Quello che si chiude è stato un anno tremendo ovunque. La dimensione planetaria dei lutti e delle ferite che lascia è uno dei suoi tratti più caratterizzanti. Nella geografia latinoamericana, il cocktail di oppressione e repressione – segnato dalla crescita della militarizzazione dei territori e del controllo sociale da parte dello Stato – con il diffondersi della pandemia si è aggravato in misura particolarmente pesante. Eppure, a volgere lo sguardo sui mesi trascorsi, quasi ovunque – dalla Patagonia cilena al Chiapas zapatista – i segnali di resistenza sono così evidenti che parlare di sconfitta per i popoli in movimento e i movimenti anticapitalisti sociali e indigeni appare per ora niente affatto scontato. Il virus è piombato in una situazione di conclamato caos sistemico e nessuno è ancora in grado di azzardare credibili previsioni sul futuro. Sarebbe assurdo negare il terribile aggravamento delle crisi aperte, ma è altrettanto certo che molte delle grandi ribellioni e resistenze presenti nel continente avevano previsto da tempo l’inasprirsi della tormenta. Affrontare la violenza pandemica e le sue conseguenze come comunità e non come società atomizzate, segnate dall’isolamento e dalla speranza di salvarsi in modo individuale, può marcare una profonda differenza nella capacità di difendersi e reagire a ogni tipo di offensiva. Per questo, mentre l’Europa vive come forse non mai sulla pelle dei suoi cittadini la frana dei suoi logorati sistemi di welfare, il tessuto comunitario dei legami sociali presenti in molte regioni latinoamericane potrebbe fornire in diversi territori risposte sorprendenti
È stato l’anno in cui le difficoltà si sono accumulate: dalla crescita della militarizzazione e dei diversi controlli statali (materiali e digitali) fino all’imposizione dei confinamenti che hanno impedito la mobilità e accentuato l’isolamento e l’individualismo. Un cocktail oppressivo e repressivo come non ne vedevamo da molto tempo.
Le limitazioni imposte alla popolazione, in generale, e alla mobilitazione, in particolare, insieme all’abbandono degli Stati, hanno condotto i movimenti prima a ripiegare, per essere poi in condizioni di tornare a rilanciare la protesta e la mobilitazione.
Il momento del ripiegamento è stato importante per salvaguardare la salute collettiva e comunitaria, per evitare massicci contagi nei territori dei popoli e rafforzare autorità autonome. Le guardie di autodifesa comunitaria hanno giocato un ruolo decisivo, nelle aree rurali come in quelle urbane, mettendo in rilievo i controlli realizzati in città come Cherán e in spazi come la Comunità Acapatzingo a Iztapalapa, a Città del Messico.
In vaste regioni rurali, l’EZLN, il Consiglio Regionale Indigeno del Cauca, i governi autonomi dei popoli amazzonici, le comunità mapuche, palenques e quilombos, oltre ad altre comunità contadine, hanno deciso di impedire o restringere l’ingresso di persone che provenivano dalle città, un modo per contenere la pandemia.
Se non lo avessero fatto, sovrapponendosi così alla violenza statale e parastatale, particolarmente letale nelle regioni del Chiapas e del Cauca colombiano, avrebbero subito una severa destabilizzazione interna. Quella è stata dunque la condizione per limitare i danni ma anche il primo passo per riprendere l’iniziativa verso l’esterno. Verso metà anno, poi, i popoli hanno intrapreso un nuovo attivismo che, in parecchi casi, li ha portati a rompere l’accerchiamento militare e mediatico.
Nel mese di luglio, lo sciopero della fame di 27 prigionieri mapuche ha scosso le comunità del sud del Cile, che hanno datto vita a un’ondata di mobilitazioni a sostegno dei detenuti nelle carceri di Temuco, Lebu e Angol. Gli scioperanti chiedevano il rispetto del Trattato 169 della OIL, quello che consente ai detenuti indigeni di scontare una condanna nelle proprie comunità, di rivedere le norme sulla prigione preventiva e denunciavano le condizioni inumane nelle carceri.
Malgrado le difficoltà create dalla militarizzazione e dalla pandemia, ci sono state diverse manifestazioni e concentrazioni di persone nel nord, nel centro e nel sud del Cile. Gli scioperi della fame hanno inoltre denunciato la repressione che i mapuche subiscono in tutto il paese, come la persecuzione contro le venditrici di ortaggi e di cochayuyo, un’alga marina molto nutritiva.
Nei primi giorni di agosto, sono stati organizzati grandi blocchi stradali in almeno 70 località della Bolivia. Ne sono stati protagonisti i contadini e gli indigeni che contestavano il posticipo delle elezioni da parte del governo golpista di Jeannine Añez. I blocchi sono stati rimossi solo quando il governo ha accettato il voto del 18 ottobre, che poi il MAS ha vinto ampiamente con più del 55% dei voti, superando di gran lunga il discusso risultato dell’anno prima (quello che aveva visto la vittoria delle destre, ndr).
Il 30 settembre in Costa Rica sono cominciate le manifestazioni contro un accordo con il FMI che comporta un aumento di imposte e una maggiore austerità nella spesa pubblica. Di fronte all’ondata di proteste, il 4 ottobre il governo ha annunciato la sospensione del negoziato per aprire uno spazio di dialogo e rivedere la sua posizione.
Il 5 ottobre l’EZLN ha emesso il primo comunicato da quando aveva chiuso i caracol per la pandemia, cioè dal 16 marzo del 2020. Gli zapatisti hanno detto che nel periodo della chiusura sono morte 12 persone per il coronavirus ma se ne sono assunti la piena responsabilità, a differenza di quello che fanno altrove i governi statali. Hanno precisato, poi, che avevano deciso di “affrontare la minaccia come comunità e non come un problema individuale”. Il comunicato spiega che l’obiettivo è la mobilitazione globale contro il capitale e informa che nella primavera del 2021 comincerà un primo giro attraverso l’Europa. Poi il viaggio sarà esteso ad altri continenti, con un’ampia delegazione composta in maggioranza da donne, perché “è tempo che danzino di nuovo i cuori, e che la loro musica e i loro passi non siano quelli del lamento e della rassegnazione”.
Alla fine di ottobre del 2020, in Colombia, c’è stata la Minga Indigena, Nera e Contadina, che è partita nel sudovest, nel Cauca, ed ha poi proseguito per Cali, attraversando varie città e paesi per arrivare otto giorni dopo a Bogotá. In tutto il suo percorso, la minga (lavoro comunitario, o tequio) ha dialogato con popolazioni che condividono i medesimi dolori, in un paese che si dissangua per la violenza narco-militare-paramilitare, con centinaia di dirigenti sociali assassinati.
La Minga verso Bogotá, a cui hanno partecipato ottomila persone, è stata scortata dalla Guardia Indigena, dalla Guardia Cimarrona e dalla Guardia Contadina. Ha visto un grande protagonismo di donne e giovani. È stata ricevuta e accompagnata dalle migliaia di persone che stanno lottando contro la repressione da parte dei corpi militarizzati. Quelle persone hanno dato vita a una vera e propria sollevazione nelle memorabili giornate dal 9 e all’11 settembre: sono stati dati alle fiamme e devastati decine di posti di polizia.
Il 18 ottobre, a un anno dall’inizio della rivolta sociale del 2019, altre migliaia di persone sono tornate nelle strade del Cile per ricordare quella grande protesta. Solo in quel giorno ci sono stati 580 arresti e un morto a causa della repressione dei carabinieri.
Il 25 ottobre il popolo cileno ha deciso di partecipare in massa al referendum – indetto per redigere una nuova Costituzione in sostituzione di quella ereditata dalla dittatura militare di Pinochet – fino a far straripare le urne. L’80% dei votanti ha approvato l’avvio di un processo costituente, ci si aspettava un successo sì, ma con solo il 60% dei consensi. La mobilitazione popolare per il referendum, e la continuazione della rivolta che dall’ottobre del 2019 ha cambiato la faccia del paese, delegittimano la politica governativa neoliberale e repressiva.
Una notevole mobilitazione popolare, a seguito dell’illegittima destituzione del presidente Martín Vizcarra, è avvenuta anche in Perù. Al posto di Vizcarra si era insediato un governo considerato golpista dalla popolazione. La maggioranza assoluta dei parlamentari è accusata di corruzione. Grazie a una settimana di gigantesche manifestazioni, il golpista Manuel Merino ha dovuto lasciare la presidenza aprendo una congiuntura inedita nel paese.
Il 21 novembre, a Città del Guatemala, migliaia di persone hanno protestato contro il progetto della legge di bilancio che era stato approvato nel Congresso e che riduceva i fondi destinati all’educazione, alla lotta contro la denutrizione, alla difesa dei diritti umani e alla risposta alla pandemia. I manifestanti sono entrati nella sede del potere legislativo e hanno incendiato parte delle installazioni.
Ci sarebbe molto altro da raccontare, ma quanto già detto rende evidente che i popoli in movimento e i movimenti sociali e anticapitalisti sono ben lontani dall’essere stati sconfitti dalla maggiore offensiva lanciata dal sistema negli ultimi decenni.
Fonte originale: Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Giuseppe carbone dice
Il mio animo si riempie di fiducia e gioia. Gtazie.