Sempre più spesso le famiglie comunicano alle scuole che un ragazzo o una ragazza ha un disturbo certificato: da quel momento in poi la scuola di fatto rinuncia a lavorare su competenze che sono fondamentali. Siamo sicuri di aiutarli in quel modo? Lo scopo della scuola è mettere voti alti o far crescere gli studenti? Non sarebbe opportuno proporre occasioni di elaborazione e sperimentazione pedagogica e didattica?
Immagine tratta da un disegno di Sara Vincetti, illustratrice ed educatrice esperta di educazione all’aperto
Molti anni fa entrai in una sala molto affollata per seguire una conferenza sull’educazione. Una volta – stava dicendo il conferenziere – un bambino a scuola poteva essere definito turbolento; oggi lo stesso bambino sarebbe definito iperattivo. E tra turbolento e iperattivo, spiegava, c’è una differenza enorme. La turbolenza è un problema pedagogico. L’iperattività diventa, invece, un disturbo.
Il conferenziere si chiamava Alain Goussot, e della questione avremmo discusso più volte, negli anni a venire. Mi sembrava che nella sua critica della medicalizzazione in atto nelle scuole ci fosse il rischio di non riconoscere problemi reali, che richiedono una personalizzazione della didattica, nella quale non riuscivo a non vedere una importante passo avanti della scuola italiana. A distanza di molti anni – e quando ormai non è più possibile, purtroppo, discuterne con lui – devo riconoscere che aveva molte ragioni (leggi anche I rischi di medicalizzazione nella scuola).
Si è fatta strada in questi anni nelle scuole, fino a diventare dominante e incontrastata, quella che chiamerei pedagogia dell’evitamento. La famiglia comunica alla scuola che lo studente ha un disturbo certificato. E alla luce di quella certificazione, succede sempre più spesso che, sostenuta dallo specialista, chieda ai docenti di non far fare alla figlia o al figlio ciò che ha a che fare con il suo disturbo. Si va al di là delle misure dispensative e compensative, che pure sono diventate ormai un meccanismo pedagogicamente idiota (spesso si tratta solo di compilare un modulo barrando alcune caselle; ogni tipologia di disturbo ha le sue caselle). Mi è capitato di dover discutere in un consiglio di classe la richiesta, sostenuta da uno specialista, di esentare uno studente con un ritardo mentale dalla scrittura, dal momento che scriveva con grandi difficoltà. Questo studente, di quindici anni, aveva la scrittura di un bambino di otto anni; se la scuola avesse smesso di chiedergli di scrivere, avrebbe perso del tutto la capacità di scrivere. I genitori di una studentessa a disagio con le verifiche orali in classe chiedono che la figlia sia del tutto esentata dal parlare davanti ai compagni. In che modo potrà affrontare gli esami universitari? Come farà l’esame di laurea? A fronte di un disagio – spesso si tratta di questo, più che di un disturbo – la scuola può rinunciare a lavorare su competenze che sono fondamentali? È doveroso riconoscere a uno studente dislessico il diritto di scrivere usando il computer, ma siamo sicuri di aiutare uno studente con sindrome di Asperger badando ad evitare con la massima cura qualsiasi cosa che possa infastidire un soggetto con sindrome di Asperger? I nostri cervelli sono in costante adattamento all’ambiente. Un ambiente privo di qualsiasi sfida, che venga modellato sullo stato attuale di un cervello e non gli richieda nessun cambiamento, nessuno sforzo, è un ambiente che non favorisce, ma ostacola la sua crescita.
La rivendicazione delle famiglie è quella del successo scolastico. Che è sacrosanta. Il problema è che si confonde il successo con il voto. Se si chiede a uno studente di fare solo quello che sa fare, sicuramente i voti saranno alti. Ma lo scopo della scuola non è quello di mettere voti alti; è quello di far crescere gli studenti. E sappiamo che il nostro cervello cresce facendo cose difficili. Affrontando compiti che hanno un livello di sfida ottimale. Uscendo, per così dire, dalla nostra comfort zone mentale. L’impressione, invece, è che dopo la certificazione il lavoro dei consigli di classe consista proprio nel creare intorno allo studente una comfort zone tanto rassicurante quanto pericolosa.
È anche, mi sembra, un modo per venir meno alle proprie responsabilità educative e didattiche. Dispensare e compensare sono cose facili, con le quali mettiamo a posto la nostra inquieta coscienza di docenti senza troppi problemi. Siamo davvero convinti che una mappa concettuale, una calcolatrice, una interrogazione programmata possano davvero aiutare qualcuno a crescere? Siamo sicuri che bastino i consolidati automatismi che portano all’elaborazione del Piano Didattico Personalizzato? Di fatto, manca nelle scuole il momento dell’elaborazione pedagogica e didattica. I docenti sono per lo più esecutori: prendono atto delle richieste contenute nella certificazione. Lo studente è esentato da…; si chiede alla scuola di… Ma la scuola è una comunità di professionisti dell’educazione. Cercare le mediazioni adeguate, una volta preso atto delle difficoltà dello studente, è un suo dovere. E non basta barrare qualche casella per assolverlo.
Il fatto che manchi ordinariamente nelle scuola la figura del pedagogista di Istituto, e che nessuno ne avverta la necessità, è un indice significativo della scarsa disponibilità delle scuole ad inoltrarsi nella via lunga della effettiva valorizzazione di ciascuno studente, oltre la scorciatoia dell’evitamento.
Antonio Vigilante è pedagogista e filosofo. Insegna al Liceo “Piccolomini” di Siena. Tra i suoi libri: Il Dio di Gandhi. Religione, etica e politica (2009), Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci (2012), Alternativa nella scuola pubblica. Quindici tesi in dialogo (2018, con Fabrizio Gambassi). Altri suoi articoli sono leggibili qui
Quanta acqua sotto
i ponti da quando (anni ‘90 o giù di lì) si diceva che un bel
giorno sarebbero spariti i docenti di sostegno, le certificazioni e tutto l’ armamentario di per sé discriminatorio e anticipatore di stereotipi, iniquità, differenze e parasegregazioni in specie di “aule speciali”. Invece si sono moltiplicate le classificazioni, le sigle, i protocolli…e di fatto le emarginazioni o, in altrettanti casi, perfino furbeschi privilegi a danno dell’equità educativa.
Salve, i miei complimenti per questo articolo. Molto ben fatto e altrettanto veritiero!
Si decanta così tanto la pedagogia da esser diventata un’utopia. La figura del pedagogista (vale anche per l’educatore) troppo spesso appare invisibile o mascherata da funzione “tappabuchi”. A buon intenditore, poche parole.
Quanta tristezza, anni di studi, corsi su corsi, passione e amore per ciò che si fa..per poi troppo spesso esser considerati meno di zero.
E quando dopo lo psicologo scolastico anche il pedagogo, il prete, il medico, il badante o meglio il secondino? Non sarà ora di chiudere tutto e ricominciare da zero?
I docenti non hanno competenze pedagogiche, purtroppo. Per cui se si vuole che la scuola si occupi pedagogicamente del problema, occorre che abbia una figura in grado di indirizzare i docenti e di pensare insieme a loro le strategie e le mediazioni didattiche.
A margine: pedagogista, non pedagogo.
A margine: Pedagogo: Rar. pedagogista. ☺️
Pedagogo è un termine che veniva usato per indicare il precettore. Oggi si usa il termine pedagogista per indicare un esperto di educazione.
Buongiorno.
Vorrei aggiungere solo un tassello alla discussione.
Non sarebbe il caso di far collaborare il pedagogista prima con le aziende che rilasciano le certificazioni (spesso private, e dunque a pagamento, con quello che ne consegue sulla “veridicità” della certificazione) piuttosto che con la scuola? Non sarebbe opportuno agire prima a monte e solo dopo a valle nell’arginare (o trovare soluzioni a) i problemi?
Purtroppo vi sono casi (non isolati, anzi) in cui la certificazione non serve ad evidenziare problemi ma a nascondere scarsa volontà. E’ molto facile, per chi lo desidera, alterare i test di diagnosi piegandoli alle proprie esigenze. Già se fatti nel pieno rispetto delle prescrizioni di compilazione, i test fanno sollevare comunque forti dubbi sulle capacità
di individuare realmente una problematica.
Forse prima dovrebbero essere riviste anche le modalità con cui le certificazioni vengono rilasciate.
Infine, altro tassello, come si può pensare di personalizzare realmente un piano didattico di un ragazzo certificato, quando in una classe di 23 alunni ce ne sono 7 con la certificazione?
Caro Antonio, la situazione è peggiore di quanto tu la descrivi. Abbiamo sentore che l’assenza del Pedagogista a scuola è data da decisioni prese molto in alto. Qualcuno ha stabilito che i soldi stanziati per psicologi e pedagogisti, venissero utilizzati solo per i primi a danno dei secondi.