Un gruppo di una decina di donne e qualche uomo ogni giovedì e sabato si incontrano nel piazzale della stazione di Trieste per curare i piedi dei migranti afghani, pakistani, iracheni, marocchini, tunisini…, provenienti dalla Bosnia. Offrono loro scarpe, sacchi a pelo, un po’ di cibo, molte attenzioni e tanti sguardi. È il loro modo per ribellarsi. Per ora li lasciano fare, non hanno mai pensato di essere benefattori: il conflitto con le istituzioni sarà inevitabile. “È un gesto estremamente concreto ma fortemente simbolico – scrive Gian Andrea Franchi, tra i promotori del gruppo – È l’apertura di un varco, il salto oltre un ostacolo. Mostra un possibile…”

Per più di un anno Lorena ed io avevamo tentato di porre il problema dei migranti in arrivo a Trieste. Quelli che in Italia non volevano restare, che volevano andare oltre, verso il centro e il nord Europa: i mitici paesi del benessere, cui l’Italia non apparteneva del tutto. C’era anche, spesso, il richiamo della presenza di parenti e amici, lassù. Queste persone avevano, prima di fatto e poi anche di “diritto”, il marchio “clandestini” – dopo il rumoroso passaggio elettorale del capo della Lega al ministero degli interni. Sull’opportunità politica e umana di un intervento c’erano stati incontri, discussioni e tentativi, senza risultati apprezzabili. Poi, una foto. Già! Siamo nell’epoca dei social.
La fotografia di un gesto, nel piazzale della stazione: il gesto di curare dei piedi feriti dal lungo cammino tra la Bosnia e Trieste – dieci, quindici, venti giorni, fra boscaglie, rocce, fiumi di un territorio bellissimo – per chi può permetterselo come paesaggio. Ma per loro, per i migranti e per i profughi, non è un paesaggio: l’esperienza estetica del paesaggio implica la dimensione contemplativa, ovvero una condizione del corpo agiata, tranquilla, sicura. In sintesi: identità giuridica, cittadinanza. In sintesi totale: soldi.

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Quando il paesaggio penetra nel corpo come un coltello non è più paesaggio. Pensiamo a quei fili spinati composti con innumerevoli piccole lame – mi pare inventati dagli israeliani, o ai denti di un cane: abbiamo saputo anche questo, cani addestrati ad attaccare l’uomo – ci hanno raccontato di migranti sbranati da questi cani della polizia croata (ovviamente non abbiamo le “prove”).
Feriti sono quasi tutti, i piedi di questi ragazzi afghani, pakistani, iracheni, e anche marocchini, tunisini… soprattutto di quelli che non hanno i mezzi per pagare i passeur, gli smuggler, per tutto il viaggio o in parte. Ma in genere quelli che incontriamo sono tutti con i piedi mal ridotti, gonfi, con vesciche, piccole ferite che molto facilmente s’infettano, anche ferite più gravi. Abbiamo incontrato, qui a Trieste, anche un caso di congelamento (tamponato con catini di acqua calda nel centro diurno).
Ebbene: la foto di Lorena che sta medicando un piede ferito su una panchina del piazzale della stazione ha funzionato come il precipitato di una chimica emotiva, etica, politica, condensando rapidamente un gruppo di una decina di persone che da circa un mese e mezzo o due interviene regolarmente almeno due volte al mese. Sono prevalentemente donne, con qualche uomo, come tradizione insegna.
Innanzitutto è la foto di un’azione, di un gesto estremamente concreto ma fortemente simbolico, addirittura un luogo comune culturale: la lavanda dei piedi… L’azione colta nel suo svolgimento mostra che è possibile, basta volerlo. Funziona come esempio e l’esempio può essere contagioso. È l’apertura di un varco, il salto oltre un ostacolo. Mostra un possibile.
Così, adesso, esiste questo gruppo: “il Gruppo cura”. Gli incontri in piazza – oltre al gesto primario della cura dei piedi e di altre offese corporee trattabili in primo intervento – offrono: scarpe, essenziali, primarie – inoltre, sacchi a pelo, giacconi e altri indumenti e un po’ di cibo, te caldo dolci, panini. Di più, ovviamente: offre socialità, incontro, sguardi negli occhi. Ancora di più: rispetto, dignità a esseri umani giuridicamente e socialmente inesistenti.
Esiste, dunque, il gruppo cura di Trieste tutti i giovedì e i sabati (e spesso anche il lunedì) e continuerà.
Adriana, Azra, Goga, Elisa, Francesca, Lorena, Paola, Sofia, Carlo, Gianluca, Gian Andrea. Il gruppo può fruire per il deposito del materiale di un locale, necessario quando si supera una certa quantità, messo a disposizione da Rifondazione Comunista e può usare, inoltre, per incontri la storica Casa del Popolo di via Ponziana a Trieste, messa a disposizione dall’associazione culturale Tina Modotti. Saltuariamente altri, associazioni e persone singole, che vengono anche da lontano a portare materiale prezioso.

È arrivata ieri con il marito, il figlio di dieci anni e un piccolo gruppo. Hanno dormito su una panchina prima di ripartire verso il nord Europa. “Sì, Shamsia ha le unghie smaltate, di un rosa acceso, segno di speranza e rinascita per lei che viene dalla lontana regione ai confini con il Tagikistan – scrive Lorena Fornasir – È vittima di ingiustizie ma non vittima di se stessa. Ora che è salva, che suo figlio è salvo, può concedersi lo smalto e riprendersi la propria femminilità. Dopo due anni di viaggi terribili, dopo la disumanizzazione, dopo essere diventata un numero da statistica, lo smalto rosa la riporta alla vita. Lo scandalo è negli occhi di chi guarda e di chi vuole che un migrante sia solo una vittima continuando a de-soggettivizzarla. Ma ‘l’esistenza, senza dote ulteriore, è già onnipotenza“
Polizia locale e nazionale, carabinieri passano spesso nei paraggi. Guardano, osservano, vanno via, sostano spesso più in là. In un caso, un poliziotto ha detto a Lorena che va bene, aiutiamo a mantenere l’ordine. Evidentemente le istituzioni non sono in grado di gestire, allora non dispiace una sorta di delega di fatto di alcuni compiti, fino a che rimane un fenomeno limitato – così si evitano incidenti, problemi, dopotutto non si può lasciar morire uno per strada o spingerlo all’esasperazione – chissà magari si riduce indirettamente il piccolo spaccio di chi non ha altra risorsa per mangiare…
Ma a me, a tutti noi, credo, questo non va bene. Non sono, non siamo benefattori. Il benefattore è complice perché aiuta a sopportare il sistema. Noi vogliamo fare politica, cambiare un ordine sociale intrinsecamente basato sull’ingiustizia più profonda, permeato di violenza, che spinge all’odio non per chi comanda e sfrutta, ma per chi è dipinto come estraneo, diverso, anormale. E allora, come abbiamo scritto nell’appello firmato da Lorena e da me, “bisogna fare rete, fare società, costruire ogni giorno un modo alternativo di essere in società. Ciò può avvenire solo allargando l’impegno, collegando e, ovviamente, lottando”. Se un impegno del genere continuerà, come auspichiamo, è inevitabile, prima o poi, il conflitto con i poteri che gestiscono la società così come è oggi. Bisogna tenerlo presente.
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Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi da alcuni anni con Lorenza Fornasir promuove periodiche azioni lungo la rotta balcanica con cui portare medicinali e scarpe ai migranti in Bosnia e creare relazioni. Ha aderito alla campagna 2019 di Comune Ricominciamo da tre: “Reti di relazioni come Comune sono strumenti importanti, anzi essenziali, come contributo alla costruzione di pezzi di quella società solidale di cui c’è un bisogno vitale”.
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Grandi !!!
Siete meravigliosi !
?❤️??
grazie
Mi avete commossa, siete stupendi.
Grazie di cuore per il contributo ad una battaglia di resistenza e umanità
Piccoli grandi gesti che fanno la differenza.
Grandi!!!! Come contattarvi??
Questa è vera solidarietà ed amore per il prossimo, anche se viandante disperato!
Bravi!/e
Questa è vera solidarietà! Complimenti!