Con la pandemia la presenza del digitale si è fatta più pressante ed è stata da molti esaltata. In realtà le ultime settimane hanno scosso profondamente in tutto il mondo l’edificio di una economia già in crisi, aggravato disuguaglianze sociali, svelato le carenze della sanità pubblica e l’abbandono in cui è stata lasciata da anni la scuola. Ma, soprattutto, «hanno costretto a fermare lo sguardo su quel “rimosso” della storia in cui sono state confinate le esperienze più universali dell’umano – scrive Lea Melandri in questo articolo prezioso -, in cui è inscritta la nostra fragilità e la nostra finitezza, la nostra autonomia e il bisogno che abbiamo gli uni degli altri…». Il lavoro e le relazioni online hanno fatto sentire, in modo doloroso e inquietante, quanto le presenze reali siano indispensabili «per una socialità fatta di individui restituiti alla loro interezza, corpo e pensiero, sentimenti e ragione, libertà e dipendenza»
“È difficile trovare accostati, sulla stessa pagina di un quotidiano, due orientamenti all’apparenza contrastanti come la politica che risponde ai limiti, alle imperfezioni e alle trasgressioni dei corpi sorvegliandoli e punendoli, e una tecnica sempre più orientata a sostituirli. Nell’articolo di Valerio Rossi Albertini, uscito giorni fa su “Il Riformista”(28/5/20), l’alternativa sembra volgere a favore delle intelligenze artificiali che in tempo di coronavirus prendono nuovo impulso creativo.
“Macchè guardie civiche – si legge nel titolo – Hai visto come è figo il cane robot?”. Il riferimento è a Singapore dove, ad aiutare le persone in strada perché mantengano la distanza, è un cane robot che le accompagna e le ammonisce “con voce cordiale e suadente”. Il commento non lascia dubbi su ciò che appare più desiderabile e prevedibile: “Le sfide, più sono impegnative, più richiedono avanzamenti nelle conoscenze (…) E siccome ogni frammento di conoscenza è un tassello nell’enorme mosaico del Sapere Universale, i progressi compiuti rimangono anche quando cessa la causa occasionale che li ha prodotti (…) La simbiosi con i robot sarà la soluzione di molti problemi. I tempi sono maturi e la pandemia potrebbe essere il punto di svolta per accettarli e diffonderli”. In sostanza, basta aspettare che l’emergenza sia conclusa per accorgersi che dalle macerie emergono “gioielli inaspettati”.
Ciò che colpisce in questo ragionamento è la pervicacia di una cultura che riesce a cancellare i corpi anche quando, strappati violentemente dal privato, compaiono sulla scena pubblica con tutta la loro vulnerabilità, i loro limiti, le ferite e le devastazioni che la storia vi ha impresso sopra. Dono inaspettato, e si spera anche eredità della pandemia, dovrebbe essere al contrario la consapevolezza degli esiti distruttivi di un dominio che ha deciso, insieme al destino di uomini e donne, anche la sottomissione della natura, dei viventi non umani e di quel sesso che è parso troppo confinante con l’animalità per aspirare al governo del mondo.
LEGGI ANCHE La comunità intoccabile Carolina Meloni González Corpo, legge e pratiche del femminismo Lea Melandri La teoria della donna malata Johanna Hedva
Dalla cancellazione del corpo femminile non poteva non prendere avvio un sapere che avrebbe mutilato l’uomo stesso, la sua civiltà, le sue costruzioni materiali e simboliche, del radicamento biologico e pulsionale, così come di tutte le esperienze che lo attraversano: la nascita, la morte, la sessualità, la maternità, ecc. Nella differenziazione tra il “principio paterno”, spirituale, immortale, e quello “materno”, identificato con la “componente carnale dell’uomo” (Bachofen), è come se fosse passata la guerra tra pensiero e corpo, e la necessità per il vincitore di tenere costantemente a bada la parte di sé che, rivoltandoglisi contro, potrebbe minarne la libertà e la potenza. Nell’idea del progresso indefinito delle sue mete tecnologiche, la cultura maschile tradisce l’incertezza di fondo di chi sa di muoversi in un terreno minato ed è costretto a rafforzare ininterrottamente le sue difese. Sotto questo aspetto non sono così lontane quanto possono apparire la biopolitica – controllo e disciplina dei corpi, dalla scuola al lavoro, repressione e punizione di chi non rispetta le regole -, e la tentazione, sempre più evidente nello sviluppo delle tecnoscienze, di liberarsene, quasi fossero soltanto un peso.
La presenza del digitale si è fatta con la pandemia, l’isolamento, il lavoro da casa, le lezioni online della scuola, sempre più pressante, tanto da essere considerata da molti la garanzia di una migliore gestione delle cose che ci riguardano, come già prevedevano i critici del “post-umano” e i teorici della “morte del reale”. A proposito della “inquietante passione di generare doppi artificiali di se stesso”, Ėric Sadin scrive:
“… creare qualcosa di più potente di noi, che supplisca la nostra condizione, sottoposta a dei limiti e ai rischi del mondo (…) le tecnologie cominciano ad assumere una funzione di consiglio e assistenza quotidiana (…) demandare all’intelligenza artificiale il compito di risolvere le nostre difficoltà. Più una società è ingovernabile, più aumenta il compito di guidare le nostre vite”.
La pandemia, portando i corpi nel cuore della politica, ha scosso profondamente l’edificio di una economia già in crisi, aggravato disuguaglianze sociali in crescita, svelato le carenze della sanità pubblica e l’abbandono in cui è stata lasciata da anni la scuola. Ma, soprattutto, come era prevedibile, ha costretto a fermare lo sguardo su quel “rimosso” della storia in cui sono state confinate le esperienze più universali dell’umano, in cui è inscritta la nostra fragilità e la nostra finitezza, la nostra autonomia e il bisogno che abbiamo gli uni degli altri. La malattia, la morte e le cure necessarie che le accompagnano hanno rotto, se ancora ce n’era bisogno, la separazione tra vita privata e vita pubblica, tra individuo e collettivo, lasciando intravedere una comunità legata da rapporti più profondi di solidarietà e compassione. Tra aule scolastiche deserte e interni di famiglia troppo pieni, il lavoro e la relazioni online hanno coperto provvidenzialmente un vuoto altrimenti insuperabile per i rischi del contagio, ma hanno fatto sentire contemporaneamente, in modo doloroso e inquietante, quanto le presenze reali siano indispensabili per una socialità fatta di individui restituiti alla loro interezza, corpo e pensiero, sentimenti e ragione, libertà e dipendenza.
Non è certo di robot da compagnia negli ospedali e nelle case di riposo che abbiamo bisogno per evitare la tragicità delle morti di medici, infermieri e pazienti, a cui stiamo assistendo per effetto del contagio. È sempre Eric Sadin a ricordarci che per questa strada si andrebbe solo verso la “vergognosa riduzione del personale e la disumanizzazione della cura” (E. Sadin, Critica della ragione artificiale. Una difesa dell’umanità, Luiss 2019). Significherebbe, in altre parole, riprodurre le cause che ci hanno portato al disastro attuale.
Pubblicato su Il Riformista del 3 giugno (con il titolo originale Se il post Covid è post umano) e qui con l’autorizzazione dell’autrice. Altri articoli di Lea Melandri sono leggibili qua.
Paola Ricca Mariani dice
Alto si leva un giustissimo grido. Ma chi lo ascolterà? Chi vincerà?