Capita, qualche volta, che la cosiddetta saggezza popolare sia di una semplicità tanto lucida quanto espressiva. Il detto che qui ci interessa recita così: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. La capacità espressiva cresce se quel mare, il nostrum, è diventato, ormai da decenni, un immenso cimitero blu. Eppure non c’è categoria significativa di lavoratori, in questo angolo del mondo, che non abbia rivolto accorati appelli contro il razzismo, dai calciatori della serie A ai carabinieri. Niente da fare, tra quel che si dice o si promette, ovunque ma soprattutto nei media, e come ci si comporta la distanza resta siderale. Quello dell’ipocrisia sul contrasto razzismo è un caso esemplare. Perché altrimenti, con tanta consapevolezza diffusa e manifesta, si continuerebbe a fingere di non vedere lo sterminio del Mediterraneo? E perché, per fare solo un paio di esempi, l’Italia crea regimi differenziati tra i cittadini ucraini e non ucraini in fuga dagli orrori della guerra e dalle persecuzioni? E come mai, due anni dopo il varo – tra le memorabili lacrime della ministra Terranova – di un provvedimento di regolarizzazione tanto risicato da coinvolgere meno di un terzo delle presenze irregolari stimate, oltre la metà delle persone che ne hanno diritto aspettano ancora i documenti che renderebbero almeno un po’ meno invivibile la loro esistenza? Forse, per una volta, nel tempo delle complessità, la risposta a tale apparente incongruenza è piuttosto semplice quanto amara: la gran parte delle persone, a cominciare da molti di quei testimonial, non ha alcuna idea di cosa sia il razzismo. Lo confonde con vaghi sentimenti di odio o lo restringe al semplice colore dell’epidermide. Per questo Annamaria Rivera, che lo ha studiato per una vita intera, si affanna tanto a insistere nello spiegare, con pazienza certosina, che cos’è il razzismo. Un orrendo sistema d’idee, discorsi, rappresentazioni e pratiche sociali che, tra le altre cose, sceglie bersagli diversi secondo i periodi e le circostanze storiche – può dunque scagliarsi contro qualunque gruppo umano indipendentemente dalle sue peculiarità fenotipiche e perfino culturali e sociali – e cresce quando il senso civico è debole e le relazioni sociali basate sulla reciprocità e la solidarietà si sono inaridite

Per definire e analizzare il razzismo è necessario anzitutto sbarazzarsi della categoria di “razza”, da cui pure deriva l’etimologia del termine. Questa categoria, con cui si pretende di descrivere e gerarchizzare i gruppi umani sulla base del biologico, è stata criticata e ormai abbandonata sia dalle scienze sociali, sia da quelle naturali.
I biologi hanno dimostrato, fra l’altro, che la distanza genetica media fra due individui è pressappoco pari a quella che separa due supposte razze. Tuttavia, la dimostrazione dell’infondatezza della “razza” non ha mai interdetto e tuttora non interdice che certe collettività siano percepite, categorizzate, trattate quasi fossero “razze”.
E le “razze” s’inventano. Come insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo, qualunque gruppo umano può essere razzizzato, indipendentemente dalle sue peculiarità fenotipiche e perfino culturali e sociali. Lo stigma della razza è, infatti, l’esito di un processo sociale di etichettamento: in definitiva, tutte le “razze” sono inventate.
La differenza “di colore” non c’entra niente. Gli italiani emigrati negli Stati Uniti, in Germania, in Svizzera, in Francia ecc. erano considerati individui di razza diversa: disprezzati e trattati più o meno come oggi sono trattate le persone di origine immigrata. A New Orleans nel 1891 furono linciati undici italiani, quasi tutti siciliani, accusati di aver ucciso il capo della polizia urbana, cosa palesemente falsa. Ad Aigues-Mortes, in Francia, nell’agosto del 1893, furono uccise decine di lavoratori italiani che erano lì, nelle saline, per la raccolta stagionale del sale. E il razzismo anti-italiani si è perpetuato fino ad anni recenti.
Gli ebrei, che furono sterminati a milioni nei lager nazisti, non erano certo neri ed erano di nazionalità e culture analoghe a quelle del resto degli europei.
A dimostrare ciò che dico, basta pensare agli albanesi. A partire dai primi anni ’90 ci furono massicci esodi di albanesi verso l’Italia. E l’albanese diventò il bersaglio d’insulti e atti razzisti. Ogni volta che si verificava un fatto di cronaca nera, uno stupro, un omicidio, ecc., si additava come colpevole qualche albanese; al punto che “albanese” finì per diventare un insulto abituale che si scambiavano perfino i bambini.
L’8 agosto 1991, approdarono nel porto di Bari, sulla nave Vlora, 20mila profughi albanesi, che dapprima furono accolti dalla popolazione con una certa solidarietà. Ma intanto si era avviata la macchina della propaganda politica e mediatica contro di loro e l’orientamento del governo italiano si era assai indurito. Così che i profughi furono rinchiusi in massa nel vecchio Stadio della Vittoria e trattati come animali in gabbia, per essere poi rimpatriati con l’inganno.
Non solo. Gli albanesi sono stati anche vittime di una strage. Ricordo che nella notte fra il 28 e il 29 marzo del 1997, una carretta del mare, carica di profughi albanesi fu speronata e affondata da una corvetta della marina militare italiana, la Sibilla. Morirono annegate più cento persone, in maggioranza donne e bambini.

Ciò detto, come si potrebbe definire il razzismo? Io propongo questa definizione: è un sistema d’idee, discorsi, rappresentazioni e pratiche sociali, che attribuisce a gruppi umani e agli individui che ne fanno parte differenze essenziali, generalizzate, definitive, allo scopo di legittimare pratiche di stigmatizzazione, discriminazione, segregazione, esclusione, perfino sterminio.
Conviene aggiungere che alle collettività definite come radicalmente differenti di solito è negato il diritto di autodefinirsi.
Il razzismo, quindi, ha bersagli diversi secondo i periodi e le circostanze storiche. Per esempio, il fatto che l’Italia sia stata un paese fascista e colonialista conta molto nel razzismo attuale verso le persone immigrate o solo di origine immigrata. Si consideri, inoltre, che secondo sondaggi successivi, l’Italia s’illustra anche per antiziganismo: l’82% del campione intervistato esprime ostilità, odio o paura per la presenza di appena 180mila “zingari”.
Il razzismo è anche il risultato di un circolo vizioso. Diventa sistemico e abituale, quando è direttamente o indirettamente incoraggiato o perfino praticato dalle istituzioni e da mezzi di comunicazione. Quando l’intolleranza verso determinati gruppi o minoranze, diffusa nella società, è legittimata dalle istituzioni, anche europee, e dagli apparati dello Stato, nonché dalla propaganda e da una parte del sistema dell’informazione, è allora che s’innesca tale circolo vizioso.
È un circolo vizioso micidiale. Basta considerare lo stato di abbandono nel quale sono gettati numerosi richiedenti-asilo, che pure dovrebbero essere oggetto di protezione particolare: di fatto privati perfino del diritto di sfamarsi e di avere un tetto sulla testa, in molti casi vanno a raggiungere la schiera dei senza-dimora, cosa che a sua volta fa gridare allo scandalo i difensori del decoro urbano e diviene pretesto per leggi e ordinanze persecutorie e liberticide, e per campagne allarmistiche intorno al tema dell’insicurezza, uno dei più insistenti nel discorso pubblico .
Conviene aggiungere che il sistema-razzismo è sempre sorretto sia da un apparato di leggi, norme, procedure, che hanno per effetto di inferiorizzare, discriminare, segregare, escludere migranti, rifugiati e minoranze; sia da dispositivi simbolici, comunicativi, linguistici, che sono in grado di agire direttamente sul sociale, producendo e riproducendo discriminazioni e ineguaglianze.

Parlare delle tante leggi che discriminano le persone immigrate e rifugiate sarebbe troppo lungo.
Perciò facciamo solo un esempio relativamente recente: la criminalizzazione da parte delle istituzioni italiane non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma pure di chiunque, anche individualmente, compia gesti di solidarietà verso i profughi. È indubbio che un tale luminoso esempio dall’alto non faccia che incoraggiare e legittimare intolleranza e razzismo “dal basso” (per così dire).
Pensate ai tanti episodi di barricate contro l’arrivo di richiedenti-asilo, ma anche alle sempre più numerose rivolte nei quartieri popolari, soprattutto romani, contro l’assegnazione di case popolari a famiglie non perfettamente “bianche”. In questi casi l’ingannevole formula della “guerra tra poveri” non potrebbe essere più assurda, visto che spesso, a istigare e guidare tali rivolte, sono militanti di Forza Nuova o CasaPound. Qui il circolo vizioso arriva fino al rafforzamento e legittimazione, pur implicita o involontaria, della destra neofascista.
La tendenza a costruire una comunità razzista (secondo l’espressione del filosofo Etienne Balibar) si accentua quando il senso civico è debole e le relazioni sociali basate sulla reciprocità e sulla solidarietà si sono inaridite, quando prevale la cultura dell’individualismo, dell’egoismo, del cinismo collettivi, quando le rivendicazioni sociali e i conflitti di classe (come si diceva un tempo) non hanno più lingua e forme in cui esprimersi.
Articolo illuminante di un fenomeno molto preoccupante che mina la convivenza pacifica e solidale tra gli esseri umani. Preoccupante sempre ma a maggior ragione oggi per quanto sia subdola e organizzata nel seminare odio e disuguaglianze, per negare e distruggere la naturale socialità degli esseri umani
Un articolo lucidissimo e con riflessioni indispensabili per chi voglia contrastare il razzismo riconoscendolo ed estirpandolo sul nascere nelle sue innumerevoli forme.
Grazie
Quanta verità
Nei quartieri “popolari” romani e non, la destra e l’estrema destra hanno un peso, ma NON si possono ignorare o affrontare sommariamente anche a livello di semplice comunicazione/rilessione le cause strutturali che determinano forme molteplici di razzismo.
Altrimenti si rischia un razzismo al contrario il cui esito politico potrebbe condurci molto lontano e in poco tempo.
molto chiaro, lo metto da parte tra i materiali da utilizzare a scuola il prossimo anno. Grazie!
Gli articoli di Annamaria hanno un grande pregio. Costruiscono o ricostruiscono nessi – e fatti – che nella nostra memoria, a volte troppo breve, possono annebbiarsi fino a scomparire. Invece, le sue parole fanno sempre chiarezza. Un mio quesito. Il razzismo del nostro tempo è lo stesso di sempre? La schiavitù degli antichi era dello stesso tipo? O dall’Ottocento in avanti il razzismo è di altro genere?
nn si sa mai abbastanza sul razzismo … come su tanti altre tematiche … temo che ormai certe convinzioni sono entrate nel ns DNA. la pigrizia, la rassegnazione, l’accettazione acritica di certi presunti saperi, la rinuncia ad approfondire ci dispensano dall’impegno diretto. E deleghiamo al partito (nel meno peggiore dei casi) con il voto