La ricostruzione post Covid-19 dovrà nascere necessariamente all’insegna della decrescita. Il mondo ripartirà da un livello di relazioni (non solo economiche) molto più basso del passato e non potrà risalire linearmente al livello di produzione e consumo precedente. Cosa dovremo fare dopo la decrescita? Se cercheremo semplicemente di ritornare alla vita che conducevamo prima, sbatteremo contro il muro. Avremmo una vita insostenibile e favoriremmo la diffusione di virus che, a quanto sembra, si trovano avvantaggiati da alcune condizioni presenti nella nostra vita attuale: dallo sviluppo di grandi concentrazioni di viventi (metropoli per gli uomini, allevamenti industriali per gli animali, produzioni monocolturali per le piante) alla riduzione della biodiversità che, attraverso la complessità degli habitat, è un argine nei confronti del “salto di specie”, causa prima dell’attuale pandemia e di altre precedenti epidemie. La ricostruzione può cominciare solo da quel che ci è servito in piena pandemia: essere in buona salute, nutrirsi bene, avere dell’energia a disposizione e sviluppare le relazioni, perché abbiamo capito che comunicare è un fatto culturale e non solo tecnico-informativo. Non ne siamo ancora consapevoli, ma la pandemia ha aperto una nuova strada per l’umanità. È avvenuto altre volte nella storia dell’uomo di assistere e partecipare al crollo di sistemi creduti indistruttibili. Chi non aveva aperto gli occhi dieci anni fa, oggi sarà costretto a farlo e a ripensare criticamente i propri comportamenti e relazioni sociali
“Non c’è niente di peggio di una società della crescita senza crescita.”
Serge Latouche
In questi mesi di pandemia e quarantena mi è capitato di rileggere molti libri e articoli: per dare un senso alla situazione che viviamo e per raccogliere elementi in grado di ricostruire le origini del disastro attuale che, con il trascorrere del tempo, risultano sempre di più correlate a comportamenti errati rispetto ai nostri simili, agli altri animali, alla natura. Così, a distanza di anni, capita di capire meglio lo spessore di alcune analisi in grado di illuminare il buio del presente. Le parole riportate in apertura sono l’incipit di un’intervista rilasciata ormai otto anni fa da Serge Latouche, il teorico della decrescita, cui seguono parole che oggi assumono il valore di una denuncia lucida e quasi profetica: “Quella che stiamo vivendo è la crisi di una società che vorrebbe continuare a crescere ma non riesce a farlo. (…) che genera un’austerità imposta, una disoccupazione che raggiunge livelli incredibili, una gravissima crisi delle finanze pubbliche e, con essa, l’esaurimento delle risorse per finanziare ciò che garantiva un minimo di qualità della vita in una società capitalista (la salute, la cultura, l’educazione eccetera)”.[1]
Sembrano parole scritte ieri, non dieci anni fa. Allora, mentre si cantavano le lodi della società 4.0 che avrebbe trasformato le nostre vite, c’era già chi presagiva il disastro che oggi viviamo. L’intervista alludeva ad una transizione simile a quella che stiamo vivendo, sintetizzata efficacemente dal titolo “Fine corsa”: “…mi sembra che lo scenario di trasformazione lenta e progressiva sia molto poco probabile. Io non ci credo. La situazione in cui siamo è evidente da almeno cinquant’anni: se datiamo il primo passo della critica ecologica al 1962, con l’uscita del libro di Rachel Carson “Silent Spring”[2], tutto era già allora sufficientemente chiaro…. Nei fatti, la forza, la capacità di resistenza del sistema è talmente forte che soltanto il collasso può aprire la strada a una via d’uscita. Arrivati a quel momento, quale sarà la via d’uscita? Questo è il punto. Sarà “l’ecosocialismo” oppure “la barbarie”. Ora siamo più o meno arrivati all’ora della verità.”
Quindi quello che viviamo è un percorso che alcuni/e studiosi/e avevano previsto, cui avremmo dovuto preparaci da tempo e sul quale diverse correnti di pensiero riflettono tuttora. Invece la gran parte delle persone lo affrontano da ingenue, come chi pensa di attraversare il deserto portandosi una semplice bottiglia d’acqua.
Se avessimo perso meno tempo nel polemizzare sull’idea di decrescita, spesso dileggiata perché volta alla ricerca di una “decrescita felice”, se avessimo accettato l’idea di dover modificare sostanzialmente le basi del nostro modo di vivere, saremmo stati meno impreparati dinanzi ad una situazione che sembra non avere vie di uscita. E ciò dopo un anno di esortazioni (“andrà tutto bene!”) e l’uso sempre più inutilmente abbondante di termini quali sostenibilità, resilienza, economia circolare, che propongono l’idea di una ripresa generale successiva alla pandemia, priva di pecche e difetti.
Eviterò ogni polemica o tentativo di spiegazione della decrescita e considererò il dato di fatto evidente: il mondo decresce, inesorabilmente e complessivamente, al di là di tutte le buone intenzioni. Nei primi venti anni di questo millennio abbiamo assistito ai più diversi tentativi per risollevare l’economia del pianeta, che ha continuato a crescere solo virtualmente attraverso le speculazioni di borsa e gli artifici finanziari. La cosiddetta “bolla speculativa dei prodotti derivati”[3] nata nel 2008, continua ancora a produrre i suoi effetti: ogni volta che si tenta di ritrovare un ritmo di crescita pari a quello dei “trenta gloriosi”[4], puntualmente arriva un evento, considerato imprevisto, che rimanda tutto indietro, come se giocassimo al “gioco dell’oca”.
È il fallimento della società industriale che trent’anni fa, con la fine del sogno socialista, pensava di avere trovato nel sistema capitalistico globale la sua prospettiva e di averlo reso virtuoso ed inarrestabile, applicando a tutte le attività umane, comprese quelle che si basano sui viventi, le regole del sistema finanziario. Regole che prevedono l’utilizzo in funzione della produzione e del consumo di ogni essere del pianeta, definito “risorsa”: indipendentemente dalle condizioni esterne e dai cicli biologici, tutti/e noi siamo risorse per la produzione e il consumo, trascinando gli altri viventi verso il nostro stesso destino. La soluzione alla crisi, proposta dalle stesse forze che l’hanno provocata, sarebbe la creazione di un sistema immateriale la cui “precisione”, avviata attraverso l’uso dei più sofisticati mezzi tecnico-scientifici, risolverebbe il problema della finitezza dei mezzi e, penetrando negli intimi meccanismi della materia, permetterebbe di costruire una vita “à la carte” e lo sviluppo di un mercato attivo 24 ore su 24.
La società, vista con tale logica, si rivela un grande gioco di mercato: un “Monopoli”, dove però i giocatori non sarebbero rifinanziati ad ogni passaggio dal traguardo (come succede nel famoso gioco) e dove, secondo l’andamento del gioco, risulterebbero sostanzialmente modificate le condizioni reali di vita per tutti/e, indipendentemente dalle singole azioni e dal fatto che non si giochi a quel tavolo. Ed è quello che constatiamo quotidianamente, persino ora, durante la pandemia.
A ben vedere, le conquiste compiute nei più diversi campi di lotta contro la fame, le malattie e la povertà, si sono rivelate limitate e gli interventi di scarsa efficacia. Il traguardo dell’eliminazione di questi problemi dalla storia dell’umanità, tanto sbandierato negli ultimi cinquant’anni, è stato progressivamente spostato sempre più avanti nel tempo e sempre più ridotto nell’entità. Alla fine degli anni Sessanta del Novecento pensavamo di eliminare la fame, la povertà e le malattie per la maggior parte degli abitanti del pianeta entro il Duemila: negli anni Novanta ci siamo resi conto che questo era impossibile, sicché abbiamo posticipato i tempi e ridotto le percentuali per ciascuno degli obiettivi. Probabilmente faremo lo stesso ora che il Piano d’azione dell’ONU, detto Agenda 2030, prevede la sua realizzazione, fissata con tanto di target e indicatori, nel 2030.
Il Covid-19 ha messo in evidenza, in modo quasi inaspettato, le contraddizioni sino ad ora descritte e con esse la brutalità dell’ingiustizia e delle discriminazioni in tutto il pianeta, soprattutto nei Paesi che ritenevano di essere meno suscettibili di altri ai mutamenti in corso. Ma ci ha anche offerto una base nuova per riflettere sul futuro. Anzitutto, una considerazione quasi banale: se sappiamo che le risorse non sono illimitate, se pensiamo che all’economia lineare[5] si debba sostituire l’economia circolare[6], come possiamo pensare di crescere e svilupparci indefinitamente? È chiaro che, se alcuni limiti sono stati superati, il sistema si riequilibrerà comunque, anche se non fossimo noi a farlo.
Ciò che in questa crisi ci ha colti/e di sorpresa non è la probabilità che il sistema naturale trovasse una sua via di soluzione, cosa già avvenuta in innumerevoli casi – dalle frane alle inondazioni, alle eruzioni, ai terremoti -, bensì il fatto che esso abbia colpito direttamente il nostro corpo. Esso è stato colpito in modo più pervasivo che in altre occasioni (di epidemie e pandemie ne abbiamo avute e superate tante), mostrando come siano inadeguate le strutture portanti dei nostri sistemi sociali, economici e politici.
In questo senso la ricostruzione post Covid-19 dovrà nascere all’insegna della decrescita, poiché tutto il mondo ripartirà da un livello di relazioni (non solo economiche) molto più basso del passato e non potrà risalire linearmente al livello di produzione e consumo precedente. Dovremmo affrontare i problemi della ricostruzione basandoci su un modello circolare dei sistemi di produzione e di servizio, di certo evitando di consumare enormi quantità di energia, pur se rinnovabile. Anche sul piano delle relazioni sociali e politiche sarà difficile rinnovare momenti d’incontro oceanici, dove i singoli sono un numero e partecipano con la sola aspirazione di poter dire: – “Io c’ero!”. Dovremo ricostruire psicologicamente noi stessi e non potrà avvenire sbandierando, come ora avviene, un possibile benessere consumistico e la prospettiva del successo personale.
L’esordio dell’epidemia e la sua rapida trasformazione in pandemia sono sembrati un colpo arrivato in un momento di estrema debolezza. Le società umane sono in crisi: le condizioni di vita degli individui sono troppo diseguali, troppe sono le ingiustizie[7] e, per compensare il senso di frustrazione, chi può ricorre al consumismo, che comunque non riesce ad attenuare malessere e frustrazioni. Il Covid-19 ha infranto la diffusa convinzione della propria superiorità di specie, cosa che altri virus simili come quello dell’influenza o dell’HIV, non erano riusciti a fare. Finora l’uomo si è ritenuto un animale diverso dagli altri, tanto diverso da poter reificare, sfruttare, sterminare il resto dei viventi. Anche le iniziative assunte per difendere la natura e gli animali non umani sono state viste come interventi che ci avrebbero permesso di proseguire su un percorso di sfruttamento, da attuare utilizzando metodi “più corretti”. Oggi constatiamo che questo tema ci riguarda direttamente e che gli interventi fatti su altri viventi cambiano la nostra vita; il loro sfruttamento ed il loro sterminio sono la porta per rendere accettabile quello di altri umani. La decrescita “poco felice” del nostro sistema di vita, causata non da un destino ineluttabile, ma dai nostri comportamenti, è un dato di fatto da cui partire per incamminarsi per un’altra strada.
Cosa dovremo fare dopo la decrescita?
Partiamo da ciò che è rimasto di tutta la nostra società basata sull’economia: cosa si è fatto nel periodo di quarantena per vivere ed avere relazioni con gli altri? È servito essere in buona salute, nutrirsi bene, avere dell’energia a disposizione e sviluppare le relazioni, perché abbiamo capito che comunicare è un fatto culturale e non solo tecnico – informativo. Quindi tutto ciò su cui dobbiamo fondare la ricostruzione dopo la decrescita riguarda questi ambiti: se cercheremo semplicemente di ritornare alla vita che conducevamo prima, sbatteremo contro il muro. Avremmo una vita insostenibile e favoriremmo la diffusione di virus che, a quanto sembra, si trovano avvantaggiati da alcune condizioni presenti nella nostra vita attuale: lo sviluppo di grandi concentrazioni di viventi (metropoli per gli uomini, allevamenti industriali per gli animali, produzioni monocolturali per le piante); la condizione immunodepressa delle popolazioni umane e non-umane, costrette a vivere in questo stato; lo sviluppo e la diffusione nell’atmosfera del carbonio, che favorisce il proliferare e il permanere delle catene molecolari, quindi dei virus che sono fatti di catene di carbonio e che, ricordiamolo, sono la base della vita. Inspiegabilmente abbiamo rimosso dalla nostra coscienza la riduzione della biodiversità che, attraverso la complessità degli habitat, è un argine nei confronti del “salto di specie”, causa prima dell’attuale pandemia e di altre precedenti epidemie.
Se dovremo impegnare le grandi risorse finanziarie che si prevedono in arrivo, facciamolo per tutelare anzitutto la salute e l’alimentazione nostre e degli altri viventi, e facciamolo attraverso il ripristino di condizioni energetiche “sostenibili”. Queste poche frasi possono sembrare banali, ma aprono un gran numero di prospettive, soprattutto se pensiamo che questi risultati possiamo ottenerli attraverso sistemi di comunicazione a minore impatto energetico. Purché essi non annullino le individualità e non riducano le persone a un’immagine di sé, perché in tal caso l’impatto energetico negativo sarebbe solo apparentemente minore.
Non ne siamo ancora consapevoli, ma la pandemia ha aperto una nuova strada per l’umanità. È avvenuto altre volte nella storia dell’uomo di assistere e partecipare al crollo di sistemi creduti indistruttibili. Come ci ricordava Serge Latouche nel 2013: “Le catastrofi ci sono state e ci saranno di nuovo. Ma c’è anche la capacità del mondo di riorganizzarsi. L’Impero romano si è riorganizzato. Solo che nel IV secolo d.C. la popolazione di Roma è passata da circa due milioni di abitanti a circa trentamila. Oggi la popolazione di Detroit è passata da circa due milioni a meno di settecentomila abitanti. Che cosa è successo? La gente non è sparita, non è stata massacrata: molti sono andati altrove, quelli rimasti hanno riconvertito la zona centrale di Detroit in orti urbani…. È un’altra civiltà che nasce. Probabilmente succederà lo stesso a Parigi, a New York, sarà un cambiamento forte ma che avverrà a poco a poco.”[10]
Chi non aveva aperto gli occhi dieci anni fa, oggi sarà costretto a farlo e a ripensare criticamente i propri comportamenti e relazioni sociali. Non sarà un processo semplice ed indolore, tutt’altro. Ma è l’unica via per costruire, dopo la decrescita, un mondo e una vita più degni di essere vissuti.
La citazione iniziale di Serge Latouche è tratta da “Fine corsa. Intervista su crisi e decrescita”, di Serge Latouche con Daniele Pepino, edizioni gruppoAbele, 2013. Serge Latouche è un economista, filosofo francese animatore della rivista MAUSSE e teorico di una corrente della “postdevelopment theory” detta della “decrescita felice”.
[1] Op.cit., Serge Latouche con Daniele Pepino
[2] Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1962. Il testo è considerato il punto di partenza del movimento ecologista contemporaneo, affrontando per primo gli effetti dell’uso dei prodotti chimici di sintesi.
[3]Bolla speculativa in economia è una particolare fase di mercato caratterizzata da un aumento considerevole e ingiustificato dei prezzi di uno o più beni, dovuto ad una crescita della domanda repentina e limitata nel tempo: alla fase di nascita e di crescita della bolla segue poi la fase di scoppio che tende a ripristinare i valori originari del bene in questione. Generalmente si parla di bolla speculativa con riferimento a mercati finanziari nei quali vengono trattate azioni, obbligazioni e titoli derivati. In sostanza, di fondi d’investimento che hanno attirato capitali per l’alto tasso d’interesse che formalmente garantivano, ma che si sono rivelati privi di copertura al momento della verifica.
[4] Viene così definito il trentennio dal 1945 al 1975 dopo la fine della seconda guerra mondiale che segnò lo sviluppo del sistema economico e parallelamente del walfare state. Il nome fu usato per la prima volta dal demografo francese Jean Fourastié.
[5] Economia lineare è una locuzione che definisce un sistema economico generato da materie prime ed energia immesse in un percorso in cui il prodotto finale è la fonte della creazione del valore; i margini di profitto sono basati sulla differenza fra prezzo di mercato e il costo di produzione; per aumentare i profitti si punta a vendere più prodotti e a rendere i costi di produzione più bassi possibile. L’innovazione tecnologica punta a rendere i prodotti rapidamente obsoleti e a stimolare i consumatori ad acquistare nuovi prodotti. I prodotti di breve durata sono preferiti perché sono più a buon mercato e la lunga durata e la riparazione sono evitati perchè è più redditizio vendere nuovi prodotti che mantenere e riparare quelli vecchi. I costi derivati dalla continua immissione di materia ed energia nel circuito sono in molti casi occulti, causando il costante saldo negativo del sistema, e si manifestano attraverso l’aumento dei prodotti di scarto sul pianeta e nella sua atmosfera.
[6] Economia circolare è una locuzione che definisce un sistema economico pensato per potersi rigenerare da solo garantendo dunque anche la sua ecosostenibilità. Secondo la definizione che ne dà la Ellen MacArthur Foundation, in un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera.
[7] In un recente rapporto globale sul grado di libertà degli individui sul pianeta, si è potuto constatare come esso si sia significativamente ridotto negli ultimi 15 anni, anche nei Paesi che utilizzano sistemi detti democratici.
[8] “Fine corsa. Intervista su crisi e decrescita”, di Serge Latouche con Daniele Pepino, edizioni gruppoAbele, 2013
L’articolo che ci è stato inviato da Gianfranco Laccone è uscito anche sul n.62 della rivista “Ecoideare“
Paolo S. dice
Perché presentate Serge Latouche come un teorico della “Decrescita felice”? In varie occasioni, Latouche ha preso le distanze da tale formula, utilizzata invece da Pallante, ma che Latouche considera inappropriata e fuorviante. In questo modo, favorite un equivoco che, per motivi opposti, non piace nè a Latouche né a Pallante
Ferrante Elio dice
a me pare che Latouche intenda x decrescita quello che A. Gorz considerava la crescita soprattutto materiale che nei paesi del 1° mondo non fa che generare impoverimento. quindi da quello che capisco io la decrescita vuol dire più crescita immateriale e meno crescita materiale. riporto una sua frase del suo libro “sopravvivere allo sviluppo” …. è chiaro che i decrescenti sono x la crescita, ma della qualità della vita, e si oppongono alla crescita x la crescita che tanti guasti ha provocato e provoca.