Sembra ormai evidente che stiamo vivendo un nuovo ciclo mondiale di lotte sociali. Le loro forme sono ancora incerte, anche se alcune caratteristiche, molto differenti da quelle che hanno segnato il Novecento, si vanno delineando, da Madrid al Nordafrica passando per Istanbul e São Paulo. Ad aprirne il cammino, proprio all’inizio del nuovo secolo, è stata una strana rivolta boliviana: la “guerra dell’acqua” di Cochabamba. Solo parecchio tempo dopo, il mondo si è accorto della portata della vittoria della gente comune di un’intera città contro nemici apparentemente invincibili: le imprese transanzionali, le istituzioni finanziarie mondiali, il governo corrotto, gli apparati brutali e burocratici dello Stato. Oscar Olivera il più noto protagonista di quelle lotte, racconta in un’intervista concessa in Cile tredici anni dopo, di quando si accorse che per fabbricare un paio di scarpe servivano ottomila litri d’acqua e che nella sua fabbrica si facevano 15 mila paia di scarpe al giorno
di Melissa Gutiérrez
È stato un dirigente sindacale per trent’anni, poi, nel 1996, ha assunto un ruolo diverso, a livello regionale. Oscar Olivera è un operaio metallurgico che lavorava in una fabbrica di scarpe. È stato allora, dice, che “abbiamo cambiato il ruolo del sindacato, un ruolo debilitato, spento. Decidemmo di realizzare un processo che riuscisse a rendere visibile il mondo del lavoro costruito dal neoliberalismo. Vale a dire, il mondo del lavoro precario, senza diritti, senza sicurezza sociale. Un mondo fatto di gente che è stata criminalizzata anche perché colpevole di aver creato un sindacato”, spiega Olivera a The Clinic Online mentre si trova in Cile, dove ha partecipato a due seminari all’Università Accademia dell’umanesimo cristiano.
Essendo già un punto di riferimento per il mondo sindacale, nel 2000, alcuni gruppi di contadini si avvicinarono a Olivera per dargli informazioni e dialogare con lui sul contratto di privatizzazione dell’acqua che il governo di Hugo Banzer stava firmando, spinto anche dalla pressione della Banca Mondiale. Il contratto prevedeva la concessione del servizio idrico a un consorzio formato da tre multinazionali: Bechtel ed Edison, con sede principale negli Stati Uniti, e Abengoa con sede in Spagna. Da quel momento, Olivera si immerse nella lotta per dar termine a quel processo di privatizzazione o di “espropriazione”, come preferisce definirlo lui. “Mi accorsi che per fabbricare un paio di scarpe servivano 8 mila litri d’acqua e che nella fabbrica si producevano 15 mila paia di scarpe ogni giorno. Vedevo la gente che non aveva accesso all’acqua e facevo il paragone con un processo industriale che ne sprecava tanta. Allora dissi: no, non può essere. Questo non è compatibile”. Fu così che cominciarono cinque mesi di lotta per farla finita con un accordo che, non solo aveva cambiato la forma di vita degli indigeni e degli agricoltori, ma aveva fatto crescere brutalmente il prezzo dell’acqua. “L’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda che solo il 2 per cento delle entrate di una famiglia sia destinato al pagamento del servizio idrico. A Cochabamba questa percentuale era salita al 20. La gente doveva scegliere: o pagare l’acqua o mangiare”, ricorda Olivera.
Un altro punto importante è che si stabiliva un mercato dell’acqua sulle fonti. Fonti “che per molti anni erano state utilizzate non solo per il consumo ma anche per il lavoro agricolo. La popolazione non concepiva che da un giorno all’altro le comunità potessero perdere l’accesso alle fonti dell’acqua. Tutto questo causò cinque mesi di grandi mobilitazioni di massa. Furono definite “La guerra dell’acqua” e riuscirono, alla fine. a porre fine al contratto. Al di là di questo, tuttavia, la guerra dell’acqua impose sulla scena concreta una vera democrazia. Pose cioè la questione centrale: chi decide? Decidono alcune persone, alcuni politici insieme agli imprenditori? Oppure decide la gente?”, si domanda Olivera.
Ma se la privatizzazione in Bolivia è cominciata nel 1985 perché la grande mobilitazione arriva solo nel 2000?
L’acqua è qualcosa che tocca la vita della gente. Privatizzare l’acqua non è la stessa cosa che privatizzare un’impresa telefonica. Minacciare l’acqua è come attentare all’esistenza stessa della vita. Un altro elemento importante, comunque, è stato il fatto che quell’accordo imponeva un aumento delle tariffe tremendo, in particolare nelle zone urbane. Era inaccettabile dover scegliere tra la necessità di nutrirsi e la possibilità di bere. Ci siamo sentiti ignorati dal potere politico per anni, nel momento in cui i politici decidono misure che cambiano la nostra vita noi non esistiamo. Esistiamo solo in due occasioni: quando ci sono le elezioni e quando dobbiamo pagare le imposte. Nel 2000 si è verificata come un’accumulazione di tutte le indignazioni contro il disprezzo che ci era stato mostrato. Questo ha fatto sì che la gente dicesse: basta!”.
Il fatto che abbiate tenuto questo livello di difesa dell’acqua ha a che vedere anche con la cultura del popolo boliviano?
Penso che questi processi di lotta non siano solamente di resistenza e di scontro ma anche processi di costruzione e di recupero della memoria. Non possiamo ignorare in alcun modo da dove veniamo. La cultura quechua concepisce la democrazia in un altro modo, non una struttura verticale ma orizzontale, partecipativa, a rotazione. Credo che questi elementi abbiano influito molto sulla guerra dell’acqua. Per difendere quel certo modo di percepire la democrazia e l’acqua, la gente non ha esitato a mettere in gioco anche il corpo contro i proiettili. Questa cosmovisione è arrivata anche nelle zone urbanizzate, e abbiamo visto i giovani recuperare questi valori in modo particolare. Abbiamo visto nelle comunità il recupero della capacità di sentirsi orgogliosi della propria lingua, dei volti e dei cognomi, del modo di vestirsi. La gente non aveva più ragione di vergognarsi di quel che era. Non bisogna dimenticare che in Bolivia il 62 per cento della popolazione si considera indigena.
Anche in Cile ci sono mobilitazioni collegate alle privatizzazioni: della salute, dell’istruzione, delle pensioni, ma i media si focalizzano quasi sempre sugli aspetti violenti. Nel 2000 a Cochabamba è stato diverso o è successo qualcosa del genere?
Quel che è accaduto nel 2000 a Cochabamba è esattamente uguale a ciò che sta accadendo in molte parti del mondo. Sono stato in Asia, in Europa, in America e ho avuto la possibilità di raccontare la nostra lotta, una lotta che dimostra che è possibile affrontare e vincere nemici tanto potenti. Un popolo che si mobilita e riesce a definire in modo collettivo un obiettivo comune, può vincere. Può recuperare ciò che gli è stato sottratto. Questo tipo di mobilitazioni, prima di ogni altra cosa, hanno una caratteristica molto importante: non sono convocate più né dai partiti né dai sindacati. Vengono convocate da gruppi non istituzionalizzati.
Si tratta di una sorta di collettivi molto autonomi che vanno stabilendo spazi di deliberazione e modi di prendere le decisioni. Sono spazi che si compongono di giovani, lavoratori, pensionati e indigeni che si sentono colpiti dalle politiche di espropriazione. La forza del movimento ci permette di vedere che le società in movimento si articolano e cominciano a occupare spazi territoriali per affermare: “Questo territorio è nostro”. Lo fanno nella piazza centrale di Cocahabamba così come a Santiago nella Alameda. Le società in movimento riescono a stabilire uno spazio di costruzione per un nuovo tipo di convivenza sociale. Non ho visto nessuna lotta segnata dall’angoscia e dalla paura, anzi sono lotte allegre e creative. Nella Guerra dell’acqua siamo stati molto creativi nello sviluppare nuove forme di comunicazione e un coinvolgimento sempre maggiore di tutta la società nel suo insieme. Siamo riusciti a unire, a mettere insieme i disoccupati, o i venditori ambulanti, con i proprietari delle zone ricche di Cochabamba. E questo adesso sta accadendo in tutto il mondo.
Però qui in Cile quando le televisioni mostrano solo le scene di violenza i movimenti perdono forza
Non ci deve sorprendere il fatto che così come noi pensiamo alle tattiche per rafforzarci, così il sistema pensa a come distruggere i processi organizzativi e di costruzione di forza da parte della gente. Ci sono molte e diverse tattiche, una delle quali è utilizzare degli infiltrati nelle manifestazioni.
Sì, è stato detto che succede anche qui.
I governi stanno stabilendo certe strategie di generare violenza. E anche qualcosa in più, quello che potrebbe essere il nostro nemico principale: la paura. La gente si scoraggia completamente, c’è un’assoluta sfiducia negli altri e si distrugge il processo organizzativo. Io credo che questa violenza parta fondamentalmente dai governi. Com’è possibile che in alcune delle manifestazioni tenute nelle settimane scorse in diverse zone del Brasile, cinquemila poliziotti e mille agenti della polizia militare non abbiano potuto controllare un centinaio di persone che stavano rompendo tutto? Non si può spiegare. Avviene perché si sparga la paura e perché la gente decida di non uscire di casa e di guardare quello che succede in televisione.
Fonte The Clinic Online http://www.theclinic.cl
Traduzione per Comune info: m.c.
Titolo originale: “Dirigente de la Guerra del Agua en Bolivia: “Un pueblo movilizado puede recuperar lo que se le quitó”
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