Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita di Francesca Coin è un libro che sta raccogliendo molte attenzioni. Non solo perché analizza le enormi trasformazioni che hanno sconvolto il mondo del lavoro ma perché racconta come e perché sempre più spesso, quando le condizioni di lavoro diventano insostenibili, tanti e tante, a differenza del passato, danno le dimissioni. Scrive Carlo Ridolfi: «Non a caso l’autrice conclude il suo bellissimo e importante libro con un riferimento al Collettivo di Fabbrica Gkn, cha a Campi di Bisenzio, partendo dall’annuncio di un licenziamento di massa, sta tentando un esperimento di riconversione organizzativa e sociale, scrivendo: «Il mondo è pronto, per un sistema produttivo basato su modelli altri rispetto all’esaurimento delle nostre energie fisiche e mentali e delle risorse della Terra. Come ripete il Collettivo di Fabbrica Gkn, il cielo è l’unico limite. Tutto il resto è possibile. Insieme”. Insieme. Piccolo, ma potentissimo avverbio nel quale è riposto molto del nostro presente. E quasi tutto il nostro futuro…»
In un telegiornale di qualche giorno fa – non importa quale: ormai sono tutti uguali, infarciti di veline governative e servizi su argomenti inutili – l’ineffabile conduttrice ci informava che in Italia c’è un vero e proprio “allarme denatalità” (nel Veneto dal quale scrivo si stima che nel 2050, che è imminente, la popolazione scenderà da 5 a 4 milioni) e che invece, per fortuna, l’occupazione è in ripresa, “tranne che per le donne e per i giovani”. Al povero spettatore veniva lasciato l’interrogativo se esista o meno una correlazione tra il fatto che donne e giovani (e magari giovani donne) non trovano lavoro e quello che si fanno meno figli (parlando di italiani: nel quartiere al nord di Padova in cui vivo, che ha circa 40.000 abitanti, di cui un terzo stranieri, sono proprio questi che hanno le famiglie più numerose, permettendo ad esempio di tenere aperte classi scolastiche che in altri quartieri faticano a continuare ad esistere).
Sul tema del lavoro, delle condizioni lavorative, dei diritti rivendicati e spessissimo negati ci parla un libro che non esito a definire indispensabile. L’ha scritto Francesca Coin, sociologa che si occupa appunto di lavoro e diseguaglianze sociali, che attualmente insegna nel Centro di competenze lavoro welfare società del dipartimento di Economia aziendale sanità e sociale (Deass) in Svizzera. Il libro è Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi Stile Libero Extra. Torino, 2023. Pagg. 280. Euro 17,50). Libro indispensabile, ripeto, non semplice da leggere. Difficile e doloroso, anzi, non per il rigore dell’indagine e la qualità di scrittura, che sono esemplari, ma per le molte storie che racconta, che spesso ci stanno davanti agli occhi e altrettanto spesso cerchiamo di non vedere.
La discussione in merito non sarebbe nemmeno del tutto nuova. Ci sono stati altri momenti, nel dibattito politico e sindacale italiano (e non solo), in cui si discuteva se fosse necessario liberare “il” lavoro o liberarsi “dal” lavoro. Solo che in questi ultimi anni, come è noto ed evidente a tutti noi, sono accaduti almeno due grandi fenomeni, di livello planetario, che hanno sconvolto il mondo del lavoro, la concezione stessa di lavoro, i sistemi di organizzazione e i rapporti di forza.
Il primo fenomeno è stato ed è quello della trasformazione organizzativa e logistica resa possibile dall’avvento di sistemi informatici sempre più pervasivi ed efficienti. Ancora all’inizio degli anni Ottanta del Novecento si viveva in un mondo del lavoro basato su princìpi organizzativi di impronta fordista-taylorista e di implementazione analogica. Oggi, in qualsiasi comparto, si opera in modo affatto diverso: abolizione dei magazzini, just in time, isole produttive sempre più piccole e disseminate, con conseguente de-sindacalizzazione etc.
Il secondo fenomeno, cronologicamente recente ma che, di fatto, ha diviso la storia e la storia del mondo del lavoro in un’epoca ante e in una post è stata la pandemia di Covid19.
L’insieme dei due macro fenomeni ha comportato (le pagine del libro di Francesca Coin che raccontano la vita di lavoratrici e lavoratori nei comparti della ristorazione e della grande distribuzione sono, a questo proposito, impressionanti) il fatto che ogni uomo e ogni donna inserito nel processo produttivo si senta e sia fatto sentire come una monade, singola e del tutto fungibile, staccata da altri ed altre.
È così diventata di uso comune – soprattutto in un Paese come il nostro, caratterizzato dalla presenza in molti comparti produttivi di piccole e piccolissime imprese, spesso a conduzione famigliare – la pratica che Coin definisce con grande efficacia come “la trappola della passione”. Il lavoro non è più il diritto, sancito a partire dall’art. 1 della nostra Costituzione, ma un privilegio, un favore che qualcuno ti fa, una gentile concessione. Per esser grati di ciò si dovrebbe concepire le proprie giornate come esclusivamente dedicate al lavoro e al posto di lavoro, nel quale si verrà trattati o in modo paternalistico (“siamo una grande famiglia”, “ora fai parte della squadra”) o, o anche tutte e due le cose, a seconda di quali siano i rapporti di forza e di dominio richiesti, con pratiche di umiliazione, di violenza psicologica e a volte fisica, di mobbing (che, non a caso, è più consueta nei confronti di donne o di persone lgbtqia+ o di stranieri magari con un altro colore della pelle).
Quando le condizioni diventano insostenibili, si danno le dimissioni. Producendo non solo numeri importanti relativi alla disoccupazione, ma anche carenze di organico che la strumentalissima pubblicistica degli ultimi anni ha attribuito o a caratteristiche generazionali (“i giovani non hanno voglia di lavorare”) o a decisioni politiche che erano orientate ad un welfare di base. A questo proposito Francesca Coin dimostra, dati alla mano e con argomentazioni molto approfondite, quanto l’attribuzione al Reddito di cittadinanza di tutte le colpe delle storture quantitative e qualitative dell’attuale mondo del lavoro italiano sia del tutto pretestuosa e infondata.
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Sono fenomeni che non si stanno verificando solo nei comparti privati, ma che hanno – in questo senso il capitolo “Il tempo di respirare” è illuminante – risvolti non di poco conto anche nel pubblico, a partire da quel mondo della sanità che la pandemia ha messo a durissima prova e che le decisioni politiche sia precedenti che successive stanno continuamente minando.
Ci sono nel libro alcuni (molti, in realtà, purtroppo non tutti messi a fuoco nello spazio di una recensione) passaggi che offrono spunto di riflessione ulteriore.
È interessantissimo, ad esempio, il passaggio in cui l’autrice riporta l’analisi di Gillian Tett, editorialista del Financial Times, secondo la quale:
“Per Tett, dietro le Grandi dimissioni c’è, sì, una questione economica, ma anche un radicale disallineamento valoriale. La tecnologia, il consumismo e la profilazione degli utenti negli anni hanno abituato le nuove generazioni a personalizzare tutto, «dai programmi di viaggio alla musica che ascoltiamo», diffondendo l’abitudine a modellare le cose a nostro piacimento invece di farci adattare a un pacchetto preimpostato. Tett definisce i millenial la ‘generazione playlist’, abituata a plasmare il mondo alle proprie esigenze, ben più di quanto sia disposta ad adattarsi a quelle altrui” (pag. 239).
Analisi molto convincente, anche solo confrontandola con qualche riscontro empirico, che però mi pone l’interrogativo se essa non sia da limitare a un mondo a nord ancora (se pur, sempre meno) dotato di margini di benessere, che certamente non sono quelli al di sotto della sussistenza del mondo a sud. E mi fa anche chiedere se questo stato di cose (“plasmare il mondo alle proprie esigenze”) non sia a lungo andare intollerabile e rischioso per chi voglia perpetuare (e purtroppo gli esempi non mancano) un sistema di dominio sui corpi, sulle menti e sulle coscienze, tanto da “correre ai ripari” riproponendo come soluzione gli arruolamenti e le chiamate alle armi. Cioè: il ritorno della logica di guerra come orizzonte plausibile se non addirittura auspicabile, non corrisponde anche, oltre che all’evidente interesse economico dei produttori di armi, a una necessità strutturale (per chi pensa il mondo come un sistema rigido in cui esistono dominatori e dominati) di restaurazione dei modelli di disciplina e di ordine?
Quando poi Francesca Coin parla del mondo delle attività culturali e dell’editoria, e scrive (con precisa ragione argomentativa):
“L’idea del lavoro come passione è perniciosa (…). Queste concezioni del lavoro sono principalmente forme di deregolamentazione, attraverso le quali si legittima un graduale smantellamento del diritto del lavoro, sdoganando una contrattazione individuale che lascia le persone in balia della discrezionalità datoriale”, (pagg. 260-61), sarebbe interessante chiedersi quanto di queste abitudini abbia pervaso quelle zone grigie del paravolontariato e pseudovolontariato nel quale, in nome a volte anche di altissimi valori etico-morali-civili, vengono di fatto sfruttate ore e ore di lavoro di persone non pagate o sottopagate o malpagate.
Così come sarebbe da approfondire la discussione su come e quanto l’attuale situazione del mondo del lavoro impatti con le prospettive del sistema educativo. Cioè: se, oggi, la richiesta pare essere almeno in settori apparentemente meno qualificati e qualificanti come quello della logistica, della grande distribuzione, della ristorazione, ma senza escludere altri settori solitamente considerati più “elevati” come quello dell’editoria e del giornalismo – non quella di una sedimentazione di conoscenze e competenze sempre più profonde e raffinate, ma quella di saperi provvisori, ‘usa e getta’, da adoperare e sfruttare temporaneamente; se così è: come si strutturerà il sistema educativo che sempre di più si propone come legato e vincolato alle prospettive di lavoro?
Più volte nel libro l’autrice – sarebbe bello poterle dar torto, ma purtroppo le sue ragioni sono incontrovertibili – richiama il fatto che, forse anche a causa di una insopportabile retorica politica finto-progressista che ha invocato per anni “l’uscita dal Novecento”, le condizioni di sfruttamento, di carico di lavoro, di voluta e conclamata disattenzione per gli orari hanno riportato la lancetta dell’orologio della storia del lavoro all’Ottocento.
Francesca Coin offre, nelle ultime pagine, un elenco di proposte:
“C’è un unico modo efficace per costruire una relazione salariale: introdurre forme di retribuzione diretta, indiretta e differita in grado di offrire una contropartita a chi vende la propria capacità di lavoro. Lo abbiamo detto prima: perché una relazione esista, è necessario ascoltare il lavoro: alzare i salari, aumentare gli organici, la sicurezza del e sul lavoro, introdurre un salario minimo legale, contrastare il lavoro sommerso e il dumping contrattuale, introdurre un congedo genitoriale paritario e nuovi servizi per l’infanzia, abolire tutte quelle forme di lavoro gratuito che abituano gli studenti a lavorare gratis. Bisogna, inoltre, potenziare le misure di welfare universalistico, perché migliorare la qualità del lavoro significa anche consentire alle persone di dire no al lavoro povero”. (pag. 274).
Ce ne sarebbe per un programma sensato per qualsivoglia movimento o partito che volesse autodefinirsi “di sinistra”.
Di fatto, se è vero, come purtroppo è vero, che siamo tornati all’Ottocento, forse è dall’Ottocento che si dovrebbe ripartire. Senza nostalgie o rimpianti, e facendo il debito conto con le trasformazioni tecnologiche e culturali. Ripartendo dall’origine logica di quelli che sono stati prima i movimenti di solidarietà e di comunanza che hanno dato il via alle organizzazioni sindacali e poi che hanno ispirato e favorito la strutturazione dei partiti socialisti e comunisti. Dalle Società di mutuo soccorso, dalle leghe operaie e contadine, che oggi dovrebbero forse chiamarsi leghe dei riders o dei cognitive working poors (quell’esercito di lavoratori e lavoratrici ipersfruttati e sottopagati che affollano musei, biblioteche, teatri, festival cinematografici, redazioni di giornali o di case editrici). Non a caso l’autrice conclude il suo bellissimo e importante libro con un riferimento al Collettivo di Fabbrica Gkn, cha a Campi di Bisenzio, partendo dall’annuncio di un licenziamento di massa, sta tentando un esperimento di riconversione organizzativa e sociale, scrivendo:
“Il mondo è pronto, per un sistema produttivo basato su modelli altri rispetto all’esaurimento delle nostre energie fisiche e mentali e delle risorse della Terra. Come ripete il Collettivo di Fabbrica Gkn, il cielo è l’unico limite. Tutto il resto è possibile. Insieme”, (pag. 277).
“Insieme”. Piccolo, ma potentissimo avverbio nel quale è riposto molto del nostro presente. E quasi tutto il nostro futuro.
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Mariano Rampini dice
Mi colpisce nel profondo e mi fa risuonare corde antiche nel pensiero, l’accenno a un ritorno alla fine 800/primi del 900. Sono stato un giornalista sottopagato (svolgevo lavori per tre testate diverse e venivo pagato per una sola), ho lavorato a tempo pieno durante la cassa integrazione concessa alla piccola casa editrice per la quale lavoravo. “quando tira il vento i primi a volare sono gli stracci”: questa la rassicurazione con la quale benevolmente mi si spingeva – l’articolo lo segnala con la massima esattezza – a dare di più per la squadra. Nel manifatturiero questi fenomeni sono particolarmente evidenti. Sfuggono invece nel settore della comunicazioni situazioni come quelle di stagisti costretti a lavorare come gli altri senza percepire una vera paga. E a questo punto – giunto più o meno alla riva dopo una lunga nuotata dopo il naufragio: sono in pensione dal 2021 – non posso non pensare a un panorama nel quale la parola d’ordine sia: DIMISSIONI, TUTTI E SUBITO. Lasciare insomma il padrone nelle sue braghe bianche a chiedersi con chi sostituire lavoratori con esperienza decennale dei quali si fa presto a dimenticarsi. Tanto il lavoro lo fanno lo stesso perché “c’è sempre qualcuno disposto a sostituirti”. Balla colossale questa… Bisognerebbe forse tornare a forme di sciopero nazionale paralizzando i centri nevralgici del Paese. E non per un giorno ma per una settimana o più. Formando gruppi di sostegno per i concittadini più fragili, garantendo servizi minimi ma autogestiti dalle Società di mutuo soccorso o dalle Leghe (quelle operaie, è ovvio)… contro questo sfruttamento massiccio e indiscriminato si deve tornare a un’unità di classe che pare scomparsa a favore di un bisogno individuale indotto (quello cioè sul quale trovavano le loro fondamenta le Corporazioni del ventennio)…un sogno? Chissà? Ma è bello farlo…
Carla Visentin dice
Basta che Salvini non blocchi lo sciopero come ha fatto oggi con quello dei trasporti
Nello DE PADOVA dice
Tutto bello, tutto vero. Ma solo a condizione di mantenere i livelli di consumo, e quindi di produzione, a quelli attuali.
Si perchè le cose cambiano radicalmente se invece si dovessero ridurre i consumi (e quindi le produzioni) almeno del 50% (alcuni dicono dell’80%) per essere in equilibrio col pianeta, come si deve, in una comunità come quella degli italiani (ma a livello europeo le cose non sono molto diverse e nel resto dell’occidente “sviluppato” sono anche peggio).
Si perchè se tale riduzione è necessaria è evidente che il sistema non regge più.
Perchè, a meno di mercificare ogni cosa (compreso l’uso del marciapiede sotto casa), diviene evidente che le attività umane veramente necessarie al benessere del singolo e della comunità sono quelle di cui oggi fruiamo gratuitamente o sotto costo: servizi per garantire salute, istruzione, cultura, giustizia, sicurezza, ecc… Ed infrastrutture per garantire la fruibilità di tali servizi (scuole, ospedali, aule giudiziarie) o altri diritti/bisogni di base (strade, ferrovie, acquedotti, ecc…).
Oggi la garanzia della gratuità di tali servizi è data dalla disponibilità di tasse sui redditi di altre produzioni (perchè quelle degli insegnanti, dei magistrati, degli infermieri, ma anche quelle delle imprese e delle cooperative che lavorano per il “pubblico”, sono una partita di giro), e sulla vendita di tali prodotti: cellulare, TV, Mobili usa e getta, Jet privati e voli low cost, piscine in marmo per ville faraoniche o in plastica gonfiabili da balcone, ecc…
Per ridurre tali consumi (e quindi produzioni) da dove vogliamo cominciare? Sicuramente da queste ultime, ma in questo modo non avremo le tasse per pagare infermieri ed insegnanti.
Ed allora? Ed allora è l’intero modello che va rivisto. Il lavoro gratuito (a fronte della fruizione di questi servizi ed infrastrutture di base) deve diventare la norma, e non sottoforma di volenterosi cittadini più o meno pagati dalle associazioni culturali e di volontariato, ma di obbligo (per lo meno morale) di tutti i cittadini. Una sorta di “servizio civile universale” cui tutti dobbiamo contribuire per garantire il benessere di base. Lasciando al lavoro retribuito il compito di procurarsi un reddito non per soddisfare i bisogni universalmente riconosciuti ma i desideri, sempre che questi siano ambientalmente e socialmente sostenibili.
Continuare ad inseguire la “piena occupazione” porterà i “progressisti” e la “sinistra” dritto dritto dove l’ultraliberismo ci stà dirigendo: verso la mercificazione di ogni attività della nostra vita fino a quando qualcuno, quando vorremo attraversare la strada per andare a sederci sulla panchina del marciapiede di fronte, ci dirà “da dove vieni, dove vai…..UN FIORINO”
Nello DE PADOVA dice
Per una trattazione più dettagliata della proposta di cui sopra: http://www.cnms.it/attachments/article/201/CNMS-Un_altro_lavoro_download.pdf
Nello DE PADOVA dice
Per un’analisi più chiara di come ridurre produzione e consumi senza l’ossessione della piena occupazione: https://www.decrescitafelice.it/2022/02/23008/