Gli Stati uniti si preparano all’insediamento di Donald Trump. Quella cerimonia, dice Chris Carlsson, certificherà molte cose. La prima: il neoliberismo e la democrazia liberale, non solo negli Usa, sono morti. La seconda: Trump e i suoi accoliti si preparano al grande teatro della crudeltà per umiliare e mettere “al loro posto” prima di tutto donne e neri. La terza: dalla crisi delle democrazie emerge ovunque un capitalismo clientelare con un vasto apparato di sorveglianza tecnologico per controllare il dissenso. La quarta: non dobbiamo essere affranti e sentirci impotenti, questo sistema che prende forma non funzionerà, entrerà in crisi, probabilmente a partire dalle conseguenze delle crisi ambientale e climatica. “La sorveglianza ad alta tecnologia, il mercato e la manipolazione delle menti possono arrivare solo fino a un certo punto. Alla fine la capacità umana di autonomia e resistenza (e noia) sconfiggerà gli sforzi di autocrati imbranati che non comprendono la complessità sociale e pensano di poter imporre l’obbedienza alla società attraverso la repressione e la punizione. Questa roba non funziona…”. Forse ha ragione Bifo: la democrazia borghese è stata una trappola, aggiunge Carlsson, per chi pensava di cambiare il mondo. Adesso non sappiamo quando, dove e come emergeranno non solo una resistenza efficace ma soprattutto una visione del mondo e della vita che entusiasmerà tante persone, “abbastanza da spingerle a rovesciare il dominio di questa élite così platealmente folle…”. “Alla stregua di quanto fa John Holloway io dico che è la nostra umanità di fondo la base dei nostri desideri e della capacità di trasformare radicalmente il nostro modo di vivere e di ripensare il modo in cui produciamo la nostra vita insieme…”
Mi sembra bizzarramente appropriato ritrovarmi per due ore nel limbo della stanza dei giurati alla Hall of (In)Justice di San Francisco. Gli impiegati ci hanno ordinato più volte di restare qui scusandosi perché i tribunali non erano pronti per noi. Abbastanza normale suppongo, ma è una dimostrazione ancor più vivida di come le istituzioni civiche già marce cominceranno a scricchiolare, cigolare e probabilmente a crollare mentre si afferma un’autocrazia formale ed eletta dal popolo (a fine giornata mi hanno lasciato andar via a causa di questioni organizzative legate alla durata del processo).
Non ho votato né per Harris né per Trump, e non voto un presidente fin dai tempi di Jimmy Carter nel 1976! Semplicemente non credo in questo modello nel suo complesso, e mi sembrerebbe ipocrita fingere il contrario. Il mio voto si può più propriamente classificare nella categoria di “riduzione del danno”, ma capisco perché così tante persone hanno rifiutato Harris e i democratici, soprattutto nella versione aziendalista che hanno presentato in questa campagna (più o meno come nella fallita campagna di Clinton del 2016). Dovrebbero davvero vergognarsi di aver abbracciato in quel modo i fottuti Cheney! L’endorsement di Dick Cheney avrebbe dovuto essere ripudiato con forza. Cheney è un criminale di guerra, un affarista e un essere umano orribile da ogni punto di vista. Sua figlia non è molto meglio, anche se le sue mani sono un po’ meno sporche. Ma non fa troppa differenza.
Stavolta il neoliberismo è morto! E probabilmente anche la democrazia liberale. Trump ha promesso ai suoi sostenitori cristiani che se si fossero presentati alle urne per eleggerlo non avrebbero mai più dovuto votare. Molti di noi hanno dato per scontato con una certa leggerezza che il sistema ha bisogno del vuoto rituale delle elezioni regolari come strumento per dimostrare il suo sostegno popolare e la sua legittimità. Forse, o forse no! Forse la “legittimità” si è tramutata in qualcos’altro, e oggi sarà ottenuta offrendo alle masse affamate la giusta combinazione di panem (poco) e (molti) circenses. Di una cosa possiamo stare certi: Trump e i suoi accoliti stanno entusiasticamente preparando il grande Teatro della crudeltà per soddisfare il desiderio di punizione dei loro seguaci, per saziare la loro voglia di infliggere dolore, umiliazione, voglia di rimettere “al loro posto” donne e persone nere.
La cultura statunitense satura la società di una violenza senza limiti: dallo splatter dei film di Hollywood all’industria multimiliardaria dei videogiochi (dominata da prodotti filo-Pentagono a sostegno dell’esercito “volontario”), dai brutali incontri di MMA della UFC all’assurdo circuito del “wrestling professionale”, così come anche tutto il football domenicale della NFL e tutti gli altri lucrativi orrori creati per assorbire l’attenzione delle persone. La violenza dilagante delle armi, lo stillicidio di notizie quotidiane in TV dove “se c’è sangue fa ascolti”, e la rappresentazione distorta di una inesistente epidemia di reati, sono tutti fattori che contribuiscono all’isolamento solitario e impaurito nel quale sono intrappolati sempre più statunitensi.
Si è discusso molto della crisi di una visione condivisa della realtà. Se è vero che le campagne porta a porta non hanno potuto intaccare la visione del mondo di quelle persone che ricevono le notizie tutte dai social media o dai canali Fox, allora senz’altro è in atto una psicosi delirante che attanaglia milioni di persone. Dire la verità non è un antidoto efficace a questo sistema senza precedenti di propaganda e controllo delle menti. Quelli di noi che rimangono al di fuori del loro controllo sono una minoranza sempre più ristretta, e molti dissidenti nei prossimi mesi e anni andranno incontro alla criminalizzazione e alla violenza di stato. È una prospettiva sconfortante, senza dubbio.
Franco Berardi “Bifo” porta lo sconforto e la disperazione a un livello ancora più estremo. Il 9 novembre ha scritto un articolo intitolato “Endgame” (“Finale di partita“; qui ho modificato l’ordine dei paragrafi):
Pur essendo, ogni singolo paese, sull’orlo della guerra civile, i popoli occidentali e suprematisti sono uniti nella comune impresa del genocidio e della procreazione obbligatoria. Per molto tempo ci siamo auto-ingannati ascoltando favole di una fantastica moltitudine pronta a combattere contro un fantastico Impero: non abbiamo avuto il coraggio intellettuale di riconoscere l’impotenza sociale, e l’esaurimento di quell’energia mentale senza la quale i movimenti sociali sono fuochi di paglia.
Il trionfo di un uomo che riunisce in sé il razzismo del Ku Klux Klan, l’affarismo criminale delle mafie, la violenza machista e l’assolutismo finanziario è il miglior punto di osservazione dal quale finalmente guardare in retrospettiva al XX secolo e, in una certa misura, immaginare le linee evolutive del XXI secolo. Il trionfo di Trump è la dimostrazione definitiva che il movimento dei lavoratori ha fatto un errore colossale fin dal tardo XIX secolo, accettando il terreno della politica come terreno per l’emancipazione. Sia il bolscevismo rivoluzionario che il riformismo socialdemocratico hanno accettato il terreno preparato dalla borghesia, e su quel terreno hanno perso tutte le battaglie, fino al punto di essere definitivamente cancellati dal panorama dell’evoluzione sociale. C’era forse un altro piano su cui fondare l’autonomia sociale, diverso da quello del potere politico? Certo che c’era, ed era il piano della vita quotidiana, dell’esistenza collettiva, che spontaneamente tende a disertare il totalitarismo economico e politico.
I lavoratori oggi sono isolati, psicologicamente fragili, incapaci di organizzazione e solidarietà, perché la sinistra politica ha barattato l’autonomia in cambio della democrazia, e la democrazia si è rivelata essere una truffa, una trappola. Il governo basato sulle elezioni sarebbe una buona idea se fossero soddisfatte due condizioni: la prima è la libera formazione dell’opinione e della volontà. La seconda è l’efficacia della volontà politica nel determinare le linee di sviluppo dell’economia e quindi della società. Entrambe queste condizioni non sono mai esistite nella storia del ventesimo secolo.
Fin da quando lavoravo alla rivista Processed World (una raccolta degli scritti di quelle pagine è pubblicata in Ribellione nella Silicon Valley. Conflitto e rifiuto del lavoro nel postfordismo, ed. Shake, 1998) ho sempre pensato che il nocciolo del problema fosse il rifiuto da parte dei “lavoratori organizzati” dell’agenda (o le agende) del capitale. Non la pensavo negli stessi termini in cui ne parla Bifo, come un rifiuto in toto del campo della democrazia borghese, considerata una trappola, ma ora credo che abbia ragione. Alla stregua di quanto fa John Holloway, che rifiuta la categoria stessa di “lavoratore” come elemento di partenza della rivolta, io dico che è la nostra umanità di fondo la base dei nostri desideri e della capacità di trasformare radicalmente il nostro modo di vivere e di ripensare il modo in cui produciamo la nostra vita insieme. Perché per quanto questi risultati elettorali possano farci sentire affranti e depressi, la disastrosa realtà del caos climatico – siccità e desertificazione in espansione, tempeste e alluvioni incontrollabili, collasso delle produzioni agricole e distruzione delle fonti di acqua dolce – è di gran lunga più grave della questione di chi suona la lira mentre Roma (o meglio, il pianeta) brucia.
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Probabilmente potrei trovare spunti interessanti in decine di altre analisi retrospettive, ma per ora ne citerò solo altre due. Chiunque abbia bazzicato la politica di sinistra nella Bay Area di San Francisco nell’ultimo decennio, e anche un po’ oltre, essenzialmente il periodo post-Occupy, sa quanto gran parte di questa cultura sia diventata assurdamente giudicante e accusatoria. Nessuno spinge la “cancel culture” come i trumpisti, ma è innegabile che la politica dell’identità e i tentativi di purificare tutte le espressioni di “linguaggio cattivo” hanno contribuito molto a minare quel che ancora rimaneva della cultura della sinistra. Invece di un vasto assortimento di persone operano per il bene comune, manifestandosi solidarietà reciproca, ci siamo ritrovati con gruppi sempre più ristretti che degenerano in sette moraliste e intolleranti. Se non appartenevi a uno di questi gruppi in modo esplicito, sulla base dell’identità o dell’ideologia, diventavi qualcuno di cui sospettare e diffidare. Io non mi sono mai sentito personalmente attaccato o escluso, ma anche perché tendevo a evitare di unirmi a gruppi gestiti da altri. È difficile avere una misura di quante persone avrebbero potuto unirsi a una cultura popolare di sinistra più accogliente negli ultimi anni se questa fosse esistita. Ma poiché la sinistra, che già viveva un lungo declino, si è per lo più estinta negli anni ’10 del 2000, non lo sapremo mai.
Lee Fang tenta di offrire una spiegazione più ragionata del perché così tanti uomini abbiano votato per Trump:
Immaginate un elettore diciottenne che entra per la prima volta nella cabina elettorale. Ripensando alla sua infanzia e adolescenza, questo giovane uomo pensa che lui e gli altri membri della sua categoria non sembrano affatto degli oppressori. Anzi, sono persone che annegano nei problemi. Una persona di quell’età avrà raggiunto l’adolescenza mentre il movimento #MeToo prendeva piede a livello globale. Il biasimo legittimo verso i maschi abusanti di alto profilo si è rapidamente trasformato in una diffusa cultura della denuncia, per cui ragazzi e giovani uomini venivano sospettati di perpetuare il patriarcato e la cultura dello stupro. Il normale impaccio dell’amore giovanile e della curiosità romantica adolescenziale si sono trasformati da un giorno all’altro in comportamenti suscettibili di azioni disciplinari da parte degli amministratori scolastici.
L’inizio della scuola superiore è coinciso per loro con la chiusura delle scuole durante la pandemia da parte dei burocrati liberal. Non avendo altra scelta, quei giovani sono rimasti a languire a casa tra lezioni online e una socializzazione virtuale che di fatto equivaleva a uno scrolling compulsivo di cattive notizie sui social (doomscrolling). L’anno scorso uno studio ha rilevato che due terzi dei giovani maschi pensano che “nessuno mi conosce davvero”, e che un giovane su tre non aveva trascorso del tempo con persone al di fuori della propria famiglia nella settimana precedente all’intervista. I sondaggi mostrano che il numero di giovani uomini che dicono di non avere neppure un amico intimo è aumentato di cinque volte dal 1990.
E i nuovi vizi sembrano fare particolarmente breccia in questa coorte. La recente legalizzazione della marijuana e delle scommesse sportive online in molti stati ha alimentato l’impennarsi della percentuale di giovani uomini dipendenti da erba super-potente e dal gioco d’azzardo via app. Anche altri comportamenti compulsivi più tradizionali, come i videogiochi e la pornografia, colpiscono i giovani maschi molto più che le donne. Anche lo spreco di tempo e la perdita di risparmi, aggravati da un’esistenza di profonda solitudine, possono condurre a morte e disperazione. Secondo le statistiche più recenti, il tasso di suicidi dei giovani maschi è 3,8 volte superiore a quello delle donne. In alcune comunità, l’attrazione magnetica della violenza nichilista e del crimine legato alle gang ha un particolare fascino.
Questo non vuol dire che io giustifichi chi vota Trump. Qualunque forma di malcontento o rabbia sperimentino queste persone, anche comprensibile, sostenere un truffatore mentalmente instabile con un curriculum di imbrogli e abusi sessuali che adotta apertamente discorsi misogini e razzisti ad ogni occasione, è per me inconcepibile (ma riconosco che a quanto pare per molti questi sono non difetti, ma tratti positivi). Fang illustra bene il suo argomento, ma in che modo questo possa portare qualcuno a votare realmente per una persona come Trump, con tutto quello che sappiamo, è al di là della nostra comprensione. Naturalmente, non si tratta solo di quell’idiota di Trump ma anche dei bulli perversi e degli ottusi bigotti che lo circondano, gli xenofobi e gli affiliati al Ku Klux Klan, i nazionalisti cristiani e le donne antifemministe dei sobborghi residenziali, che ora controlleranno le leve del governo: questa è la reale conseguenza del voto del “burn it down” [“brucia tutto”, slogan dei fan di Trump nella precedente campagna] per un ritorno nichilista a un passato che non è mai esistito.
Dopo l’emergere della campagna di Bernie Sanders nel 2016, che riaccese l’entusiasmo di un’ampia schiera di persone in sostegno a un programma socialdemocratico, i proprietari del Partito democratico hanno serrato i ranghi e neutralizzato quella minaccia. Lo hanno fatto di nuovo nel 2020, questa volta guidati da Obama, che ha spinto la maggior parte dei candidati fuori dalla corsa unendoli in sostegno a Biden. È vero che Biden ha concesso ai sostenitori di Sanders ed Elizabeth Warren di affermarsi in posizioni chiave del Dipartimento di Giustizia e della Commissione per il commercio federale per implementare le prime azioni di un cambiamento politico anti-monopolista. Ma sembra che queste iniziative non sopravviveranno all’ingresso di Musk nell’entourage di Trump. Tuttavia, è ovvio ormai da tempo che l’odio di persone come Kamala Harris, Nancy Pelosi, Obama verso quella che per loro è “La Sinistra” è di gran lunga più forte della loro paura e opposizione nei confronti della destra radicale. Come i centristi rammolliti del ventesimo secolo, costoro preferiscono molto più languire in veste di opposizione leale agli autocrati di destra che stringere un’alleanza con chiunque sia lontanamente vicino alle idee del socialismo, tanto meno con chi è ancora più a sinistra. I movimenti popolari dal basso sono sempre interpretati come una minaccia per l’ordine sociale e la nostra recente rivolta contro la violenza poliziesca, che a metà del 2020 sembrava stesse trasformando il discorso pubblico, oggi ha definitivamente capitolato a fronte della feroce reazione, pienamente supportata da Kamala Harris (quella che ha abbracciato Cheney) e dai suoi sostenitori.
Ryan Grim ha pubblicato un pezzo di Krystall Ball intitolato Bernie avrebbe vinto, che segue una linea di ragionamento simile. Ball sottolinea che Harris ha trascorso più tempo a fare campagna elettorale con Liz Cheney che con Shawn Fain, carismatico leader di base del sindacato United Autoworkers (per non parlare della sua presa di distanza da Alexandria Ocasio-Cortez e della sua Squad [il gruppo di parlamentari progressiste], rifiutando di far salire sul palco per pochi minuti una deputata palestinese durante la Convention nazionale democratica, ecc).
Il nocciolo della questione è questo: i democratici tentano ancora di condurre una campagna neoliberalista in un’epoca post-neoliberale. L’ideologia neoliberista, introdotta con titubanza da Jimmy Carter, pienamente abbracciata da Ronald Reagan, e poi consolidatasi in entrambi i partiti con Bill Clinton, adottava una logica del laissez-faire per cui la volontà del mercato avrebbe soppiantato la volontà nazionale o i diritti umani, ma che d’altra parte avrebbe portato una crescita generale dei redditi e creato un dinamismo tale per cui questo scambio sarebbe stato in fin dei conti accettabile. Clinton, dopo tutto, ha fondato la sua azione di governo sulle basi poste dall’epoca Reagan: taglio delle tasse e del sistema di protezione sociale, e radicalismo del libero mercato (di cui il NAFTA è stato l’esempio principale). In ultima analisi, naturalmente, questa strategia ha alimentato una estrema disuguaglianza della ricchezza.
Ball sottolinea anche come l’establishment di Clinton abbia alimentato la divisione nello scontro per sconfiggere la campagna presidenziale di Sanders nel 2016:
Hillary Clinton e i suoi alleati lanciarono una campagna propagandistica per presentarsi come più a sinistra di Bernie, etichettando lui e i suoi sostenitori come sessisti e razzisti per aver messo al centro del loro programma la politica di classe e non quella dell’identità. Questo a sua volta ha scatenato un ciclo infernale di uso del politicamente corretto woke, di costruzione di categorie demografiche parcellizzate e di antagonismo verso i bianchi della working class che non hanno fatto altro che rendere più ripugnante il Partito democratico praticamente a chiunque. Quando questi elettori hanno avuto una possibilità di scelta tra Trump e Bernie, hanno scelto Bernie. Per molti di loro, ora che la scelta è tra Trump e l’involucro ormai svuotato del neoliberismo, la loro preferenza va a Trump… con questa vittoria di Trump la politica della destra autoritaria ha vinto la battaglia ideologica per chi prenderà il posto dell’ordine neoliberista in America.
Perciò gli elettori statunitensi hanno votato per l’autocrazia, per questa bizzarra versione americana di Berlusconi, ma chiaramente con un potere di portata mondiale di gran lunga superiore a quello che il buffone italiano abbia mai avuto. Ma l’epoca neoliberista non è finita solo per gli Stati Uniti. In Germania Alternative fur Deutschland guadagna costantemente consensi e alcuni prevedono che, con il disintegrarsi dello status quo centrista, possa prendere il potere in un futuro non molto distante. Lo stesso sta accadendo in Francia, dopo che il nazionalismo di ultradestra di Le Pen ha vinto la maggioranza in una recente tornata elettorale, per poi perdere contro una improbabile alleanza elettorale che va dall’aziendalismo macronista a una versione di “comunismo” di estrema sinistra. Nel Regno Unito i conservatori post-Brexit sono andati in frantumi, ma il governo laburista appena eletto non sembra in alcun modo in grado di andare oltre un neoliberismo trito e ritrito.
Credo che stia vincendo il modello cinese. Un modello che non ha nulla a che fare con il comunismo che infesta gli incubi dei vecchi combattenti della Guerra Fredda. Un modello che consiste in un capitalismo clientelare gestito da uno stato a partito unico, con un vasto apparato di sorveglianza per controllare il dissenso e le opinioni politiche usando le tecniche più all’avanguardia. I repubblicani, con la conquista di presidenza, camera e senato, e con il sostegno platealmente politicizzato della Corte suprema e di molti tribunali minori, si avviano su una traiettoria che – se giocheranno le carte giuste – potrà permettergli di consolidare un regime monopartitico. Considerato l’ingresso ormai diretto di Musk nel governo (sebbene in un ruolo che potrebbe diventare cerimoniale e a breve termine) e la stretta relazione tra JD Vance, Peter Thiel (fondatore tra le altre cose della società di tecnologie di spionaggio Palantir) e il vasto settore capitalistico delle tecnologie di sorveglianza, c’è da aspettarsi un’integrazione sempre più forte delle capacità da panopticon delle aziende private nelle operazioni politiche dello stato. Allo stesso tempo, l’enorme investimento nei modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) e la vasta espansione dei data center (che hanno un folle fabbisogno energetico e idrico) implica che il settore tecnologico dipenderà massicciamente dall’aiuto del Pentagono. Questo è il motivo per cui tutte le grandi società tecnologiche di recente hanno virato verso gli appalti del settore difesa, dai droni dotati di intelligenza artificiale alla fanteria robotizzata, e oltre. La traiettoria logica di questi processi è uno stato militarizzato a partito unico impegnato nel tentativo di controllare la sua popolazione domestica attraverso la sorveglianza, la censura e il carcere.
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Ma questa roba non funziona! La probabilità di catastrofici fallimenti militari, simili a quelli che abbiamo visto verificarsi fin dai tempi del Vietnam, e ancor più nettamente in Afghanistan e Iraq, incombe su tutti noi. Per quanto tempo il Grande Fratello potrà convincerci che la guerra contro l’Oceania o l’Estasia sta andando alla grande? E poi il nemico improvvisamente cambierà, e il vecchio avversario sarà un nemico… vi suona familiare?
E non funziona neppure sul piano interno. La sorveglianza ad alta tecnologia, il mercato e la manipolazione delle menti possono arrivare solo fino a un certo punto. Alla fine la capacità umana di autonomia e resistenza (e noia) sconfiggerà gli sforzi di autocrati imbranati che non comprendono la complessità sociale e pensano di poter imporre l’obbedienza alla società, come un padre severo, attraverso la repressione e la punizione. Questa roba non funziona!
Ma non siamo in grado di dire dove emergerà una resistenza efficace, quante volte sarà sconfitta prima di vincere, e quale visione della vita entusiasmerà le persone abbastanza da spingerle a rovesciare il dominio di questa élite così platealmente folle. E per fugare ogni dubbio sul fatto che questa gente è da considerare folle, nel resto di questo articolo cambiamo direzione e parliamo del nuovo libro di Andreas Malm e Wim Carton, Overshoot: How the World Surrendered to Climate Breakdown (Overshoot: Come il mondo si è arreso al collasso climatico), appena pubblicato da Verso.
In passato ho letto diversi libri di Malm: The Progress of This Storm: Nature and Society in a Warming World (“Il progresso di questa tempesta. Natura e società in un mondo che si scalda”); How to Blow up a Pipeline (Come far saltare un oleodotto: imparare a combattere in un mondo che brucia, traduzione di Vincenzo Ostuni, Milano, Ponte alle Grazie, 2024); White Skin, Black Fuel: On the Danger of Fossil Fascism (“Pelle bianca, oro nero: Il pericolo del fascismo fossile”), quindi ho una certa familiarità con il suo eccellente lavoro (e molti altri titoli ci aspettano). Ho ordinato Overshoot pochi giorni dopo la sua pubblicazione e l’ho letto immediatamente. Come la raccolta White Skin, Black Fuel, anche questo libro mi ha tenuto incollato alla pagina. Malm e Carton offrono qui un’analisi chiara della vuota farsa dei negoziati sul clima a partire già da diversi anni fa. Io ero a Copenaghen nel 2009, ormai ben quindici anni fa. L’amministrazione Obama in quella occasione fece naufragare qualsiasi risultato significativo, e poi appena pochi giorni dopo il vertice sul clima di Parigi del 2015 (tanto sbandierato per aver raggiunto la firma di USA, Cina e altri su accordi volontari, e inutili), lo stesso Obama seguendo la sua strategia di differenziazione energetica e climatica battezzata “all of the above” firmò la legge che abolì il divieto di esportare petrolio dagli Stati Uniti, in vigore da 40 anni.
“Credo che questo momento possa essere un punto di svolta per il mondo”, disse Barack Obama dalla Casa Bianca il 14 dicembre 2015… Quattro giorni dopo, il venerdì, mise la sua firma su un disegno di legge che avrebbe abrogato il quarantennale divieto di esportazione di petrolio dagli USA. Sedici compagnie petrolifere avevano fatto fronte comune per chiedere questa riforma… ed è così che nel 2022 questo paese, che prima della firma degli accordi di Parigi non aveva mai venduto all’estero un solo barile, era diventato ormai il terzo esportatore di petrolio al mondo. (p. 88-89)
Devo ammettere che, pur essendo consapevole che non c’è stato di fatto alcun progresso nella riduzione delle emissioni di carbonio, non mi rendevo pienamente conto del livello attuale di follia dei detentori di capitale:
… nel 2022 c’erano 119 oleodotti in cantiere – progettati, in costruzione, o quasi completi – per una lunghezza totale di 350.000 chilometri, otto volte la lunghezza dell’equatore. Non c’era posto neppure per un altro gasdotto, eppure nel 2022 ce n’erano 477 in costruzione, per una lunghezza totale combinata pari a ventiquattro volte la circonferenza del pianeta. Oltre 300 terminali per il gas liquefatto erano in cantiere. La Terra non avrebbe potuto sopportare l’impatto neppure di una sola miniera di carbone, tanto meno di una centrale a carbone, eppure c’erano ben 432 nuove miniere in cantiere e 485 nuove centrali in costruzione. Questi impianti a combustibili fossili erano in preparazione già prima che la pioggia di profitti del 2022 diventasse evidente – il modus operandi è quello della riproduzione allargata – e con tutto il capitale accumulato in quell’anno ulteriori progetti sono stati avviati. (p. 13) … Erano completamente, infernalmente, diabolicamente fuori controllo: le classi che governano il pianeta sembravano intenzionate a bruciare [combustibili] il più velocemente possibile e nulla – nulla – li avrebbe minimamente frenati. (p. 21)
Gli autori scrivono a proposito dell’ideologia dell’overshoot, una posizione prima silenziosa, oggi sempre più esplicita, secondo cui dobbiamo continuare a bruciare combustibili fossili a un ritmo sempre più elevato, e questo non sarà affatto un problema perché anche se supereremo drammaticamente l’obiettivo sancito internazionalmente di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5° gradi, o 2° gradi, o ormai addirittura 3° gradi, tutto verrà risolto un domani quando comparirà una “tecnologia” per rimuovere carbonio dall’atmosfera.
Miliardi di dollari già spesi in progetti pilota per la cattura e lo stoccaggio di carbonio (CCS) si sono già dimostrati infruttuosi. Gli autori hanno in programma di affrontare i temi della geoingegneria e delle varie soluzioni tecnologiche in un volume successivo, ma per ora è ovvio che non c’è soluzione migliore che smettere semplicemente di bruciare combustibili fossili e lasciare il petrolio sotto terra. Tuttavia, questa si scontra direttamente con il sistema capitalista, un sistema determinato a espandere il “valore” letteralmente a ogni costo.
La British Petroleum è pronta ad abbandonare per la seconda volta il solare e l’eolico, perché tra tutti i tipi di energia nel suo portafoglio sono quelli che hanno avuto i minori margini di profitto. Come ha ulteriormente chiarito il capo del dipartimento “gas e fonti a basse emissioni di carbonio”, “non produrremo rinnovabili semplicemente per amore del solare e dell’eolico”. Cos’è che detta le priorità dunque? “Sarà il valore a guidarci”, ha spiegato Looney. “Questa sarà per noi la motivazione. E se vedremo una possibilità di produrre valore, lo faremo. Altrimenti no”. (p. 198)… Tra il febbraio 2020 e il febbraio 2023 la ExxonMobil ha registrato un ‘rendimento totale’ di circa il 110%, Chevron oltre l’80%, Total quasi il 60%, Shell quasi il 40%, e BP ‘soltanto’ poco più del 20%. (p. 203)… La teoria del picco del petrolio prevedeva che il prezzo sarebbe schizzato fino al punto da renderlo totalmente insostenibile; ma come abbiamo visto, questa sottovalutava gravemente l’abilità delle forze produttive, che invece hanno sbloccato nuove ricchezze di idrocarburi, al prezzo di una maggiore mobilitazione del capitale fisso. Ed è perciò che abbiamo assistito a una curva salita in modo graduale, e non a un picco folle. Queste tendenze empiricamente osservabili per i combustibili fossili hanno obbedito alla legge del valore. Il centro intorno al quale ruotava il loro valore di scambio era quello della manodopera. (p. 205)
Ed è qui che tutto l’entusiasmo ottimista pompato da gente tipo Bill McKibben o di altri cheerleader della transizione di mercato alle energie rinnovabili si dimostra incapace di comprendere come funziona davvero il sistema. I baroni del petrolio sono ossessionati dall’espansione del valore attraverso lo sfruttamento del plusvalore, che al cuore del processo necessita di manodopera umana e materie prime. Questo è vero oggi come lo era nel 1820. La BP (scherzosamente ribattezzata “Beyond Petroleum”, “oltre il petrolio”, negli anni 2010) ha investito pesantemente nell’eolico e nel solare in due diversi periodi della sua storia aziendale, per poi fare ogni volta un passo indietro e tornare alla vera fonte dei grandi profitti: petrolio e gas.
Questo parco [solare o eolico] non produrrà mai un bene di prim’ordine, come fa un giacimento petrolifero. La più piccola delle cellule e i più grandi parchi fotovoltaici sono simili in questo senso: capitale fisso ma senza alcun plusvalore. C’è un’altra caratteristica dei combustibili fossili che li rende una fonte di super-profitti e che non ha equivalenti. Un parco rinnovabile eccezionalmente generoso non permette comunque a chi lo possiede di estrarre risorse con un tempo di lavoro inferiore alla media, ritagliandosi così un vantaggio economico. Significa solo abbondanza di un bene che è gratuito. Infine, ma non meno importante, un’altra ragione è che questo flusso non può essere mercificato, non può essere commerciato, e quindi non può avere un mercato mondiale, e perciò non sarà vulnerabile agli sconvolgimenti geopolitici come lo sono in particolare il petrolio e il gas. (p. 213)… Mentre già ci avvicinavamo alla soglia di 1,5° C, e subito dietro l’angolo a quella di 1,7° C, … il demone che teneva il mondo nella sua morsa era quello del valore in generale e del valore che si valorizza in particolare. E questa è stata la forza che ha accumulato asset che non devono restare “incagliati” [cioè svalutati o convertiti in passività] e che ha prodotto ancor più valore che non deve andare distrutto, come i faraoni innalzarono le piramidi in Egitto. Questo ha mandato il mondo fuori controllo. (p. 218)
Leggere tutto ciò è certamente esasperante. Ma apprezzo la chiarezza che i due autori apportano alla discussione, troppo spesso oscurata da statistiche sull’espansione della produzione di energia solare ed eolica, sulla diminuzione del suo prezzo al di sotto di quello dell’energia da fonti fossili, ecc. I mercati non funzionano automaticamente sulla base del prezzo, questa è una lezione chiara della storia, come documentato dall’opera di Malm e di altri. Ora che siamo entrati nell’era post-neoliberista, la logica paralizzante secondo cui dovremmo lasciare le decisioni tecniche ed economiche alle macchinazioni del “mercato” è stata messa a nudo. Sfortunatamente, oggi siamo nella morsa di una cleptocrazia votata all’arricchimento e al capitalismo clientelare, che usa la retorica dei mercati per nascondere la forza bruta che esercita.
Bifo è convinto che non ci sia una via d’uscita, e potrebbe avere ragione:
Adesso che i negazionisti climatici controllano il governo del primo paese inquinante al mondo sarà impossibile fermare il collasso climatico: l’aumento di tre gradi delle temperature è una tendenza irreversibile, le cui conseguenze si stanno puntualmente manifestando. Gran parte del pianeta si avvia a diventare inabitabile, grandi migrazioni ne seguiranno alimentando paure, violenza e sterminio.
Il modo in cui le persone migranti, sradicate dalle loro case dalla violenza e dalle catastrofi climatiche, vengono disgustosamente additate come capro espiatorio è uno strumento per distrarci da quello che dovrebbe essere il nostro impegno più importante. Qualunque sopravvivenza della civiltà richiede una rapida transizione a un nuovo modo di vivere. Per farlo dobbiamo prenderci i loro fottuti soldi! Ma non sono solo i soldi che contano, è il potere che deriva dal controllarli in questo modo. Qui in gioco c’è la necessità di modificare radicalmente quello che facciamo tutti i giorni, la nostra interazione con quel che resta del mondo naturale, e il come prendersi cura gli uni delle altre mentre subiamo gli ormai inevitabili “disastri naturali” che verranno. Di nuovo Malm e Carton:
L’approccio etico e pratico al problema degli asset incagliati, in altre parole, è inesorabilmente conflittuale (voi avete creato questo disastro, voi vi accollate le perdite) e punta alla distruzione senza salvezza per il capitale. Si arriva all’espropriazione, la pratica di privare i proprietari dei loro beni senza risarcimento. (p. 241)
Un altro libro che ho letto quest’estate è stato Anarchia. L’inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie Orientali di William Dalrymple (traduzione italiana di Svevo D’Onofrio, Adelphi, 2022). Quando mi fermo a chiedermi come diavolo siamo potuti finire in questa condizione orribile generalmente vado a rileggere la storia, e questo libro è stato un valido contributo alla mia comprensione del flusso degli eventi nel lungo termine. Chiudo con un’ampia citazione dall’introduzione di questo resoconto molto lungo e dettagliato di come i britannici riuscirono a impossessarsi dell’India:
Per molti aspetti la Compagnia delle Indie Orientali fu un modello di efficienza commerciale: a cent’anni dalla sua fondazione, aveva solo trentacinque dipendenti fissi nella sua sede centrale. Ciononostante, quell’organico striminzito mise a segno un colpo di stato aziendale senza precedenti: la conquista militare, l’assoggettamento e il saccheggio di vaste aree dell’Asia meridionale. A tutt’oggi rimane quasi certamente il supremo atto di violenza imprenditoriale della storia del mondo… Si sente ancora dire che gli inglesi conquistarono l’India, ma questa frase cela una realtà più sinistra. Non fu il governo britannico che iniziò a dilaniare l’India, un pezzo alla volta, a metà del diciottesimo secolo, ma una società privata pericolosamente non regolamentata, basata in un piccolo ufficio di sole cinque finestre a Londra e gestita in India da un predatore aziendale violento, assolutamente spietato e, a tratti, mentalmente instabile: Robert Clive. La transizione dell’India al colonialismo avvenne per mano di una società a scopo di lucro, che operava al solo fine di arricchire i suoi investitori.
Plus ça change!
Titolo originale: Autocracy Defeats Neoliberalism.
Traduzione per Comune di Francesco de Lellis.
Chris Carlsson, scrittore e artista da sempre nei movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco. Autore, tra le altre cose, di Nowtopia (Shake edizioni) e, più recentemente, di Critical mass. Noi siamo il traffico (Memori), invia periodicamente i suoi articoli (molti dei quali raccolti sul blog nowtopians.com), a Comune.
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