L’epoca dell’automobile è finita anche se l’auto non vuole morire, grazie agli incentivi, all’infinita corsa a soffocare la terra con l’asfalto e all’illusione dell’auto elettrica (mezzo che non elimina l’inquinamento, né le congestione e neanche il sovraconsumo di materiali e di energia necessario a muovere 1/2.000 chilogrammi di ferraglia). Cosa significa discutere dell’auto oggi? Secondo Guido Viale significa affrontare i problemi difficilissimi della sua riconversione, non solo degli stabilimenti, ma soprattutto delle sue maestranze, che sono persone, con la loro vita, i loro legami, la loro esperienza, la loro dignità. Per promuovere una riconversione occorre “una coalizione di tutte le forze disponibili di un territorio, a partire dai lavoratori e dai tecnici dei singoli impianti, ma sostenuta da tutte le forze vive del territorio”. Ma occorre accompagnare i processi di riconversione con la riduzione dell’orario di lavoro e con il reddito di base, promuovere la produzione di altri mezzi di trasporto e abituarci a strade senza il dominio delle quattro ruote
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Il Novecento è stato il secolo dell’automobile. L’era dell’auto è iniziata con l’invenzione del motore a scoppio, un propulsore che ha permesso di liberarsi dal peso della macchina a vapore e dal vincolo di binari o di linee elettriche dedicate; e trova la sua conclusione negli sviluppi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC) che grazie alla condivisione del veicolo permettono di liberare il trasporto personalizzato dal vincolo del possesso di un’auto personale, dalla congestione prodotta dalla moltiplicazione dei veicoli e – forse – anche dall’onere (che per molti è un piacere) della guida.
Se l’inizio dell’era dell’automobile era è stato rapido, tumultuoso e “glorioso”, la sua fine appare lenta, faticosa e controversa. Ma non c’è dubbio che la civiltà dell’automobile, così come l’abbiamo conosciuta e vissuta, sia destinata a concludersi, così come sono destinate a finire altre epoche a noi familiari, come quella dei combustibili fossili, dell’agricoltura e dell’allevamento industrializzati, della produzione di rifiuti, emblema di un’economia lineare, delle grandi infrastrutture di trasporto, di una finanza senza regole. A meno che si decida, o si permetta al nostro pianeta, e alla vita che lo popola, compresa quella della specie umana, di precipitare verso la sua soppressione.
Il tempo incalza. Non ne abbiamo più molto a disposizione, come ci ricordano l’IPCC, il movimento Fridays for Future e papa Francesco. Ogni discussione sul futuro dell’auto, in Italia come all’estero, che prescinda da questo quadro di riferimento è tempo perso o, peggio, inganno.
L’epoca dell’automobile è finita anche se l’auto non vuole morire (su questo tema l’autore ha scritto il libro Vita e morte dell’automobile, ndr). Però si tratta di “un morto che cammina”, tenuto in vita da espedienti che non fanno che moltiplicarne il danno.
Il primo espediente: gli incentivi al settore. L’ex Fiat, ex Fca (ma anche ex Alfaromeo, ex Lancia, ex Innocenti) e ora Stellantis è vissuta e vive – come tutti i suoi concorrenti – di sussidi; con cui sono stati costruiti quasi tutti i suoi stabilimenti, gran parte dei quali sono oggi capannoni vuoti e viene mantenuta in cassa integrazione gran parte dei suoi dipendenti. L’automotive è un grande esempio di “sussidistan”.
Il secondo: strade, autostrade, svincoli e parcheggi (che divorano suolo e risorse per funzionare come attrattori di traffico: più se ne fanno per snellire la congestione e più questa aumenta).
Il terzo: l’auto elettrica. Si tratta di un mezzo che non elimina l’inquinamento (dato che l’85 per cento del particolato è provocato da ruote e freni e non dalle emissioni allo scappamento), non elimina la congestione, non elimina il sovraconsumo di materiali e di energia necessario a muovere 1.000-2.000 chilogrammi di ferraglia per spostare mediamente 80-100 di carne umana: dal petrolio alle ruote il rapporto tra consumo e rendimento in termini di calorie è mediamente di 20 a 1; con il solo e il vento questo rapporto non migliora.
Il quarto: la restrizione delle risorse da indirizzare verso altre modalità di trasporto (su ferro, dolce, flessibile, condiviso, con veicoli e tracciati adatti a queste diverse funzioni).
Il quinto espediente: la perdita della socialità prodotta dalla cessione al traffico degli spazi pubblici (un tempo riservati all’incontro e al confronto tra diversi).
Il passaggio a nuove modalità di spostarsi e spostare cose facendo a meno dell’automobile impone ovviamente un ripensamento e una riconversione radicali degli assetti urbani che qui non posso sviluppare ma che ha il suo perno nella riconfigurazione della città intorno allo schema dei quindici minuti. Quindici minuti per raggiungere a piedi qualsiasi servizio utile allo svolgimento della vita quotidiana, compreso il posto di lavoro che potrebbe trovare nella moltiplicazione dei working center una mediazione tra il lavoro a distanza svolto a casa e il bisogno di lavorare in contesti che consentano la frequentazione e il confronto con lavoratori impegnati in attività tra loro diverse.
Certamente, nel secolo dell’auto il settore dell’automotive è stato – dopo l’edilizia (il cui sviluppo è stato completamente subordinato alla scelta di “far posto” all’auto) il principale datore di lavoro del mondo sviluppato e oggi anche di gran parte delle economie emergenti. Che ne sarà ora dei suoi addetti? Attualmente il settore sembra in ripresa, ma non c’è da farsi illusioni perché il suo destino è segnato dalle scadenze della crisi climatica e ambientale. Discutere dell’auto oggi significa affrontare i problemi difficilissimi della sua riconversione: non solo degli stabilimenti, ma soprattutto delle sue maestranze, che sono persone: con la loro vita, la loro famiglia, i loro legami, la loro esperienza, la loro dignità.
Innanzitutto, si tratta di promuovere la produzione di altri mezzi di trasporto più adatti alle nuove modalità della mobilità di cose e persone, cosa per cui gli impianti, le competenze e l’esperienza degli attuali addetti sono più portate (ma non dimentichiamo tutto il settore dell’indotto, a monte, ma soprattutto a valle degli impianti di produzione). Poi, anche la messa in opera di tutti gli impianti e le attrezzature necessarie a una rapida transizione energetica, che ha un indotto almeno altrettanto vasto. Poi, in un crescendo di difficoltà, quella di altri settori coinvolti dalla irrinunciabile riconversione a una economia circolare. Ma non sono transizioni che possano essere affidate alla convenienza o alla buona volontà della proprietà (dei padroni), vecchia o nuova che sia; né ci si può illudere che possa essere gestita dallo Stato, oggi completamente sprovvisto, dopo aver smantellato tutta l’industria pubblica, delle competenze necessarie a gestire un impianto industriale; meno che mai si può affidare una prospettiva del genere all’autogestione delle maestranze o al “controllo operaio” immaginato e a volte prospettato decenni fa: non farebbe che mettere i lavoratori di ogni impianto in concorrenza con quelli di tutti gli altri simili. Quello che è necessario per promuovere la transizione è una “coalizione” di tutte le forze disponibili di un territorio, certo a partire dai lavoratori e dai tecnici dei singoli impianti, ma sostenuta da tutte le forze vive del territorio e capace di coinvolgere innanzitutto le istituzioni del governo locale. L’esempio maggiore che ci troviamo di fronte oggi è la mobilitazione in atto a Civitavecchia per la conversione ad energia verde dell’impianto di Torre Valdaliga: una riedizione di quella “coalizione sociale” il cui progetto è stato abbandonato anni fa, subito dopo essere stato lanciato; forse perché si erano selezionati i soggetti ammessi alla sua costituzione prima ancora di definirne le finalità. Ma bisogna muoversi in questa direzione fin d’ora. Abbiamo bisogno di un mondo fondato sulla cooperazione e non sulla competizione. Ma è indubbio che chi si porterà avanti lungo questa strada avrà dei vantaggi rispetto a chi rimane indietro. Ma nemmeno si può pensare di andare avanti per dieci-dodici anni as usual per poi accorgersi che bisogna cambiare tutto, come forse ci sta invitando a fare il nuovo ministro della Transizione ecologica.
Ma la riconversione dell’automotive, come di tutti gli altri comparti destinati a ridimensionamento, mette all’ordine del giorno due altri elementi necessari ad affrontare quel “salto d’epoca” che ci troviamo di fronte. Il primo è la riduzione dell’orario di lavoro (e dell’impegno per chi un orario non ce l’ha). È vano andare alla ricerca di lavori fittizi o, peggio, inutili e dannosi, con il solo scopo di “creare occupazione” per colmare i buchi di un sistema che, riconvertito o no, richiederà sempre meno lavoro. Meglio ridistribuire tra una platea più ampia quello veramente necessario, sia il lavoro direttamente produttivo, perché remunerato, sia quello cosiddetto riproduttivo – che non è solo il lavoro domestico – che non è considerato lavoro perché non è remunerato. Il secondo è il reddito di base aperto a tutti coloro che ne hanno bisogno, non solo per coprire i vuoti nel passaggio da un impiego all’altro, o quelli provocati dalla perdita definitiva di un impiego reso superfluo dalla riconversione, ma anche per permettere a tutti una scelta più libera dell’attività in cui impiegarsi, unica strada per imporre ai futuri datori di lavoro di rendere più attraente e meglio remunerata le attività richieste dalla riconversione.
Condivido il pensiero dell’autore sul declino dell’automobile nella nostra società, e sulla sua lunga agonia. Oggi in citta come Berlino circolano circa 350 mila auto, contro i 2 milioni di Roma. Un sistema di metropolitane di superficie e sotterranee, hanno già realizzato lo spostamento da nord a sud in un quarto d’ora. Le nuove generazioni sempre meno aspirano al possesso individuale dell’auto. L’industria dell’auto non smetterà però così facilmente di fagocitare risorse ambientali ed economiche, spostando il suo obiettivo di mercato sui paesi non industrializzati. C’è tutto il continente africano da spolpare, e dopo avergli scaricato spazzatura e veleni, ora, purtroppo sarà il momento dell’auto, dell’asfalto, e del consumo di suolo.
Concordo…sono stato a VAUBAN, Germania
Sebbene non sia una città in senso stretto, Vauban è un caso interessante. Si tratta di un quartiere sorto sul sito di un’ex base militare nei pressi di Friburgo, nel sud della Germania.
Attualmente conta 5.500 abitanti, il 70% (e in costante aumento) dei quali non possiede un’autovettura, anche grazie all’impianto urbanistico del quartiere. Seguendo il principio della permeabilità ciclo-pedonale, le strade principali sono infatti disegnate in modo da evitare le aree residenziali, attraversate soltanto da piste ciclabili e viali chiusi al traffico. Inoltre, l’intero progetto è fortemente ecosostenibile: gli edifici sono stati concepiti e realizzati con standard energetici altissimi.
Guido Viale delinea una sorta di road map per il superamento radicale di un sistema di mobilità basato sull’auto (la ferraglia!) verso un avvenire rassicurante di equilibrio eco-sistemico, in cui collegialmente collaboriamo, a livello globale, per muoverci con altri mezzi. Ci sono due aspetti che l’Autore, e come lui i vari super esperti che intervengono sul tema clima/catastrofe ecologica, non si esprimono con la dovuta chiarezza. Uno, come fare questa transizione, quando, con quali forze, con quali strategie. Due, con quale tipo di governance si dovrebbe procedere a siffatto cambiamento epocale.
Sul primo aspetto vale la pena ricordare che l’attuale sistema produttivo, quello fondato sul pil, incontra tali e tanti ostacoli sul cammino delle riforme, che pure gli servirebbero per migliorare la propria efficienza, da restare di fatto bloccato. E non solo nel nostro paese. Le riforme si infrangono contro gli ” interessi costituiti”, ossia quelli delle corporazioni. Ma anche con quelli di partiti e partitini ben attenti sul piano comunicativo a dimostrare nei fatti che sono in prima linea nella tutela di interessi privati spesso contrastanti, ben decisi a preservarli. Ebbene, se neppure il modello attuale riesce a riformarsi per tutelare al meglio sé stesso, come pensiamo di procedere per superare ben altri ostacoli con riforme, queste si radicali, che investono tutto il modello produttivo e riuscire a vincere gli interessi consolidati espressi da poteri forti e meno forti? Non è il caso che Viale ad esempio, oltre a descriverci il mondo ideale che ci serve per salvarci dalla catastrofe, e sul quale siamo tutti d’accordo, ci dicesse anche come fare a introdurre la sua proposta di orario ridotto e di reddito di base, buttata lì come se niente fosse, spiegando con quali risorse e con il concorso di quali forze pensa che ciò sia perseguibile? E ci dicesse come fare per mettere insieme “una coalizione di tutte le forze disponibili, sostenuta da tutte le forze vive del territorio”, al di là della fumosità della formula?
Ma è soprattutto sul tipo di governance che i relatori, che riteniamo utile invitare per illuminarci in videoconferenza o in presenza, sarebbe bene si esprimessero. Chi reggerà la cabina di regia? Chi sovraintenderà e coordinerà, intervenendo in via sostitutiva se qualcosa non funziona? E non si dovrà passare per il Parlamento per ogni riforma, ben sapendo quanto infido sia il terreno delle due assemblee rappresentative, dove si annidano proprio quei partiti che tutelano gli interessi costituiti? Dobbiamo procedere con più democrazia (per esempio con le mitiche assemblee partecipative, tutte però da costruire), ben sapendo quanto questa sia fragile ed esposta agli attacchi delle corporazioni, dei poteri forti, delle logge più o meno coperte? O con meno democrazia, tipo democrature oggi tristemente di moda e in forte espansione o, addirittura, in assenza di democrazia sul modello del famigerato centralismo democratico di sovietica memoria?
Giuseppe
Che si debba passare a un altro modello di mobilità, è certo: bisogna andare soprattutto a piedi e in bicicletta (ottimo il riferimento alla città dei 15 minuti di Moreno) prendere i trasporti pubblici e relegare l’utilizzo dell’auto a quando le altre opzioni non sono proprio praticabili, e anche quando si usa l’automobile si dovrebbe passare a un modello in cui non tutti hanno la propria auto privata, ma l’auto è soprattutto condivisa.
Che si debbano sostenere i lavoratori coinvolti nella transizione del settore automotive, è giustissimo: sostenibilità sociale e ambientale devono andare di pari passo (economia della ciambella).
Però alcune affermazioni sull’auto elettrica non sono corrette.
1) Rendimento: il rendimento dei motori termici è al massimo del 40%, ma solitamente molto inferiore, quello del motore elettrico è del 90%. Questo significa che per percorrere un certo tragitto un’auto a motore termico consuma più del doppio dell’energia che usa un’auto a motore elettrico, e non è poco.
2) Fonti energetiche utilizzate: mentre le auto a motore termico usano ovviamente solo i combustibili fossili, l’energia elettrica fortunatamente NON è più prodotta tutta con i fossili, le rinnovabili arrivano al 38% nel mix energetico elettrico nazionale.
3) LCA: Sicuramente se considero l’intero ciclo di vita di un’auto elettrica c’è un impatto ambientale, per la produzione, l’estrazione di minerali, lo smaltimento, ma è comunque inferiore a quello di un’auto a motore termico, e significativamente.
4) Particolato atmosferico prodotto da freni e pneumatici: non sono esperta, ma in rete si trovano numeri diversi, e l’85% mi sembra effettivamente molto, tenendo anche conto della frenata rigenerativa.
5) Emissioni CO2: un’auto elettrica durante il suo utilizzo non produce CO2, ovviamente, ma nemmeno NOx e SOx, e questo è un vantaggio notevole per la qualità dell’aria.
Applausi applausi applausi. Leggo molto su questi temi ma una così lucida, rapida e chiara disamina di tanti aspetti così cruciali non la avevo ancora trovata!