Nella notte della violenza, lunga più di settant’anni, tante donne e uomini non hanno smesso di cercare relazioni fuori dal dominio militare. È proprio nei momenti più bui che occorre nutrire l’opzione nonviolenta, con le sue molte e diverse storie che non fanno notizia

Una dozzina di anni fa, durante un viaggio in Israele e Cisgiordania, mi capitò di partecipare a un piccolo presidio nonviolento nei pressi di un villaggio palestinese nei territori occupati da Israele. Ci unimmo – eravamo in quattro – a un gruppetto di persone del posto che da qualche tempo manifestavano, con la propria presenza, per difendere i propri uliveti, minacciati d’essere estirpati. A una certa distanza, sulla collina opposta, si intravedevano militari israeliani e altre persone: osservavano, senza intervenire. Quel piccolo presidio, nell’economia di quel viaggio, fu uno dei pochi, forse l’unico, motivo di conforto, a fronte dell’angoscia suscitata dalla constatazione che un clima di oppressione e violenza gravava su tutta l’area. Angoscianti, in particolare, la condizioni di vita in Cisgiordania, che attraversammo fra posti di blocco, presidi militari, muri di separazione, strade semi deserte. Ma angosciante, in modo diverso, anche la vita in Israele, una società di fatto militarizzata.
Si aveva la sensazione fortissima, già allora, d’essere in un vicolo cieco, con gli oppressori da un lato, sempre più decisi a estendere il proprio arbitrario controllo su terre e corpi altrui, e gli oppressi dall’altro, soggiogati, infelici e senza strategie politiche di liberazione, dopo il fallimento degli accordi di Oslo e la tragica stagione degli attentati. La via dell’azione nonviolenta, quindi la crescita dal basso di una nuova capacità di rivendicare i propri diritti, pareva un raggio di luce, sia pur flebile, in quella notte politica: prefigurava la possibilità di sbloccare lo stallo facendo leva sugli attivisti non militarizzati delle due parti e da lì cominciare a mobilitare le rispettive opinioni pubbliche. In quello stesso periodo Luisa Morgantini, con AssoPacePalestina, invitò in Italia un attivista nonviolento palestinese, che venne a raccontare le idee e le azioni di quel piccolo ma promettente movimento.
Sono passati oltre dieci anni e quel raggio di luce, a quanto pare, si è spento, o forse è stato spento. Lo Stato di Israele, da allora, ha addirittura accresciuto la propria pressione sulla popolazione palestinese, fra violenze, omicidi, nuovi insediamenti coloniali, fino a stabilire un sistema di potere che le maggiori organizzazioni internazionali (anche israeliane) per la tutela dei diritti umani definiscono di apartheid. Di pari passo, c’è stato un progressivo spostamento a destra dell’asse politico, fino all’attuale governo, estremista e suprematista, guidato dal solito Netanyahu; l’opinione pubblica democratica e pacifista, un tempo significativa in Israele, è finita ai margini della scena, quasi eclissata. Sul lato palestinese, l’opzione nonviolenta non ha preso campo e la direzione politica – se ve ne è davvero una – è impressa, in Cisgiordania, dal corrotto e confuso apparato dell’Anp e a Gaza – quella terribile prigione a cielo aperto – dal movimento islamista Hamas, protagonista in queste ore di una spaventosa reazione armata all’oppressione.
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Agli uni e agli altri, al governo israeliano e ad Hamas, dovremmo chiedere qual è la via d’uscita che intravedono a questa esplosione di violenza, ma lo sappiamo già: non c’è via d’uscita, se non uno stato di guerra permanente, col più forte che farà pagare alla controparte, per chissà quanto tempo, il prezzo delle violenze di questi giorni, gettando le premesse per ulteriori rancori, altre violenze, senza che mai si manifesti una soluzione civile di un conflitto che perdura da troppi lustri.
Quanti passi indietro, in questi anni. Che sconforto. Eppure, di fronte all’orrore di queste ore, per trovare una ragione di impegno, se non ancora di speranza, è necessario tornare lì, a quel presidio nonviolento, a quel movimento che prendeva corpo fra gli attivisti palestinesi e che aveva dei punti d’appoggio non solo all’estero ma anche nella società civile israeliana.
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Non saranno le bombe e i guerriglieri di Hamas, e nemmeno i tank e gli aerei da combattimento di Israele, a portare pace, diritti, rispetto della dignità di ciascuno in quella terra oggi disperata. La via d’uscita, se un’uscita ci sarà, verrà da chi è oggi è silente ed emarginato, da chi vorrà investire tempo, energia, intelligenza nella costruzione dal basso di una visione nuova di convivenza: sono le persone che dobbiamo incoraggiare. Come dobbiamo chiedere, noi cittadini di paesi ancora (abbastanza) democratici, la ricostruzione di organismi sovranazionali efficienti e autorevoli, perché c’è il bisogno urgente di un cessate il fuoco immediato e del ripristino di condizioni di vita degne per la popolazione palestinese, vessata oltremisura dallo Stato israeliano e abbandonata al suo destino dalla comunità internazionale.
Difficile per noi europei, cittadini di paesi storicamente vicini allo Stato di Israele, non sentirci in qualche misura responsabili di quanto accadendo, per l’ignavia, la complicità, le tante viltà dei nostri Stati in questi anni; come non rimproverarci una parte di responsabilità per la deriva autoritaria di Israele e le sue sistematiche violazioni della legalità internazionale? E come non sentirci responsabili, in quanto cittadini attivi, per non avere sostenuto a sufficienza, con adeguata convinzione, la prospettiva nonviolenta coltivata nella società civile palestinese come in quella israeliana da illuminate minoranze attive?
Nelle notte profonda delle violenze e degli eccidi, si può forse uscire dalla sensazione di sgomento e di impotenza che ci affligge, riannodando questo filo, scommettendo sull’impegno di quelle minoranze che ancora oggi, nonostante tutto, vogliono credere di poter costruire un futuro di convivenza degno d’essere vissuto.
alla fine del 2019 ho partecipato con assopalestina a un viaggio nei territori occupati e incontrato i resistenti nonviolenti palestinesi e israeliani, in particolare the parent’s circle (genitori israeliani con figlio ucciso da palestinesi e viceversa genitori palestinesi con figli uccisi da israeliani). anche quest’anno assopalestina ha organizzato viaggi analoghi e si apprestava a fare un viaggio per aiutare la raccolta delle olive (non tanto per la fatica fisica ma per disincentivare attacchi dei coloni agli uliveti..). Esistono queste minoranze “abramitiche” (che sperano contro ogni speranza) ma non siamo riusciti a sostenerle adeguatamente. Sono flebili, ma sono l’unica speranza contro tutte le violenze e gli integralismi
Un sogno: comprendo l esasperazione di chi non è libero in patria, ma oggi, la sua più grande opera x la pace, sarebbe di rimandare a casa tutti i prigionieri. Con questo gesto dimostrerebbe d aver capito che niente può risolvere le questioni umane se non un grande gesto di umanità. Difficile, certamente, ma assolutamente da sperimentare.