Che il numero di persone spinte o costrette ad allontanarsi o a fuggire disperatamente dai luoghi in cui sono nate sia destinato a crescere di molto, malgrado le nuove difficoltà create negli ultimi due anni dalla pandemia, non è certo una novità. Tutti ne conoscono le ragioni. È una tendenza strutturale quanto rimossa nei fatti del nostro tempo. Così com’è ben noto che la maggioranza dei flussi migratori parte dai paesi del Sud del mondo per dirigersi verso altri paesi del Sud e non verso l’Europa. Eppure, da diversi decenni, le politiche continentali, alimentando i nazionalismi e le retoriche del rifiuto, fingono di ignorare non solo le cause ma la natura stessa dei processi migratori e continuano ad agitare le assurde insegne della perpetua emergenza. Di più: esternalizzando e militarizzando le frontiere, negando ogni possibilità legale e sicura di raggiungere il suo territorio, il sovra-nazionalismo armato europeo si rende responsabile delle maggiori e più crudeli stragi di migranti. È il lato oscuro ricorrente della sua modernità, come segnala con l’abituale acutezza Annamaria Rivera. O forse del suo cinereo fallimento. Ai migranti, alle persone in fuga e in cerca di protezione, in barba a ogni principio sancito nella vuota solennità delle carte della civiltà europea, non resta che sottoporsi a odissee inenarrabili attraversando deserti, steppe gelate e onde in tempesta. Affermare la propria libertà di movimento, e dunque il diritto a decidere sul proprio destino, è una letale prova di sopravvivenza
Il fatto che l’Unione Europea coltivi una sorta di sovra–nazionalismo armato, a difesa delle proprie frontiere, non solo è causa d’una strage di migranti e potenziali rifugiati/e di proporzioni mostruose, ma ha anche contribuito indirettamente, a mio avviso, a incoraggiare i nazionalismi “nazionalitari” o etnici, quindi al successo delle destre, anche estreme, in tutta Europa. Oltre che economica, la crisi europea è anche politico-ideologica, come ci ricorda da non pochi anni il filosofo, sociologo e politologo Slavoj Žižek.
Non per caso, nell’intero continente, a occupare il primo posto nella scala del rifiuto e del disprezzo sono rom, sinti e caminanti, le popolazioni che più di altre incarnano, almeno simbolicamente, il rifiuto di confini e frontiere. Secondo non pochi sondaggi sulle attitudini nei confronti dei cosiddetti “zingari”, per anti-ziganismo è l’Italia, seguita dalla Francia, a collocarsi in testa alla classifica. La stragrande maggioranza dei campioni intervistati nel corso del tempo esprime ostilità o paura per la presenza di non più di 140mila fra rom, sinti e caminanti, la metà dei quali sono cittadini/e italiani/e.
In realtà, essi/e continuano a svolgere un ruolo vittimario assai simile a quello storicamente attribuito agli ebrei, a tal punto che sugli “zingari”, come un tempo sugli ebrei, tutt’oggi fioriscono e si propalano voci, leggende e “false notizie”, per dirla alla Marc Bloch: anche le più arcaiche, come quella della propensione al rapimento di bambini, pur smentita da dati e lavori scientifici.
Insomma, fra le politiche di militarizzazione delle frontiere e il dilagare delle retoriche del rifiuto v’è un legame assai stretto, se non un circolo vizioso. In gran parte dei paesi europei va diffondendosi sempre più l’uso politico e ideologico di tali retoriche: i cliché dell’“invasione”, dei/delle migranti come fonte d’insicurezza e d’impoverimento dei “nazionali”, della “clandestinità” come sinonimo di criminalità sono ampiamente utilizzati perfino da istituzioni, talvolta anche da partiti di centro–sinistra, ma soprattutto da formazioni populiste, di destra e di estrema destra, che in Europa conoscono oggi un’ascesa rilevante. In particolare, quella dell’”invasione” e della “marea montante” è una tipica falsa evidenza: come è ben noto, la quota preponderante dei cosiddetti flussi migratori parte dai paesi del Sud del mondo per dirigersi verso altri paesi del Sud.
Sul versante delle istituzioni, in una parte dei paesi dell’Unione Europea prevale un approccio di tipo emergenzialista, conseguenza, fra le altre cose, del fatto che, in realtà, migrazioni ed esodi non sono stati integrati – meno che mai elaborati – come tendenze strutturali del nostro tempo. Anche questo spiega perché il razzismo tenda a diventare ideologia diffusa, senso comune, forma della politica, per dirla con Alberto Burgio. E non si tratta del ritorno in superficie dell’arcaico, bensì di una delle fasi del riemergere ricorrente del lato oscuro della modernità europea.
Le discriminazioni istituzionali, l’allarmismo dei media nonché la cattiva gestione dell’accoglienza, almeno in alcuni Stati-membri, non fanno che produrre ondate ricorrenti di moral panic, alimentando anche violenza razzista “popolare” nei confronti degli/delle indesiderabili, spesso usati/e come capri espiatori, particolarmente in questa fase.
In non pochi paesi europei la crisi economica, aggravata dagli effetti della pandemia, si coniuga con una crisi, altrettanto grave, della democrazia e della rappresentanza, talché la distanza fra i cittadini e il potere si fa siderale e la cittadinanza va trasformandosi sempre più in sudditanza, per dirla con Etienne Balibar. Non sorprende affatto, quindi, che gli effetti sociali della crisi, coniugati con la condizione e il senso soggettivo di sudditanza, alimentino frustrazione, spaesamento, risentimento sociale e conseguente ricerca del capro espiatorio. Una buona parte di cittadini/e penalizzati/e dalla crisi finisce così per identificare il proprio nemico nelle persone immigrate “che rubano il lavoro” o nei rom che degraderebbero il loro già degradato quartiere di periferia. Sicché si potrebbe sostenere che il razzismo “popolare” sia perlopiù rancore socializzato.
Etichettare i numerosi casi di razzismo popolare con la formula abusata di “guerra tra poveri” è, a mio avviso, un’espressione di quel pensiero debole che pretende di definire un mondo complesso. Infatti, ammesso sia opportuno usare la metafora della guerra, questa è tutt’altro che simmetrica: è, semmai, una guerra contro i/le più vulnerabili tra le persone povere.
In assenza d’itinerari sicuri e legali per raggiungere l’Europa, i/le rifugiati/e in cerca di protezione e le persone migranti che aspirano a una vita migliore sono sottoposti dall’Unione Europea a un’autentica prova di sopravvivenza. Non tutti la superano, com’è ben noto.
L’Europa è largamente in testa alla classifica delle aree migranticide, per usare un neologismo. E ciò non solo per ovvie ragioni geografiche e per l’aumento vertiginoso di persone migranti e potenziali rifugiati/e che cercano di raggiungerla, ma soprattutto perché le politiche proibizioniste europee rendono i viaggi sempre più pericolosi, spesso letali.
In realtà, i cosiddetti “trafficanti di esseri umani” rappresentano soltanto gli “utilizzatori finali” del sistema di frontiere e muri che l’Europa ha eretto intorno alla sua fortezza. Sono le politiche proibizioniste ad avere creato le condizioni perché si sviluppasse l’offerta di attività irregolari e dunque un aumento spaventoso delle stragi in mare.
Ricordo che il nuovo regime delle frontiere affermatosi in Europa ha prodotto non solo un’autentica ecatombe, ma anche la proliferazione e perfino l’esternalizzazione dei centri di detenzione per migranti, nei quali, in certi casi, sono rinchiusi finanche richiedenti–asilo e minori; anche per responsabilità di Frontex. Le condizioni di tali lager – spesso muniti di gabbie e filo spinato, e controllati da forze dell’ordine e militari armati – sono state condannate dalla stessa Corte di Strasburgo. In alcuni paesi, come l’Italia, sono istituzioni del tutto abusive, in quanto violano la Costituzione e lo stato di diritto.
Questo sistema si è rafforzato anche grazie agli accordi bilaterali con paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, cui si delega una parte del “lavoro sporco”. L’Italia non fa che perpetuare gli accordi di cooperazione perfino con un paese devastato qual è la Libia, il quale, oltre tutto, non ha leggi sull’asilo, pratica gravissime violazioni dei diritti umani, non ha sottoscritto neppure la Convenzione di Ginevra del ’51.
Come è ben noto, la Libia, tappa ineludibile soprattutto per le persone migranti e i/le profughi/e sub–sahariani/e, è un vero e proprio inferno. Come e peggio che al tempo di Gheddafi, pratiche tuttora correnti sono gli arresti arbitrari, il lavoro forzato, lo sfruttamento schiavile, le deportazioni, i taglieggiamenti, le torture, gli stupri: orrori la cui apoteosi è l’inferno della prigione di Kufra. L’unica differenza è che oggi sono le milizie armate a “dirigere” i centri di detenzione e a compiere le nefandezze cui ho fatto cenno.
È necessario, dunque, modificare radicalmente la legislazione europea (per non dire di quella italiana). Ma soprattutto occorre che tra le nostre stesse fila si affermi la consapevolezza che decisiva è la battaglia contro il razzismo e per i diritti delle persone migranti e delle rifugiate. Da essa non si può prescindere se si vuole scongiurare il lato oscuro della modernità europea, in favore della prospettiva di un’Europa della democrazia, della giustizia sociale, dell’uguaglianza dei diritti.
isabella peretti dice
Ben tornata Annamaria. Tutto vero quanto scrivi
Margherita Gaetani dice
Grazie Annamaria!
La tua analisi è precisa, direi “spietata”, anche se certo chi mette in atto politiche di questo genere non merita alcuna pietà…
Emanuela Petrolati dice
Un’analisi lucida che in un Paese Civile degno di questo nome non lascerebbe scampo alle responsabilità dei decisori politici.
In un Parse Civile…
Mauro Carlo Zanella dice
Il “lato oscuro della modernità” provoca la dissoluzione dello stato di diritto, il rigetto dei diritti umani, stragi senza fine, il “migranticidio”, grazie Annamaria, perché instancabilmente con i tuoi scritti denunci l’inganno e le ipocrisie, provi insomma a far luce.
Andrea dice
Sempre puntuale e senza sconti. Come spesso accade illuminante