Diceva Eduardo Galeano che i Nessuno, los Nadie, non sono anche se esistono, e che costano meno delle pallottole che li ammazzano. I curdi sono Nessuno da secoli e, tra le molte guerre che anche in questo momento incancreniscono nel mondo, quelle contro i curdi sono certo tra quelle che valgono meno. Dev’essere per questo che meritano tanto silenzio. E guai se non fosse così: dovremmo pensare che le bambine e i bambini ammazzati (anche) in agosto nel Rojava dai bombardamenti dei droni del secondo esercito della Nato non valgano neanche un paio di righe perché quei droni sono indispensabili alla resistenza ucraina. Oppure che il presidente turco Erdogan ha facoltà di far uccidere perché ferma l’esodo verso la culla della civiltà di milioni di persone in fuga da guerre e perquisizioni. Oppure, ancora, che ricatta e tiene in ostaggio la Russia, gli Stati Uniti, l’Europa (e i loro media) perché ha imparato a seguirne l’esempio. Che assurdità…
I dati numerici che ha diffuso a fine agosto Save the Children sono stati cancellati dal vortice di notizie quotidiane, anche perché pochissime persone sono interessate a conoscerli. Venerdì 26 agosto la Ong internazionale ha riferito che almeno altri due bambini sono rimasti feriti anche quel giorno in un attacco a Tal Rifat, nel Rojava, regione autonoma nel nord della Siria. Si tratta delle vittime più recenti di un’ondata di violenza che, nel solo mese di agosto, a causa dei bombardamenti continui della Turchia ha ucciso nella regione almeno 13 bambini e bambine e ne ha feriti altri 27.
Beat Rohr, responsabile della Ong nella zona, si è detto profondamente addolorato per “quest’ultima escalation di violenza che mostra chiaramente come i bambini in Siria non sono ancora al sicuro. I bambini non dovrebbero mai preoccuparsi di essere attaccati a casa, al mercato o quando sono fuori per giocare. Eppure, questo è esattamente ciò che accade a tutti i bambini nel nord della Siria, quasi 12 anni dopo l’inizio del conflitto”.
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Il massacro in corso da mesi nel Rojava è quasi del tutto sconosciuto. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, aveva annunciato apertamente mesi fa un’invasione militare nell’area, ma i suoi “soci” russi, statunitensi e iraniani – tutti e tre presenti in territorio siriano – lo hanno per ora convinto a recedere. Ciò che hanno promesso in cambio è stata l’assoluta libertà per Erdogan di ordinare attacchi con i droni sul Rojava. Così da diverse settimane gli attacchi sono quasi quotidiani e prendono di mira principalmente i residenti di città come Manbij, Kobane e Ayn Issa.
Le ragioni che spingono il presidente turco sono molteplici. In primo luogo, la sua amministrazione ha già dimostrato fin dalla nascita l’odio nei confronti del popolo curdo, che cerca di sterminare il più rapidamente possibile. Intanto si accontenta di estendere il potere territoriale turco in Siria, in linea con le sue aspirazioni neo-ottomane: oggi Ankara occupa illegalmente il cantone curdo di Afrin e le città di Al Bab, Serêkaniyê, Azaz e Girê Spî. La seconda ragione è che Erdogan ha una tremenda necessità di far gonfiare i sentimenti nazionalisti nel Paese in vista delle elezioni presidenziali del 2023, in cui è a rischio la continuità del suo potere. La terza ragione è che sia Erdogan che il cosiddetto “Stato profondo turco” rifiutano senza esitazioni il progetto di democrazia, autonomia e liberazione in Rojava, progetto che sta in piedi dal 2012, quando i popoli curdo, armeno, arabo e assiro, tra gli altri, hanno rotto la catena che li legava al regime siriano guidato da Bashar Al Assad.
Sebbene le Nazioni Unite (ONU) abbiano avvertito in diverse occasioni che nel Rojava le aggressioni turche comportano il rischio di un genocidio, l’allarme e gli avvertimenti sono stati cancellati dalle agende internazionali preoccupate in modo esclusivo per la guerra in Ucraina. Non si tratta di un fatto nuovo, né sorprendente. La Turchia è il secondo esercito della Nato ed è un fornitore continuo ed essenziale di droni militari Bayraktar, in particolare al governo di Kiev. Gli Stati Uniti e la Russia si contendono da anni l’influenza su Ankara ed Erdogan ne approfitta continuamente. Così sia Mosca, che controlla lo spazio aereo nel Rojava, che Washington, che ha la sua presenza militare a terra, chiudono gli occhi sui bombardamenti turchi sulla popolazione civile nella regione.
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A Bashur, nel Kurdistan iracheno, lo Stato turco dispiega anche un’invasione militare che combina truppe di terra, attacchi di droni e l’utilizzo di armi chimiche. È il silenzio il maggior alleato di Erdogan in questa guerra. Il suo obiettivo è sconfiggere i guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), cosa che Ankara è più che mai determinata a raggiungere, ma s’imbatte nella ferrea resistenza fatta dai combattenti curdi su montagne inespugnabili, i naturali alleati dell’insurrezione.
Non potendo fare molti progressi nell’occupazione illegale delle aree di Bashur, la Turchia sta intensificando gli attacchi contro i civili.
Lunedì 29 agosto un drone turco ha bombardato il campo profughi di Makhmur, situato a Bashur, dove vivono da diversi anni circa 12mila persone, la maggior parte delle quali deportate con la forza da Bakur (Kurdistan turco). Abu Zêyd Ebdullah Ubêyd, residente del campo, è rimasto ferito nell’attacco e in seguito è morto dopo essere stato portato all’ospedale di Geyare.
Lo stesso giorno, la Turchia ha bombardato il villaggio di Behreva, a Shengal, la regione a maggioranza yazida dell’Iraq settentrionale, lasciando diversi feriti. Per questi attacchi, Ankara ha l’aperto sostegno del Partito Democratico del Kurdistan (KDP), che guida il governo semi-autonomo di Bashur, ma può contare anche sull’inerzia del governo centrale di Baghdad.
È curioso come le grandi reti mediatiche internazionali in questi giorni abbiano trasmesso le forti proteste in Iraq, dopo le dimissioni del leader religioso sciita, Muqtada Al-Sadr, dall’attività politica, ma non riescano proprio a puntare le telecamere verso le montagne di Bashur, dove la Turchia cerca di applicare una politica della terra bruciata.
In un articolo pubblicato di recente, Devriş Çimen – rappresentante in Europa del Partito Democratico dei Popoli della Turchia, composto da esponenti del movimento curdo e da gruppi di sinistra e progressisti – ha scritto: “La democrazia, l’emancipazione delle donne, l’ecologia, la partecipazione popolare e la libertà sono valori universali che il movimento curdo per la libertà difende da anni. La nostra organizzazione cerca un’alternativa democratica ai regimi autoritari del Medio Oriente che minano tutte le libertà. I governi occidentali citano molti di questi valori in nome del loro sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa. Ma quando si tratta dei curdi l’Occidente è sempre pronto a disfarsi di quei valori e a gettare i curdi in pasto ai lupi“.
Le parole di Devriş Çimen sintetizzano esattamente come le potenze internazionali considerano il popolo curdo, il più grande popolo al mondo che continua a soffrire per la colonizzazione, che è imposta da Turchia, Siria, Iraq e Iran, ma anche dai grandi attori politici del pragmatico scacchiere mondiale.
Questo articolo è comparso su Desinformémonos con l’autorizzazione di La Tinta
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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