Pubblichiamo un intervento di Antonio Castronovi della Cgil Rome e Lazio a proposito di Europa, di crisi e di una conversione ecologica che potrebbe partire dalle regioni dell’Italia centrale, a cominciare da organizzazioni sociali e amministrazioni locali di paesi e città dell’Appennino (nella foto, Civita di Bagnoreggio, Viterbo) Questi e altri temi sono al centro di Piazza Bella Piazza, la festa della Cgil regionale in corso a Roma fino al 16 settembre.
L’Europa che abbiamo conosciuto e che ha consentito per la prima volta nella storia in questa parte del mondo la diffusione del benessere e delle tutele sociali tra ampie parti della parte sua popolazione e nel mondo del lavoro, è in profonda crisi e subisce drastiche e repentine trasformazioni.
Il modello sociale europeo, che a partire dal secondo dopoguerra, ha coniugato sviluppo economico e diritti sociali, libertà ed uguaglianza, mercato e democrazia, non è più al centro delle politiche pubbliche e subisce arretramenti e attacchi sotto le spinte delle politiche neo-liberiste dei governi, delle banche centrali, delle imprese. Le diseguaglianze sociali sono cresciute a sfavore del reddito dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, a tutto beneficio della rendita e dei profitti. L’allargamento del mercato mondiale ai paesi emergenti (Bric) ha ridotto gli spazi dell’Europa nel commercio mondiale, in particolare nel comparto dei beni di consumo popolare e nel manifatturiero, a danno soprattutto dei paesi più periferici dell’Eurozona, e tra questi l’Italia.
Il nostro paese soffre di questa riduzione degli spazi di mercato e della difficoltà a competere con paesi a più basso costo del lavoro come India e Cina, che tendono a occupare gli spazi di mercato che un tempo erano nostri.
L’allargamento dell’Europa verso Est ha indebolito il peso specifico del nostro paese nel sistema produttivo europeo a favore di paesi come Polonia e Romania, verso i quali si sono orientati gli investimenti e i processi di delocalizzazione e di decentramento produttivi di imprese italiane e tedesche in particolare, per sfruttare i vantaggi del dumping fiscale vigente in Europa e del più basso costo del lavoro. Anche per tale ragione abbiamo tutto l’interesse, come paese mediterraneo più periferico rispetto all’asse di sviluppo est-Ovest, a continuare a sostenere la necessità di un dialogo Nord-Sud con i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, nostro bacino naturale, verso i quali sostenere politiche di partenariato e di scambi commerciali per una maggiore integrazione economica e produttiva tra i paesi dell’area Sud finalizzati al co-sviluppo.
Il processo di finanziarizzazione dell’economia, la conversione dei profitti in rendita, rendono disponibili sul mercato finanziario e dei capitali risorse che non si orientano verso investimenti produttivi ma premono per entrare nel campo della gestione dei beni e servizi pubblici, di cui si pretende la loro privatizzazione.
L’Europa deve decidere se essere fedele alla propria storia e vocazione solidale e democratica, oppure se affidarsi completamente al mercato e alla politiche neoliberiste che tanti danni stanno arrecando alle nostre economie e ai nostri diritti.
Non si può essere contemporaneamente per politiche di coesione sociale e di cooperazione territoriale, e nello stesso tempo consentire una competizione fiscale intra-europea e pretendere dai governi politiche drastiche di risanamento finanziario e di tagli al welfare e alla politiche pubbliche, di liberalizzazione radicale del mercato del lavoro e della contrattazione.
L’Europa avrà un futuro se saprà assicurarlo al mondo del lavoro, alla parte più debole e fragile della sua popolazione, se saprà assicuralo ai più giovani, se saprà unificare i diritti nei paesi che ne fanno parte, se saprà quindi favorire la cooperazione tra gli Stati, fra i territori, tra le città e le comunità locali, tra le varie etnie e culture diverse che la compongono.
Serve una nuova grande politica europea con una comune politica fiscale e con un comune progetto di sviluppo che sostenga le economie regionali e locali in un’ottica di cooperazione e di non competitività, per fronteggiare la crisi dirompente e la competizione mondiale.
Dobbiamo decidere quale crescita vogliamo e come promuoverla.
Si parla di sviluppo sostenibile. Ma cosa vuol dire? Essenzialmente questo: soddisfare i bisogni del presente senza compromettere i diritti delle generazioni future. Ma qual è il futuro che vogliamo salvaguardare?
Nel mondo è in atto una guerra commerciale ed economica senza esclusione di colpi per il controllo e l’approvvigionamento delle risorse naturali, energetiche ed alimentari, per il controllo e la privatizzazione del patrimonio di conoscenze di cui è depositaria la storia millenaria dell’umanità. Le grandi multinazionali hanno da tempo messo in atto una strategia di conquiste per monopolizzare il controllo e la proprietà di queste risorse strategiche per il futuro dell’umanità. Queste risorse tenderanno a diventare sempre più scarse e a prezzi sempre più elevati.
L’Europa per sottrarsi al rischio di rimanere stritolata e soffocata, deve assumere come strategici per sé questi assi e sviluppare una idea del proprio futuro con politiche di sviluppo centrate sul risparmio e l’efficienza energetica, sulla sovranità alimentare, sulla difesa dei beni comuni naturali e dei beni pubblici, sulla cultura e sulla conoscenza.
Compito della Politica se vuole tornare ad essere rappresentativa e credibile, e del movimento sindacale in Italia e in Europa è sostenere con forza e con una grande carica progettuale e ideale questa prospettiva che può offrire una speranza e un futuro possibile per i suoi abitanti.
L’alternativa a questa possibilità è la divisione, la contrapposizione e la competizione selvaggia tra i suoi popoli, tra i suoi territori, lungo confini etnici seganti dal sangue di conflitti antichi e recenti che accompagnerebbero inevitabilmente ed inesorabilmente, temo, l’imbarbarimento e il declino della nostra civiltà.
La Commissione europea col Libro Verde sulla coesione territoriale ha posto l’azione locale al centro delle politiche di sviluppo attraverso un nuovo patto tra ruralità e urbanizzazione rafforzando l’attrattività dei piccoli centri rispetto alle grandi metropoli.
Abbiamo bisogno di questa prospettiva: individuare un percorso per uno sviluppo possibile del nostro paese che risponda agli assi strategici di una nuova politica europea e di uno sviluppo sostenibile. Noi pensiamo che le Regioni dell’Italia centrale possano offrire una risposta positiva a tale prospettiva, indicare una via e offrire un esempio possibile da imitare per altre regioni e territori del nostro paese e dell’Europa.
Non partiamo da zero. Negli ultimi anni il tema è stato oggetto di dibattito pubblico nonché di iniziative istituzionali delle Regioni e degli enti locali interessati (penso al Patto di Cagli del 28 ottobre del 2009 e agli Stati generali dell’Italia Meridiana a Perugia del 20 Maggio del 2010, ma anche l’iniziativa di Teramo della Cgil Abruzzo del 20 gennaio scorso, con quella dalla Cgil a Rieti in marzo e la Conferenza nazionale del 17 e 18 aprile a Firenze).
Perché l’Italia Centrale? Perché le sue caratteristiche geo-morfologiche, il tessuto produttivo di piccole e medie imprese, il ruolo storico avuto dalla cooperazione per promuovere il suo sviluppo, il retroterra della sua economia agricola e contadina, il modello di welfare e di coesione sociale esistente, la ricchezza delle sue risorse naturali, culturali ed ambientali, ne possono fare un laboratorio per progettare un nuovo modello di sviluppo per combattere la crisi attraverso politiche anticicliche e antirecessive.
Non abbiamo più da anni una politica di sviluppo governata e programmata dal Centro.
E propri dalla cooperazione tra Regioni, tra istituzioni locali, dalla messa a sistema del territorio partendo dalle sue vocazioni ecologiche, storiche ed ambientali, può nascere una alternativa alla crisi.
Lo sviluppo «endogeno» auspicato dalla Unione europea si basa proprio sulla valorizzazione delle vocazioni e delle risorse territoriali.
Se la globalizzazione ha separato i destini dell’impresa e dell’economia dai territori, primo compito di una nuova politica di sviluppo locale deve essere proprio quello di riconnettere economia e territorio, iniziando dalla sua tutela e dalla bonifica dalle devastazioni di cui il territorio è stato in gran parte oggetto, attraverso uno scriteriato consumo di suolo, l’abbandono delle attività agropastorali e lo spopolamento nelle zone interne e montane, e da una industrializzazione spesso irresponsabile che ha scaricato sulle popolazioni e sul territorio veleni e inquinamenti delle acque, dei fiumi e dei laghi. Interi territori sono compromessi dalla presenza di discariche abusive. Nel Lazio, secondo il Rapporto Ecomafie 2011 di Legambiente, crescono i reati legati al ciclo dei rifiuti. Mentre l’88% dei comuni ha rilasciato permessi di costruire in aree a rischio idrogeologico e le sue coste (117 Km su un totale di 290) sono compromesse dall’erosione.
Lo sviluppo che abbiamo conosciuto nel passato, fatto di grandi imprese, di poli di sviluppo intensivo, concentrato nelle città industriali e nelle pianure, che ha isolato e impoverito gran parte del territorio delle zone più interne e periferiche, appartiene appunto al passato. E non sempre, tra l’altro, la crescita economica di un’impresa ha coinciso con lo sviluppo del territorio in cui essa è stata insediata. Oggi sulle zone costiere vive il 66% della popolazione italiana, dove sono concentrate la maggior parte degli insediamenti produttivi, delle infrastrutture, dei servizi pubblici e privati. I comuni di pianura nel Centro Italia sono solo il 4,2% del totale. A tale densificazione e concentrazione della popolazione in uno spazio ristretto non corrisponde più, però, la produzione di risorse e di servizi adeguati a soddisfare i suoi bisogni. Col risultato che aumenta il degrado sociale delle periferie non solo nei grandi insediamenti urbani, che aumenta il pendolarismo e si allungano i tempi di percorrenza tra centro e periferie, tra casa e lavoro, in presenza di una grave e irrisolta crisi del trasporto pubblico, in particolare del sistema regionale del trasporto ferroviario.
La crisi e le politiche di risanamento messe in atto dal governo per rispondere alle attese del mercato finanziario, rischiano di aggravare queste tendenze negative: i tagli alla spesa pubblica infatti incidono più pesantemente sulle popolazioni più periferiche con chiusure e riduzioni di servizi e di presidi sociali e sanitari nelle zone più interne. Sono proprio i piccoli comuni montani quelli che rischiano inoltre di essere maggiormente penalizzati dalla soppressione e scioglimento delle comunità montane.
Il territorio montano rappresenta circa il 75% dell’intero territorio nazionale, e i piccoli comuni il 70% dei comuni italiani e occupano il 54% del territorio nazionale e ospitano oltre dieci milioni di cittadini.
L’Appennino, spina dorsale dell’Italia Centrale, è in stato di abbandono. I presidi storici di quelle terre sono stati in gran parte abbandonati dai piccoli contadini, veri e unici custodi naturali di quei luoghi, col risultato che abbiamo un territorio più fragile, meno curato, più esposto alle avidità di «predatori» che sfruttano i territori montani per un turismo aggressivo che danneggia il patrimonio boschivo, desertifica terre un tempo coltivate, rendendo quei territori più esposti alle intemperie e ai disastri naturali.
Paradossalmente penso che una possibile risposta alla nostre difficoltà sia proprio nel valorizzare i territori più periferici e isolati rispetto alle zone interessate dallo sviluppo «storico» della nostra economia, zone ancora ricche di biodiversità, di potenzialità di sviluppo agricolo moderno e multifunzionale; di un inestimabile patrimonio culturale, archeologico e ambientale; di una rete di piccoli comuni, veri gioielli architettonici spesso depositari di bellezze storiche e monumentali incomparabili, che possono diventare i centri di uno nuovo sviluppo diffuso e policentrico centrato sul turismo sostenibile. Questi territori possono essere il laboratorio naturale di una riconversione ecologica del nostro sistema produttivo e del nostro modello di consumi, valorizzando il capitale umano e culturale delle nuove generazioni. Qui si possono incentivare i settori legati alle fonti rinnovabili di energia utilizzando le risorse naturali di questi territori come acqua, sole, vento, biomasse; si può rilanciare una nuova agricoltura e un’industria alimentare legata ai prodotti tipici dei luoghi, sottraendosi così alla dipendenza delle multinazionali nell’approvvigionamento alimentare; mettere in atto politiche virtuose nell’industria del riciclo e del riuso; finalizzare investimenti in opere utili centrate sul riassetto e la manutenzione idrogeologica del territorio, sul recupero edilizio del patrimonio abitativo esistente e sottoutilizzato per favorire politiche di ripopolamento dei borghi; rilanciare una mobilità centrata sul trasporto ferroviario che consenta una mobilità non solo verticale ma anche trasversale per collegare territori contigui, mettere in comunicazioni pianura e montagna, zone costiere e zone interne, e favorire una mobilità sostenibile per popolazioni e merci. Secondo il Rapporto dell’Unione delle Province 2011, nelle Province de Lazio sono proprio il turismo e l’agricoltura i settori più virtuosi dell’economia regionale.
A tal fine serve mettere in campo un nuovo federalismo solidale e cooperativo tra popolazioni ed Enti Locali per mettere a sistema i territori e progettare politiche comuni di sviluppo locale anche per l’accesso ai finanziamenti europei. Sappiamo delle difficoltà finanziarie degli Enti Locali limitati nelle loro possibilità di investimenti dai vincoli del Patto di stabilità. Ma perché non ripristinare la funzione della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) come finanziatore privilegiato degli enti territoriali con mutui a tasso agevolato? La massa di denaro che la Cdp muove annualmente sono di circa 250 miliardi di euro, di cui oltre l’80% proviene dai risparmi dei lavoratori e dei cittadini del nostro paese, gran parte dei quali sono però investiti nell’economia e nei mercati finanziari di tutto il mondo.
Penso quindi che una leva fondamentale per stimolare politiche virtuose sia nella creazione di una nuova governance democratica di cui artefici e protagonisti siano i sindacati dei lavoratori, le imprese pubbliche e private, il sistema cooperativo, le giovani generazioni, le Università e i Centri di Ricerca, le casse di risparmio, il credito cooperativo, Banca etica, il movimento associativo, le amministrazioni locali, che abbia il compito ambizioso di sostenere la crescita di una rete di imprese e di territori che cooperino tra loro per fare sistema, valorizzando le storiche vocazioni produttive dei territori e dei distretti dell’Italia centrale famosi in tutto il mondo.
Per concludere. È dalle difficoltà e dalle crisi più estreme che spesso nasce lo stimolo per l’innovazione e il cambiamento più radicale. L’innovazione non nasce e non si afferma col senso comune del pensiero dominante e dal’agire secondo abitudini consolidate, ma dal coraggio di osare e di mettere in campo idee apparentemente minoritarie e irrealizzabili. Questo è il compito delle classi dirigenti di cui hanno bisogno oggi le nostre comunità, il nostro paese, l’Europa: dare una prospettiva di sviluppo e di civiltà ai nostri popoli che sappia oltrepassare i confini delle vecchie certezze crollate e sappia re-inventare il futuro. Noi, vogliamo essere parte di questa impresa.
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