Col movimento non autoritario nella scuola, ma soprattutto col femminismo dei primi anni Settanta, il corpo si fa protagonista di singolari, anomale pratiche politiche. Rimasto per secoli fuori dalla scena pubblica, si rivela fin dalla sua comparsa riserva di una forza vitale sconosciuta alle traballanti istituzioni della civiltà dell’uomo. Una brillante pillola di storia del femminismo con cui illuminare tante lotte di questi giorni
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di Lea Melandri*
“La parola dell’insegnante non nega solo il proprio corpo, la sua storia biologica, i suoi rapporti sociali lasciati sulla porta della classe, la sua quotidianità (…). Per questo gli studenti gli contrappongono la ‘vitalità’ dei loro corpi. Nel linguaggio della disciplina c’è la negazione del linguaggio del corpo. Per questo la disciplina è la disciplina dei corpi”(Antonio Prete)
A partire dall’“insubordinazione di classe”, per arrivare al conflitto tra i sessi, portato alla coscienza dal movimento delle donne, il corpo è visto nella sua materialità fisica e psichica, ma è soprattutto sulla sessualità che si vanno a incentrare l’“autocoscienza” e la “pratica dell’inconscio. Gli scritti di Carla Lonzi e del gruppo Rivolta femminile scuotono luoghi comuni, pregiudizi così radicati che neppure un secolo di battaglie di emancipazione era riuscito a scalfire.
La donna clitoridea e la donna vaginale, un breve saggio uscito nel ’71, segna l’avvio provocatorio di una lunga appassionante riflessione collettiva sui risvolti più ‘impresentabili’ e più ‘spudorati del rapporto uomo e donna: la cancellazione del piacere e della sessualità femminile, confusi con la procreazione, l’interiorizzazione della violenza e del dominio maschile attraverso una rappresentazione del mondo che si è posta come ‘neutra’ e universale, la liberazione dell’aborto dal senso di colpa con cui è stato marchiato storicamente.
“Il piacere imposto dall’uomo alla donna conduce alla procreazione ed è sulla base della procreazione che la cultura maschile ha segnato il confine tra sessualità naturale e innaturale. La donna gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento… l’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare fecondata nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale”.
Il bisogno di marcare una “differenza”, di indicare una sessualità “propria” femminile, porta Carla Lonzi a una contrapposizione netta: la sessualità vaginale è imposta dall’uomo per il suo piacere e la donna vi consente per effetto dell’“omertà” propria del “colonizzato”. Quello che scompare da questo tipo di analisi che vede da un lato remissività e dall’altro prevaricazione, è il sedimento di fantasie, emozioni, sentimenti che si accompagnano al congiungimento sessuale, e che rimandano alla tenerezza come sogno d’amore, ritorno nostalgico all’unione a due dell’origine.
Ma questo aspetto, più remoto e più inquietante della vicenda dei sessi è rimasto il grande ‘rimosso’ del femminismo anni Settanta, così come inesplorata è stata in parte la maternità reale, nascosta dietro la discussione sull’aborto e sulla salute della donna.
Il corpo è tutt’altro che assente nella storia dei movimenti degli anni Settanta: dalle manifestazioni alla guerriglia urbana, alle azioni spettacolari del terrorismo. Ma è solo nel femminismo, e in parte nella rivolta giovanile del ’77, che prende rilevanza politica. “Andare alle radici dell’umano”, ritrovare i nessi tra biologia e storia, uscire dalla contrapposizione tra il femminile identificato con la natura e il maschile confuso con il linguaggio, il pensiero, la ‘civiltà’, ha significato restituire alla cultura e alla politica tradizionalmente intese quel retroterra di esperienza, confinata nelle case e nel corpo delle donne, che avevano ‘incluso’ espellendolo dalla vita pubblica, naturalizzandolo, perché conservasse inalterate l’infanzia e la nostalgia dell’uomo-figlio.
Insieme col corpo, prende posto legittimo nella polis la “persona”, vista nell’interezza delle sue molteplici identità e appartenenze, sociali, sessuali, linguistiche, culturali. L’esperienza del singolo – vicende essenziali come la nascita, l’amore, la malattia, l’invecchiamento, la morte – da luogo marginale, messo al bando dalle istituzioni e dai saperi della vita pubblica, balza in primo piano.
Si fissa per la prima volta l’attenzione su quella zona intermedia, che sta tra i poli astrattamente contrapposti di natura e cultura, che è il “vissuto”, percezione di sé sospesa tra sogno e realtà, inconscio e coscienza, memoria remota della specie e riflesso di un particolare contesto storico.
È scavando nel profondo delle storie personali che il corpo perde la sua ‘estraneità’, il suo appartenerci come involucro che ci contiene senza essere noi, la sua riducibilità a organismo, manipolabile all’infinito o sacro, immutabile come una legge divina.
Dagli anni Settanta, le immagini che sono rimaste e che vengono periodicamente riproposte dai media, sono quelle di corpi straziati dalle bombe, e, alternativamente, quelli festosi avvolti in gonne ampie e colorate delle femministe. Sepolto ancora in gran parte negli archivi resta il patrimonio di idee, intuizioni originali, cambiamenti effettivi di sé e del mondo che ha avuto come protagonista il corpo pensante, sottratto, sia pure per una breve intensa stagione al dualismo che, contrapponendo un sesso all’altro, quasi fossero metà di un intero, ha finito per aprire all’interno di ogni individuo una ferita profonda tra parti indisgiungibili del suo essere.
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