attuale non modificheranno lo scenario di un mondo più caldo di 3°-4°C nei prossimi decenni. Una previsione che sarà molto probabilmente confermata dal prossimo report dell’IPCC, previsto per l’ottobre 2018, poco più di un mese prima della COP24 a Katowice, in Polonia.
Per questo in questi mesi si sta lavorando per un Facilitative Dialogue, che in questa COP dalla presidenza Fijiana ha preso i connotati di un processo inclusivo e trasparente, seguendo le caratteristiche della Talanoa, il tipico approccio alla partecipazione delle isole del Pacifico che prevede un misto tra razionalità e partecipazione emotiva e umana. Quanto questo porterà a un’effettiva revisione degli impegni assunti sarà da dimostrare.
Del resto il clima collaborativo che si respira nel percorso del Dialogue non si vede in altri ambiti. Tutta la parte del Loss and Damage, cioè la finanza dedicata a controbilanciare le perdite e i danni subiti dai Paesi più vulnerabili a causa degli eventi estremi è ancora in alto mare. Nessun passo avanti in questo processo sarebbe un brutto servizio reso alla Presidenza delle Fiji che, insieme agli altri Paesi insulari del gruppo AOSIS, aveva fatto del Loss and Damage un cavallo di battaglia in tutte le COP precedenti.
Aggiornamento dei tagli delle emissioni e adattamento al clima che cambia non possono essere più rimandati. Fanno parte del pacchetto delle misure “pre 2020” che riguardano tutte le azioni da intraprendere prima dell’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, previsto per il 2020.
D’altra parte lo sbilanciamento del sistema climatico va affrontato quanto prima e in modo ampio e coordinato: una recente pubblicazione su Environmental Research Letters di Natalie Mahowald della Cornell University ha sottolineato come focalizzare le politiche di mitigazione solamente su industria e combustibili fossili può essere parziale. Non considerare il contributo della deforestazione e della degradazione forestale, soprattutto ai tropici, non permetterà di rispettare l’obiettivo di 2°C entro il 2100. L’accordo trovato sull’agricoltura, sulla necessità di investimenti per renderla più sostenibile, sul ruolo centrale dell’agroecologia fa ben sperare. Ora la palla passa al SBI, il Subsidiary Body for Implementation, per rendere concreto questo passaggio.
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