di Francesco Biagi
Hanno detto che con la caduta del Muro di Berlino si sarebbe dato inizio (finalmente) alla “vera democrazia”. Hanno detto che dopo l’89 una “nuova era di democrazia” era alle porte: diritti universali, benessere… Hanno detto anche che le ideologie terminavano il loro corso: la storia “era finita” in nome di un nuovo tempo permanente, radicato nel presente, che apriva alla realizzazione del “grande modello occidentale di democrazia” senza più disuguaglianze e repressione delle libertà. Hanno detto poi che, dato che le ideologie erano finite, realizzata fino in fondo l’eguaglianza e la libertà “democratica”, non sarebbe più servita nemmeno la politica o per lo meno quel tipo di “vera” politica che contempla la soggettivazione dei soggetti oppressi, quel tipo di “vera” politica che mette al centro il conflitto sociale, quel tipo di “vera” politica che interseca le contraddizioni di razza, classe e genere. In altre parole, per dirla con Jacques Rancière, il “torto” realizzato contro i “senza parte” sarebbe scomparso e non ci sarebbe più stato alcun “disaccordo”.
Hanno detto tutto questo e hanno mobilitato una forte egemonia culturale saldando tutte le tecnologie di potere novecentesche in un nuovo surrogato che Guy Debord, alla fine degli anni Ottanta, ha definito “Spettacolare Integrato”. Questa mobilitazione profondamente ideologica ha manipolato la realtà fino a farci digerire, adesso, pure la normalità del lavoro gratuito e il baratto servile dei diritti con le logiche di scambio. A Pisa, ad esempio, si progetta il lavoro gratuito e volontario dei richiedenti asilo (circa duecento) per l’apertura delle “mura storiche”, attualmente fiore all’occhiello delle attrazioni turistiche. “Una scelta che si colloca a pieno nell’ambito della progressiva precarizzazione degli inquadramenti contrattuali che, dal tempo determinato al voucher giornaliero, ha condotto inesorabilmente verso il lavoro gratuito, un sistema che ci viene narrato come imposto dalla recrudescenza della crisi economica, mentre si tratta di uno strumento per far crescere i profitti abbattendo i costi della manodopera” scrivono nel comunicato stampa – diffuso durante la due giorni di Works – le reti dell’associazionismo pisano, i militanti e le militanti del Progetto Rebeldìa, Africa insieme, Scuola Mondo San giuliano, Associazione Culturale Artiglio, Mi riconosci? Sono un Professionista dei beni culturali e Il Nodo-Collettivo politico pisano.
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La retorica attorno al lavoro volontario e gratuito emerge su un senso comune ormai strutturato: «la mancanza risorse economiche ce lo impone», dicono gli amministratori; «meglio lavorare gratis oggi, magari poi mi fanno un contratto», si sente ancora troppo spesso dire da chi lavora gratuitamente, tenuto in pugno dal quel dispositivo che diversi autori, in un libro curato da Marco Bascetta, hanno definito “Economia politica della promessa” . Una volta terminata la “gavetta”, il periodo di “formazione e specializzazione”, lo “stage”, il curriculum risulterebbe infatti arricchito da quell’esperienza e chissà che non si profili un futuro di lavoro regolare. Nessuno vuole certo togliere valore al volontariato, a partire dalle nostre stesse attività, condotte interamente a titolo volontario, ma esso non può sostituire quello che le amministrazioni non riescono a realizzare, non per mancanza di risorse, ma secondo una volontà politica. Tuttavia, predisporre il lavoro gratuito e impiegare per esso i richiedenti asilo pone due ordini di problemi. Il primo è quello che si è ormai sdoganato il fatto che si possa sganciare il reddito dall’operosità del lavoro. Nel XXI secolo, in quel secolo della democrazia realizzata ricordata poc’anzi, è ammesso e socialmente accettabile il lavoro gratuito. La monetizzazione e la mercificazione di ogni cosa si è spinta fino a dire che ci sono lavori pari a zero euro, creando un enorme “mercato delle illusioni”. Il lavoro ormai, nella sua fisionomia gratuita, non è più soltanto merce, ma pregustazione, assaggio di un “lavoro vero” che nell’attuale stato di crisi non arriverà mai.
Il secondo ordine di problemi è quello che abbandona a se stessi un grande esercito di riserva dei professionisti dei beni cultuali (dagli archeologi agli storici dell’arte ecc.) per assumere senza retribuzione i soggetti più ricattati e ricattabili che oggi attraversano l’Europa, i migranti richiedenti asilo, ai quali è imposta una logica di scambio fra la concessione del diritto d’asilo e l’obbligo del lavoro gratuito socialmente utile. A questo proposito il decreto Minniti fornisce il quadro generale all’amministrazione Pd pisana che già da tempo sperimenta questi gradi di sfruttamento e oppressione rincorrendo l’egemonia culturale della destra estrema e della Lega Nord. Pertanto, tra le altre cose, il Pd si sente incalzato dalla dirigenza leghista della vicina Cascina (il comune più grosso della provincia di Pisa) e per mantenere i voti insegue la costruzione della gabbia d’acciaio xenofoba imposta al dibattito sull’immigrazione e la sicurezza.
Torniamo per un attimo al mondo dei beni culturali; esso è sicuramente uno dei più vessati dai tagli (anche se per “restaurare” le mura di Pisa si sono spesi circa 10 milioni di euro) e questo rende difficoltosa la fruibilità del nostro patrimonio artistico, ma non può essere certo il lavoro non retribuito l’unica alternativa. Inoltre, è lecito domandarsi quale sia la sorte della gestione delle aperture delle mura medievali, visto che dietro la propaganda dell’amministrazione comunale sul patrimonio storico-artistico della città si celano bandi per la gestione andati deserti, e progressivamente ridefiniti “al massimo ribasso”. Di pari passo a questo tipo di governo, come ben ricordato da Salvatore Settis, si progetta la disneyficazione della città immaginando ruote panoramiche all’ombra della celebre Torre. Infine, l’enorme miopia dell’amministrazione comunale targata Pd è dimostrata dall’incapacità di trarre forza da tutte le menti formate dalla “sua” università: quale futuro offre la città ai neolaureati nel campo dei beni culturali? La verità è che la città svolge una funzione prettamente parassitaria sugli studenti e i turisti, senza offrire un piano progettuale serio per la convivenza.
Le obiezioni ricorrenti sono quelle che riconducono all’idea per cui l’apertura delle mura storiche pisane è sufficiente una vigilanza, simile ai custodi o portinai e, gradi più o meno elevati di razzismo, ammettono o non ammettono il contributo gratuito dei richiedenti asilo. Simili obiezioni sono facilmente confutabili rispetto all’idea di città e di promozione dei beni artistici e culturali che si propone. Un portinaio o un custode si prodigherà a darti un semplice benvenuto, un professionista invece accoglierà con ben più nozioni e promuoverà con ben più competenza il patrimonio storico. Sembra una cosa sciocca da scrivere e ricordare, ma il livello del dibattito raggiunto a Pisa contro i cartelli di associazioni che si sono posti in antitesi a questa decisione pare necessitare il ricordo di simili opinioni. In secondo luogo, non possiamo non evidenziare il progetto economico-politico: dopo tanti bandi andati deserti, dopo tanti tentativi di privatizzazione delle “mura storiche” si arriva al lavoro gratuito svolto dai richiedenti asilo. Una parabola emblematica che ci dà l’idea anche delle lacune progettuali in campo economico che ha la giunta Pd sulla città di Pisa. Il lavoro gratuito e l’economia della promessa rivolta ai richiedenti asilo è l’ultimo gradino di altri tentativi di svendita e privatizzazione. Il vero motivo è che c’è un’assenza di progettualità culturale sul patrimonio artistico della città di Pisa e si insegue o la via liberista o la via promossa dal nazionalismo razzista di Salvini. È a partire da questa microfisica del potere che si misura un’amministrazione comunale.
Nel caso specifico delle mura, entra in gioco anche una tipologia particolare di lavoro gratuito, ovvero quello che viene proposto ai richiedenti asilo ospiti nelle strutture d’accoglienza: a Pisa, come in molte altre città, ci siamo, per così dire, portati avanti rispetto al recente decreto Minniti circa l’obbligatorietà del lavoro gratuito per i profughi, come se dovessero in qualche modo ripagare l’accoglienza ricevuta, come se i diritti fossero una qualunque merce di scambio; come se si dovesse contrarre un debito per vedersi riconoscere un diritto umano dalla “Fortezza Italia (e Europa)”.
Ci troviamo di fronte a un circuito che invece di essere basato sull’obiettivo dell’autonomia del richiedente asilo, in senso lavorativo e abitativo (ricordiamo che esistono le direttive SPRAR al riguardo), cerca invece sempre più di sfruttarne la presenza – sulla cui volontarietà sarebbe lecito quanto meno vigilare, senza appiattirsi sullo stereotipo del profugo-vittima – e la manodopera non retribuita. È un “gioco a dividere” perpetrato sulla pelle dei richiedenti asilo, verso i quali si scaglia con ancora più violenza l’accusa di «rubare il lavoro agli italiani», mentre la verità è che, nelle circostanze che abbiamo ricordato, di lavoro, quello vero, tutelato e dignitosamente retribuito, non se ne parla, per nessuno. Né per i richiedenti asilo né per i professionisti dei beni culturali.
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