Quando il mondo affoga nelle crisi, nelle guerre e in ogni tipo di emergenza, misure come la riduzione dell’orario di lavoro diventano più urgenti, scrive Cristian Gracia Palomo. Ha ragione, anche se lo fa in un articolo che, per alcuni versi, potrebbe sembrare perfino un po’ ingenuo visto da un Paese dove non si riesce nemmeno a introdurre uno straccio di “salario minimo” ed è appena stata abolita una versione incoerente, blanda, incolore del reddito di cittadinanza a condizione che… Ma come, non lo sa questo signore che solo a sollevarle certe utopie – lasciate in Italia a marcire in cantina prima non del governo più di destra del Dopoguerra ma del cambio di secolo – si potrebbe chiudere per sempre la strada perfino alla riapertura di una timida proposta sul salario minimo? E non lo sa, quel tizio, che poi, a pagare il prezzo della riduzione delle ore di “tortura”retribuite a parità di salario (per una fascia di privilegiati) sarebbero certamente i più ricattabili tra i ricattabili: i migranti, più o meno regolari, i primatisti del precariato più nero e umiliante, i disoccupati alla fame? Qui sono tempi durissimi, caro signor Palomo, mica come da voi in Spagna che avete il governo di “sinistra”, avete evitato d’un soffio il ritorno del franchismo e adesso ve la spassate manifestando e discutendo liberamente (mica tanto con la ley mordaza) di certe utopie. Oltre a quelle essenziali sul non lavoro, visto come peccato mortale, e sul fatto che di fronte al mantra di lavorare il più possibile, a poco a poco tra milioni di persone si fa inevitabilmente strada l’idea di lavorare meno per vivere più a lungo, c’è una cosa che questo articolo dice con la necessaria chiarezza. Pensare di poter giocare sempre in difesa, praticando la riduzione del danno e sposando compromessi al ribasso sempre più umilianti, è una stolta illusione. È anche per questo che dilagano le passioni tristi, la rassegnazione e la sfiducia, per l’illusione di poter portare a casa un risultato minimo quale che sia
Trabajar (lavorare). Nel suo secondo significato, la Real Academia Española (RAE), definisce il lavoro come “Avere un’occupazione retribuita in un’azienda, un’istituzione, ecc.” Il termine deriva dal latino tripalium, travaglio, uno ‘strumento di tortura composto da tre travi’. E in effetti, arrivati a questo punto, a nessuno (soprattutto se si ha già qualche anno di esperienza alle spalle) sfuggirà che il lavoro è una tortura.
È una tortura perché ci costringe a svolgere compiti più o meno sgradevoli in cambio di denaro con cui pagare diritti fondamentali come l’alloggio, il cibo o gli abiti. È una tortura perché ci toglie ciò che generiamo con le nostre mani affinché pochi possano arricchirsi con esso. È una tortura perché ci ruba il tempo di ozio e del divertimento, sia quello con le persone che amiamo che quello da soli. È una tortura perché ci fa ammalare e ci uccide: solo nel 2022 sono morte in incidenti sul lavoro 826 persone (il dato è riferito alla Spagna, ed è cresciuto del 17% sull’anno precedente; in Italia, secondo l’Inail, nei primi otto mesi del 2023 le morti di lavoro accertate sono state 657, ndt).
Una tortura che, però, ci ostiniamo ad estendere e a rendere obbligatoria. Se c’è una cosa che il consenso moderno mantiene chiara è che non lavorare, non essere una persona produttiva, che genera valore, è un peccato mortale. Infatti, non ci sarebbe peccato peggiore che avvalersi di trucchi e furbizie per ingannare l’amministrazione statale e vivere di soldi pubblici senza fare nulla. Un peccato capitale in un mondo ipercapitalista.
Eppure sarebbe utile chiedersi sul serio chi sono gli autentici pigri e parassiti. Perché, per fare solo un esempio, i proprietari di tanti appartamenti che ogni anno aumentano l’affitto senza far nulla sembrano molto simili a quella definizione. Di fatto, in tutta la Spagna accade una cosa curiosa: il 20% delle persone più ricche ha ricevuto più del 30% degli aiuti pubblici mentre il 20% più povero ha ricevuto appena il 12% del totale. E, naturalmente, quasi nessuno si è arricchito lavorando: più del 50% dei ricchi in Spagna lo sono grazie a una rendita. Quindi, il lavoro non nobilita né arricchisce. E non è nemmeno uno scudo contro la povertà: in Spagna un povero su tre ha un lavoro retribuito.
Naturalmente, in mezzo a tutto questo, vediamo anche i segni della discriminazione territoriale, razzista e di genere. Come uno di quel milione di andalusi che vanno in esilio, ho sofferto lo stigma secondo il quale ci sono interi popoli che non vogliono lavorare e che hanno la pigrizia nel sangue. Di fronte a un nord sempre operoso, c’è un sud che ama le feste e che, in fondo, si è guadagnato la povertà attraverso i sonnellini della siesta, le feste e gli scherzi.
Abbasso il lavoro… almeno un po’
Lavorare è una tortura. Ed è per questo che, poco a poco, si stanno sollevando voci che lo avversano. Però queste voci sembra possano farlo solo da una prospettiva individualistica. Ad esempio, tutte quelle criptomode e le altre truffe che pullulano sui social network e che ti assaltano ogni volta che apri un video su YouTube. Si tratta di presunte soluzioni di cui, per definizione, solo pochi potranno approfittare, lasciando sul cammino rovine e nuovi giochi rotti, soprattutto tra i più giovani. Non cercano una distribuzione più equa del non-lavoro, naturalmente, ma si traformano in una selvaggia legge della giungla e della stupidità. Si salvi chi può dagli NFT e da Bitcoin.
Per fortuna, esistono anche soluzioni più o meno collettive di fronte alla cruda violenza che il lavoro comporta. Si è visto, in parte, con le Grandi Dimissioni che hanno travolto gli Stati Uniti dopo la pandemia, accompagnate dalle Dimissioni Silenziose, che hanno portato una percentuale significativa di lavoratori e lavoratrici statunitensi a smettere di fare gli straordinari o a impegnarsi più del necessario sul lavoro. Di fronte al mantra di lavorare il più possibile, a poco a poco ha prevalso l’idea di lavorare di meno per, in sostanza, vivere di più.
In ogni caso, la soluzione che sta guadagnando più posizioni e spazio nelle discussioni in questo momento è la riduzione dell’orario di lavoro senza riduzione dello stipendio. Lavorare 4 giorni a settimana (o 32 ore a settimana), guadagnando lo stesso. È diventata la misura principale difesa da sindacati, movimenti sociali e partiti in tutte le elezioni. Nei paesi in cui sono stati condotti test pilota, i risultati sono stati spettacolari e generalmente simili: spicca soprattutto il miglioramento della salute e della felicità delle lavoratrici e dei lavoratori. Si punta però anche ad aumentare la loro efficienza, perché – essendo meno stanchi – hanno prestazioni migliori.
La Spagna, fortunatamente, sembra voler essere un Paese pioniere in questo senso. Nell’accordo governativo tra PSOE e Sumar si è deciso di ridurre la giornata lavorativa da 40 a 37,5 ore settimanali. Un primo passo necessario, ma ancora insufficiente, che speriamo possa comunque diventare realtà al più presto. E c’è da augurarsi che seguano tanti altri rapidissimi passaggi fino al raggiungimento della settimana lavorativa di 32 ore.
Di fronte a questo provvedimento, ovviamente, si levano voci critiche. Quelli di destra assicurano che così si distruggerà l’economia. Coincidenza vuole che quelle voci non provengano mai da coloro che si sfiniscono a collocare le bottiglie di olio nei ripiani di un supermercato né dai parenti di chi ha perso una persona cara per un incidente sul lavoro. Però ci sono anche voci discordanti provenienti da settori più progressisti, che sottolineano l’urgenza di controllare invece meglio gli straordinari non retribuiti, le numerose ore non conteggiate o i contratti fraudolenti piuttosto che ridurre la giornata lavorativa.
Contro i primi non vale la pena perdere molto tempo. Se gli piace così tanto lavorare, lasciamolo fare a loro. Che magari si dedichino pure a pulire il culo nelle residenze, a sventrare i maiali al macello o a servire da bere in una discoteca. Lo facciano per tutte le ore che vogliono. Però non può essere che, mentre intelligenze artificiali sempre più avanzate vengono impiegate a scrivere poesie e a disegnare bellissime tele, noi continuiamo a soffrire facendo lavori ingrati per più ore del necessario. Al secondo tipo di dissensi bisogna far notare che hanno ragione, ma che i diritti non vanno messi in competizione. Gli straordinari non retribuiti devono essere controllati e i contratti fraudolenti devono essere perseguiti. Questo però può essere benissimo fatto mentre ci muoviamo verso la riduzione della giornata lavorativa.
Lavorare è una tortura. Farlo in un sistema come quello in cui viviamo lo rende ancora più grave e doloroso. Quando il mondo è coinvolto in crisi, guerre ed emergenze di ogni tipo, misure come la riduzione dell’orario di lavoro diventano più urgenti. Perché il campo della gente comune, quello “progressista”, è da troppi anni sulla difensiva, affannandosi a parare i colpi di una destra scatenata, infuriata e cresciuta. Noi abbiamo bisogno di vittorie.
Dobbiamo ridurre la giornata lavorativa, sì, perché è giusto ed è necessario farlo. Basta di vedere la vita scorrere davanti ai nostri occhi affinché pochi possano arricchirsi. Ma va fatto anche per spingere sempre verso scenari di vita migliori. Dobbiamo progettare orizzonti desiderabili. Vincere nel campo delle idee, ma anche in quello legislativo e giuridico, è lo slancio di cui abbiamo bisogno per uscire dalla trincea e correre in campo aperto.
Quindi abbasso il lavoro. Almeno un po’. Che questa possa essere la porta d’accesso per il resto dei cambiamenti e delle trasformazioni di cui abbiamo urgentemente bisogno.
fonte e versione originale: El Salto
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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