La strage di Melilla segna un passaggio nel razzismo istituzionale della nuova Europa, ridefinita dalla guerra in Ucraina. Un grido dalla piazza di Trieste dove ogni giorno viene autogestita l’accoglienza dei migranti della rotta balcanica

Lo sproporzionato rapporto fra la nostra resistenza quotidiana contro i confini in piazza del mondo a Trieste (piazza della Libertà, dove ogni giorno l’associazione Linea d’ombra autogestisce un’accoglienza per i migranti della rotta balcanica) e la strage di Melilla del 24 giugno è lievemente attenuata dal fatto che siamo ogni giorno in questa piazza da oltre due anni e mezzo. I confini mostrano quello che è l’autentico potere dello Stato, oltre il velo stracciato della democrazia: ancora l’arcaico potere di vita e di morte, di cui la strage di Melilla è un esempio visibile molto più delle decine di migliaia di morti nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni, ma anche dei morti lungo le piste balcaniche, di cui abbiamo notizia ogni tanto dai nostri incontri quotidiani.
Il confine, inoltre, è anche un micidiale pettine, che lascia passare quel tanto che serve di manodopera a basso prezzo o semiservile, di cui pur l’Europa ha bisogno, che spiega l’uso dei campi di Bosnia, come quello disperato fra i monti di Lipa, che probabilmente diventerà un campo chiuso.
La strage di Melilla va inquadrata nella Nuova Europa, ridefinita dalla guerra in Ucraina, che ha la sua rappresentazione simbolica nell’abbraccio fra il rappresentante della Nato Jens Stoltemberg con Recep Tayyip Erdoğan, cui le democratiche Svezia e Norvegia si accingono a vendergli i curdi finora ospitati nel loro territorio. Questo è un fatto epocale: l’Europa, a comando statunitense, sta assumendo una nuova forma militare e politica aggressiva, che ha il suo aspetto economico nell’importanza dell’industria degli armamenti e nella ridefinizione degli approvvigionamenti di idrocarburi. Mentre riduce al minimo la sanità e l’istruzione pubbliche. Con questa Europa, che ha stracciato ogni velame democratico, d’ora in poi, occorre fare i conti.
Lo ha espresso nel migliore dei modi il capo di Stato Maggiore britannico, generale Patrick Sanders, in quella che è una sorta di dichiarazione di guerra – come la definisce l’esperto militare generale Fabio Mini in un articolo sul Fatto Quotidiano del 1° luglio:
“Il conflitto in Ucraina, annuncerà, credo, un cambiamento di paradigma nel modo in cui la Nato provvede alla deterrenza collettiva; da una dottrina di reazione alle crisi a una di dissuasione. Questo è il principio al centro dell’operazione di mobilitazione. La Russia deve sapere che non può ottenere una rapida vittoria localizzata, che in qualsiasi circostanza e in qualsiasi lasso di tempo perderà se si scontra con la Nato”.
E quindi il discorso si volge anche alla Cina, che è poi l’obbiettivo più importante, stabilendo una divisione di compiti fra l’Europa-Nato e gli Usa che dovrebbero garantire “la protezione dei nostri valori e interessi nell’Indo-Pacifico”.
Questo dunque è il futuro che ci aspetta: da un lato, una nuova aggressiva politica “occidentale” a guida statunitense nei confronti di una controparte diretta dalla Cina, e come conseguenza una politica in cui il peso dell’industria militare ed estrattiva diverrà ancora più importante, abbandonando ogni preoccupazione per la devastazione dell’ambiente vitale. Il futuro che ci vogliono imporre può essere definito da un lessema di Günther Anders: “totalitarismo morbido”, che ritengo peggiore del totalitarismo rigido di tipo nazifascista, che è più feroce ma anche più fragile, e alla lunga intollerabile, mentre il totalitarismo morbido è come una nebbia velenosa che ti circonda, ti abbraccia e respira con te.
Lascia un commento