Abbiamo conosciuto Marco Arturi, autore di questo articolo, attraverso Carta. Lo abbiamo visto spesso in Val di Susa, abbiamo ragionato con lui dei temi della decrescita oppure delle lotte della Fiom, ma soprattutto di terra, di vino e di viticoltura naturale. Luigi Veronelli, il più grande giornalista enogastronomico, che Marco ha conosciuto, lo avrebbe definito eno-dissidente. Questo articolo è stato pubblicato su officinaenoica.org: trovate un quarto d’ora per visitare questo sito.
Mi capita di rado – ed è un peccato, ma forse è giusto così – di ripensare a quando, qualche anno fa, ho cominciato a occuparmi di vino. I ricordi più vividi che conservo di quel periodo sono legati, come sempre accade quando si parla di amore, all’emozione della scoperta.
Quasi per combinazione cominciai a scrivere articoli sul vino italiano per una delle due più importanti testate russe del settore. Quando mi accorsi che i pezzi che mi commissionavano da Mosca (e che mi pagavano puntualmente e bene) erano richiesti direttamente dagli importatori, decisi di lasciar perdere; di lì a poco mi chiamò il caporedattore della rivista rivale ma il rapporto durò ben poco, fino al giorno in cui gli inviai un ritratto di Bruno Giacosa e lui mi chiese di chi diavolo si trattasse e mi invitò a scrivere di «produttori importanti come Michele Chiarlo o Firriato». Decisi di cambiare aria. Quello che non smisi di fare fu di arrampicarmi sulle colline, attratto dal richiamo del vino e dalle sue promesse.
E’ così che è cominciato quel periodo di scoperta di cui dicevo. Un’esperienza unica che, come sa bene chiunque abbia avuto il privilegio di passarci, ti arricchisce enormemente dal punto di vista umano. Perché il vino in fondo è un pretesto: per avvicinarsi alla terra, per scoprire storie e territori, per crescere. E soprattutto per stare insieme, per poter dire «noi».
Dal momento che la bottiglia di vino aveva manifestato la capacità di aprirmi gli occhi sulla natura e di spiegarmi la terra, ad attrarmi non poteva che essere la viticoltura naturale. Ecco perché in breve mi sono trovato a condividere amicizie con diversi vignaioli classificati come artigiani o naturali; da lì a combattere delle battaglie comuni il passo è stato breve, ne rimane traccia in documenti come l’appello scritto a quattro mani con Sandro Sangiorgi («Il vino è lavoro, è socialità, è commercio») o quella Carta dei sentimenti nella quale ho prestato a loro, a quei vignaioli naturali un po’ in crisi di identità, le parole per spiegare un disagio e una volontà di riscatto. Mi rimane nitido il passaggio che parla della «comune convinzione che anche un atto come vendere in un certo modo una bottiglia di vino sia un’azione che può contribuire a rendere il mondo migliore». Già, perché uno dei problemi di questi viticoltori è sempre stato quello di riuscire a coniugare coerenza e indipendenza con le esigenze di cassa. In una parola, il vino hanno bisogno di venderlo anche loro: ma per quello che è, vale a dire un bene culturale, una testimonianza di territorio e di diversità, senza snaturarlo o affatturarlo o mortificarlo.
Così negli anni a venire ci è capitato di trovarli a volte un po’ fuori posto, ingessati e vulnerabili negli stand semivuoti di Semplicemente uva mentre la loro vera festa era vicina ma in tutt’altro luogo, oppure nel calderone del Vinitaly. Niente di (troppo) grave, scelte (più o meno) legittime. Non fosse che quei luoghi e quelle circostanze condizionano un certo tipo di vignaiolo e un certo tipo di vino, inibendone in qualche modo la convivialità e la comunicatività diretta che conosciamo. Non è il commercio in sé a rendere il vino meno libero: è la volontà di costringerlo – a fini commerciali o speculativi – in etichette, classifiche, circuiti. Ecco perché i posti giusti nei quali trovarlo e acquistarlo restano quelle fiere magari un po’ sbracate, chiassose e approssimative ma inequivocabilmente autentiche che hanno raccolto a vario titolo l’eredità del progetto critical wine e delle intuizioni vinoveriste. Sarebbe bello, non ci stancheremo mai di ripeterlo, se gli stessi vignaioli ci aiutassero a farle crescere.
Ricordo un’altra cosa, di quel periodo: un’enoteca di Torino abbastanza disordinata e confusionaria, nella quale il vino dovevi cercartelo con un po’ di pazienza tra offerte, piccoli stock e cartoni singoli ancora da svuotare. Lo spazio non era molto ma le etichette erano davvero tante, eterogenee nella provenienza come nella tipologia: eppure il proprietario, un torinese vecchio stampo dai modi affabili che i produttori andava a trovarli di persona, sapeva spiegarti tutto di ognuna di quelle bottiglie e di chi le produceva. Poche altre volte mi è successo di vedere il vino davvero libero come su quegli scaffali privi di criteri espositivi e di classificatori, sostituiti dal racconto di chi aveva conosciuto le persone e visto i luoghi dei quali era espressione: e a prescindere dalla quantità di solfiti. Non so se l’enoteca sia ancora lì, non ci vado da tempo: ricordo appena la strada, a pochi minuti dal Lingotto che all’epoca ancora non ospitava l’intuizione geniale di Eataly e le campagne pirotecniche di Oscar Farinetti. Però ci tornerò a breve, guidato dall’ennesimo pretesto, a cercare uno dei molti luoghi nei quali il vino è già libero. Senza bisogno di loghi né di cartellini tricolore al collo.
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