Il libro L’erba voglio, l’omonima rivista bimestrale, una collana di libri e l’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano. Uno dei frutti più importanti di pratica non autoritaria nella scuola è nato negi anni ’70 e ha messo insieme idee e pratiche di maestre d’asilo, di insegnanti di scuole elementari e medie, ma anche di studenti, operai, psicologi, genitori. La ricchezza di quel fermento e la rottura che hanno provocato intorno a molti temi, dalla sessualità infantile alla relazione uomo-donna, hanno favorito la maturazione di acquisizioni della coscienza e punti di vista contro e oltre la pedagogia tradizionale di grande profondità, che rendono ancora oggi ricco, complesso e importante il significato del termine “educazione sessuale”. A questi temi è dedicato un saggio preparato per un dvd destinato agli insegnanti, ma mai realizzato, di Lea Melandri: l’autrice, lo ha condiviso con Comune in queste settimane di grande agitazione nella scuola. Il no contro la Buona scuola e contro manifestazioni dal sapore reazionario come quella di sabato 18, restano prima di tutto un grido per un apprendimento diverso. Un grido di libertà
di Lea Melandri*
1. “Vale più un ragazzo vivo o un ragazzo scolastico”?
Il libro L’erba voglio (a cura di Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani, Giuseppe Sartori) esce nei primi mesi del 1971 presso l’editore Einaudi. Raccoglie relazioni e contributi di due convegni che si erano tenuti a Milano in giugno e settembre 1970. Intervengono i promotori dell’asilo autogestito di Porta Ticinese, maestre d’asilo, insegnanti di scuole elementari e medie, ma anche studenti, operai, psicologi, genitori. I testi che figurano nel libro sono il documento delle loro esperienze di “pratica non autoritaria nella scuola”, come si legge nel sottotitolo: difficoltà, perplessità personali, ostacoli, sforzo di elaborazione politica, accompagnati spesso da “singolare allegria e ironia”. L’intento, come scrivono i curatori nella quarta di copertina, non è di “escogitare nuove pedagogie o nuove didattiche”, ma “di stabilire rapporti liberanti, senza riguardo per le funzioni e le competenze precostituite, di far uscire la scuola dai suoi recinti e cancelli, di sottrarla ai suoi tutori, per farla con altri”. La sintesi più efficace è nella domanda che un alunno della scuola media di Melegnano rivolge ai suoi compagni: “Vale di più un ragazzo vivo o un ragazzo scolastico?”
La pubblicazione incontra un successo sorprendente: cinque edizioni in pochi mesi, trentamila copie vendute, discussioni che sorgono un po’ dappertutto. Nel libro era stata inserita una cartolina che invitava, chi fosse stato interessato alle tematiche in esso contenute, a rinviarla ai curatori. Ne arrivano tremila. Per rispondere a una richiesta così evidente di collaborazione, nasce nello stesso anno la rivista bimestrale “L’erba voglio”, di cui usciranno, tra il 1971 e il 1977, vent’otto numeri.
A partire dal 1976, si affiancherà alla rivista una collana di libri, che ne ampliano i temi e ne segnano la continuità, per “il gusto della franchezza, della ricerca autonoma, dell’imprevisto”, “del sotterraneo e del rimosso”. Alcuni titoli tra altri: Collettivo A/Traverso, Alice è il diavolo, il testo di Radio Alice a Bologna e dei “giovani del ‘77”; Lea Melandri, L’infamia originaria. Facciamola finita col Cuore e la Politica; Enrico Palandri, Boccalone; Elvio Fachinelli, La freccia ferma.Tre tentativi di annullare il tempo.
L’antecedente del convegno del 1970 è l’apertura, il 12 gennaio dello stesso anno, dell’asilo autogestito di Porta Ticinese, nato a sua volta dal controcorso di Pedagogia all’Università Statale di Milano nell’inverno 1968-1969, a cui viene invitato lo psicanalista Elvio Fachinelli, in veste di “esperto”, o forse meglio, di “inesperto” di pedagogia. Nel documento degli studenti, in cui si parla della necessità di un’istituzione modello per l’educazione collettiva, si respira ancora aria di ’68, in polemica con i “falsi rivoluzionari” che se ne erano rapidamente allontanati, creando coi loro gruppi-partito “strutture umane paurose di vivere, incapaci di libertà e avide di protezione, bisognose di capi e di miti”. Il fine dichiarato è di recuperare alla politica – come scrive Giuseppe Leonelli – “i rapporti con il corpo, con la dimensione biologica degli individui”, tenendo conto che “l’autoritarismo comincia nell’infanzia, attraverso la famiglia”, da cui escono “caratteri adattati e sfiduciati”. L’allargamento del gruppo a insegnanti di vari ordini di scuola, psicologi, genitori, operatori sociali, che stavano tentando esperienze analoghe dentro l’istituzione, viene naturale e immediato. Le riunioni, nel semestre che precede il convegno, si tengono in via Ansperto a Milano. È lì che avviene anche il mio incontro con Elvio Fachinelli, Luisa Muraro, Giuseppe Sartori, e altri che faranno poi parte con noi della redazione della rivista. (…)
L’ “utopia realizzata”, e proprio per questo “sommamente realista”, che viene portata avanti dal movimento non autoritario nella scuola, guarda dichiaratamente a traguardi ampi e ambiziosi: un cambiamento che investa la concezione e l’esercizio del potere, la separazione tra decidere e eseguire, tra la minoranza che controlla la società per i suoi fini e le masse che ne sono escluse. Non una scuola rinnovata dunque, o un’ “isola felice”, ma un processo formativo che si prefigge come sua condizione essenziale l’uscita dalla passività e dalla paura, la presenza e la partecipazione di coloro che sono esclusi dal potere, l’abitudine alla pratica assembleare, alla decisone collettiva: esercizio del potere tra individui uguali e sempre autonomi. Nel libro ci sono già, evidenti, le premesse per l’estensione della pratica non autoritaria “ad altre specifiche forme di oppressione”.
La rivista “L’erba voglio” comincia le sue pubblicazioni, a pochi mesi dall’uscita del libro omonimo. A muovere il gruppo promotore è la stessa “logica del desiderio” e dell’“accomunamento”, la capacità di interessare e coinvolgere “aree sociali diverse” che aveva caratterizzato la dissidenza giovanile nel ’68. Fin dai primi numeri, note redazionali definiscono quella che resterà nel tempo la “lezione dell’Erba voglio”:
“Autorità e potere non sono temi in classe. Il rapporto pedagogico non nasce sui banchi e la parola caserma non si applica soltanto alla scuola. Servitù e liberazione, oggi, riguardano tutti, o nessuno” (n.1, luglio 1971). “Noi non pretendiamo di essere il comitato centrale di nessun partito, e proprio per questo pensiamo di poter svolgere un lavoro politico serio… Purtroppo questa è stata la via percorsa da decine di ‘avanguardie’, che si sono puntualmente ritrovate, alla fine, a dividere lo spazio del ghetto, il ghetto della sinistra infelice, battuto dal vento della rivoluzione lontana, e gelato nella propria impotenza”.
Il rifiuto di chiudersi in una organizzazione, di sottomettersi a un linguaggio unico, è alla base del tipo di collegamento che la rivista stabilisce a partire dai lettori che avevano rispedito la cartolina inserita nel libro:
“Secondo noi si può cominciare da una ricognizione delle forze disponibili città per città, regione per regione. I nuclei formati su questa base potrebbero diventare centri di discussione e di messa in comune delle esperienze… Ovviamente il rapporto di questi nuclei con quello milanese è di totale parità. Ci sembra però che in questa prima fase siamo per forza un punto di riferimento, per coloro che hanno letto il libro: a noi quindi tocca il compito di trasmettere e ritrasmettere informazioni e idee, di rispondere alle richieste, e così via”.
La quantità di materiale ricevuto è stata enorme, così come sorprendente è stata la diversità, molteplicità dei linguaggi, dei modi di agire, delle esperienze, di cui veniva data testimonianza (tutto è stato conservato, ed è oggi consultabile nel mio archivio, depositato presso la Fondazione Badaracco, a Milano).
2. Segnali di sottobanco
Sulla rivista “L’erba voglio” (n.8/9, nov.’72) un’insegnante di Villazzano, provincia di Trento, a cui avevo chiesto di sviluppare il problema della sessualità infantile nel rapporto istituzionale, mi scriveva:
“Non si è mai toccato questo argomento, non si è mai parlato delle esigenze sessuali che il bambino rivelava in classe, delle richieste da loro avanzate, se non nei termini della informazione sessuale (…) A volte veniva riferito qualche episodio particolarmente vivace, ma lo si relegava al rango di aneddoto o barzelletta, senza mai aprire, partendo da esso, un discorso, forse perché non eravamo preparati a farlo, forse perché affrontare il problema della sessualità infantile avrebbe potuto scatenare in noi, adulti, conflitti ed evocare quei fantasmi che la nostra educazione ha esorcizzato o tenta di esorcizzare (…) Eppure credo che, se ne avessimo parlato, sarebbero venuti a galla episodi spia di tutta una attività sessuale – impulsi, aspirazioni, richieste – sepolta sotto i banchi”.
La conferma alle osservazioni di Liliana De Venuto l’ho avuta poco dopo da una discussione coi miei alunni, nella scuola media di Melegnano, pubblicata sullo stesso numero della rivista.
“Marco. Io, quando vado al cinema, mica vado a vedere quelli di cowboy, vado a vedere quelli di donne nude, eh! eh! (risatina maliziosa)
Insegnante. E pensi che gli altri non lo facciano? Il Peppino, per esempio…
Marco. Orco giuda se lo fanno! E quando le vedono si sparano pure le robe che so io.
Peppino. Non è mica vero!
Marco. Anche in classe portiamo giornali di donne nude. Ci guardiamo per imparare, perché se uno va a letto con una ragazza e non sa quello che fa, lo prendono per finocchio. A scuola i giornali qualcuno li porta anche per farsi ammirare dagli altri. Che lui sa già tutte queste cose qui… (…)
Franco. I ragazzi che vengono a scuola e non sanno niente, non hanno visto niente, quando vedono quei Giornaletti di donne nude, si riproducono sulle ragazze, le toccano, gli saltano addosso, gli fanno tutti gli Scherzi che vogliono…(si interrompe perché le ragazze protestano)
Lucia. Vorrei sapere come mai questi giornaletti interessano soprattutto i maschi e poco alle femmine.
Marco. Se ci fossero degli uomini nudi, vedrai che si interesserebbero anche le donne!
Walter. Le ragazze non guardano i giornalini perché, se guardano i giornalini di donne nude, certi ragazzi che le vedono pensano che sono lesbiche, perché guardano la loro stessa figura nuda.
Franco. Io dico che fanno così anche perché le hanno abituate male, non gli hanno dato la libertà che Abbiamo noi. Verso i sette otto anni, noi abbiamo la libertà di andare in giro, di fare quello che vogliamo, mentre le ragazze sono tenute in casa. (…)
Enzo. Le madri le femmine le tengono in casa, perché anche loro quando sono grandi diventano madri, devono fare certi lavori, maglie, così…e le madri dicono che, tenendo in casa le femmine, le bambine, dicono che sia un aiuto in più, che le aiutano a fare i lavori domestici, scopare, far da mangiare… (…)
Marco. Mio padre e mia madre non mi dicono niente, anzi ho anche la raccolta dei giornalini di donne nude. Vorrei dire un’altra cosa: ormai anche i bambini piccoli sanno queste cose, perché le vedo no nei negozi, nelle Farmacie…
Walter. Io non sono d’accordo con Enzo. Lui dice che le ragazze devono stare a casa a fare la calza, non è Giusto. Ormai dobbiamo cambiare mentalità. Anche le ragazza devono uscire come noi, essere libere come noi, lavorare come noi. (…)
Marco. Io non sono d’accordo con Walter, perché, se no, chi sta a casa a farci da mangiare e a pulire?
Lucia. Io faccio un’altra domanda ai maschi. Come mai i maschi hanno il vizio di saltare addosso alle bambine?
Enzo. Saltano addosso alle ragazze perché i maschi con questi gesti vogliono fargli capire che gli vogliono bene…Ciao! (fa gesti di affetto rivolgendosi verso le ragazze).
Marco. Noi vediamo questi giornalini e ci facciamo focosi. Allora, per tirarci via questo focoso, saltiamo addosso alle ragazze e ci sfoghiamo. Vorrei fare una domanda a loro: perché le ragazze, quando noi gli saltiamo addosso, non ci stanno mai?
Insegnante. Forse perché la sentono come una violenza…
Enzo. Forse…Invece di saltargli addosso, bisogna dargli i baci. Allora capiscono, dopo! (tutti ridono) (…)
Lucia. Qualcuno ha detto che, se le bambine ci stessero, sarebbe diverso e i maschi dopo le lascerebbero Stare. Io, invece, non sono d’accordo, perché, se una bambina ci sta, lui dopo la prende per una…non perbene… e questo non mi va.
Maria. Per i ragazzi è tutto diverso, anche se vanno insieme a una ragazza più volte, insieme a un’altra… E così, non gli dicono niente; invece, appena una ragazza la vedono insieme a un ragazzo, ne parlano subito male.
Walter. Se una ragazza va insieme a un ragazzo, dopo i ragazzi le dicono che è una mignotta, che è figlia di… di una di strada. Per me non è giusto.
Lucia. I maschi, quando tu gli fai qualcosa, la prima cosa che ti dicono è: oh, le femmine sono tutte prostitute, non sanno niente! Ma perché non si guardano un po’ loro?
Enzo. Io vorrei dire che questo rapporto non va bene, tra ragazzi e ragazze”.
Seguiva, a commento del dialogo della classe, una mia riflessione su quei “segnali di sottobanco” che la scuola ignora o finge di ignorare.
“Il ‘focoso’ si aggira tra i banchi della scuola sempre meno clandestinamente. I nuovi manuali dell’erotismo, giornaletti sexy e fotoromanzi, sostituiscono le pesanti antologie della buona letteratura nazionale, i disegni porno vengono preferiti alla classica casetta con pino. L’insegnante, ginnasticando dentro la sua cattedra, come in una veste monacale, percepisce qualcosa, si turba, e dimentica. Gli resta solo il dubbio: cosa fanno gli altri ventotto quando io e quell’alunno zelante del primo banco parliamo dell’imperialismo? Di che cosa si occupano con tanta frenesia le loro mani e le loro teste, quando io mi lamento della loro pigrizia? Il focoso c’è, ma nessuno sembra dargli spazio…
Il ’68, in uno dei rari momenti di creatività che tutti si affrettano a seppellire, aveva scoperto che non poteva esserci rivoluzione affidandosi soltanto alle idee e all’impegno volontaristico, che la voglia di lottare era prima di tutto voglia di scuotersi dalla paralisi che le istituzioni avevano prodotto sul nostro corpo e sulla nostra immaginazione. (…)
Rinnegato dalla famiglia e cacciato dalle chiese di ogni specie, solo nella scuola, specie quella primaria, il Sesso sembra trovare il suo degno riconoscimento. Anche se costretto a circolare in condizione di semiclandestinità, non c’è dubbio che sotto i banchi esso trova il suo momento più alto di socializzazione. Quando si riesce a portare allo scoperto tutta questa vitalità sotterranea, attraverso discorsi, disegni, ecc., si verifica quello che ogni insegnante deve aver fantasticato almeno una volta all’inizio della sua carriera: grande interesse da parte di tutti. (…)
Il materiale che viene fuori in questi momenti un po’ eccezionali non ha bisogno di commento, come il testo che precede, registrato durante una discussione in una seconda media. Vi si possono fare sopra le considerazioni più ovvie: sul conformismo morale dell’adolescente, che ha già fatto propria la proibizione e la condanna del sesso attraverso la famiglia, gli oratori e tutte le istituzioni del perbenismo; sulla incapacità dei due sessi di porsi in un rapporto diretto tra di loro, per cui i maschi guardano le donne dei
giornalini e le ragazze parlano di ragazzi che non si occupano di loro (amori non ricambiati, non dichiarati). Ci sono inoltre già abbozzati tutti i termini della questione femminile. Chi pensa che la femmina sia destinata alla casa e alla maternità, e quelli che vorrebbero la donna liberata da questi compiti tradizionali”.
I segnali di sottobanco – quelli che vengono dai banchi di scuola, quelli che arrivano “in confidenza” alla rubrica di una “posta del cuore”, ma anche quelli che salgono come elementi disturbatori dalle zone inesplorate di noi stessi – hanno una caratteristica che contribuisce a mantenerli uguali nel tempo e quasi inattaccabili: vogliono restare nascosti e, nello stesso tempo, essere snidati. Ciò nonostante, a partire dalla fine degli anni ’60, dalla “pratica non autoritaria” nella scuola e da una coscienza femminile particolarmente attenta alle problematiche del corpo (sessualità, maternità, vita affettiva, storia personale), viste all’interno del rapporto uomo-donna, ha preso avvio un processo di conoscenza e pratica di nuovi rapporti, che ci mette oggi in condizione di dare al termine “educazione sessuale” significati, suggerimenti diversi o più complessi.
3. La disciplina dei corpi
Con il movimento non autoritario si erano già affacciate alla scuola alcune importanti acquisizioni che, pur non essendo ancora legate alla problematica dei sessi, ne segnalavano conseguenze o connessioni:
a) l’astrattezza del soggetto che parla attraverso la storia, la cultura, tradizionalmente intese, soprattutto quella scolastica dei manuali, degli specialisti, dei rituali burocratici; un essere diviso, scorporato – non di fatto, si intende, ma nel modo di percepirsi, di rappresentarsi -, rispetto ad alcune condizioni materiali, inalienabili della sua esistenza: l’eredità biologica e psichica, la sopravvivenza economica, le cure necessarie per la conservazione della vita, tutte le potenzialità espressive e comunicative che passano attraverso il corpo.
b) la necessità di interrogare il privato –la vita personale, gli sviluppi dell’individuo, le vicende riguardanti l’origine, l’infanzia, i sogni, che restano nascosti nel mondo interno di ogni singolo -, per vedere ciò di cui si alimenta la storia, al vita sociale a sua insaputa, gli accadimenti non scritti che la tengono sospesa tra barbarie e civiltà.
c) la convinzione che questo interrogativo non riguardasse solo i soggetti in via di formazione, gli alunni, ma ogni individuo, adulto o bambino, uomo o donna.
In un articolo di Antonio Prete, pubblicato su “L’Erba voglio”, n.22, nov.’75, si legge:
“La parola dell’insegnante non nega solo il proprio corpo, la sua storia biologica, i suoi rapporti sociali lasciati sulla soglia della classe, la sua quotidianità, drammatica o informe, irrequieta o torbida, la sua immaginazione, insomma l’universo delle sue implicazioni. Per questo gli studenti gli contrappongono la ‘vitalità’ dei loro corpi, la spontaneità del loro linguaggio, o la resistenza di un’altra parola, quella che i mass-media o la famiglia o le altre forme di socializzazione hanno loro trasferito (…) Nel linguaggio della disciplina c’è la negazione del linguaggio del corpo, nell’organizzazione del sapere e nell’istituzione della disciplina e tra discipline c’è la proiezione mortificata e contratta dei rapporti sociali. Nella permanenza della disciplina c’è la resistenza dell’istituzione ad ogni attacco disgregante (…) Per questo la disciplina è la disciplina dei corpi”.
Il bisogno di fare distinzioni, di riscontrare diversità nell’appartenere a un sesso o all’altro, è cominciato quando una coscienza e una pratica tra donne ha indicato, non solo nella cultura, nella politica, nei saperi e nei linguaggi ereditati, i luoghi della sottomissione e negazione dell’esistenza femminile, ma anche nella vita amorosa, nella maternità, nella sessualità, in tutta quella sfera di esperienza che avevamo fino allora chiamato “corpo”, “vita personale”. A quel punto non era più possibile per un’ insegnante non vedersi come donna in mezzo a una stragrande maggioranza di altre donne, e non chiedersi che implicazioni profonde, consce e inconsce, avesse essere collocate in quel punto di snodo – tra origine e storia, corpo e pensiero, individuo e società, identità maschile e femminile – che è la scuola, soprattutto inferiore.
La donna che insegna è una figura ibrida: né maschio né femmina (nel senso che si da tradizionalmente ai generi), o l’uno o l’altro insieme. Ricordo ancora lo sguardo con cui seguivo la penna della maestra che si curvava sul mio banco a correggere un compito, senza perdere di vista le sue unghie dipinte, l’ascolto che prestavo alle sue parole, mentre gli occhi ne spiavano i gesti, il modo di camminare e di vestire, l’attenzione che facevo ai toni di voce per capire se segnalavano affetto, riconoscimento, preferenza. Erano, contemporaneamente, parola e corpo in scena, e l’insegnante una specie di Giano bifronte, costretto a giostrarsi tra attributi maschili e femminili. La madre maestra è una figura scomoda, da contorsionista. Le si chiede di trasmettere un sapere che, mentre la celebra come mito (figura del sogno, della nostalgia, di una felicità perduta), ne proclama l’insignificanza storica; si vorrebbe che l’accompagnasse con tutta la sapienza che viene dal suo essere madre: tenerezza, capacità di mediare l’urto tra mondo esterno e mondo interno, tra la complicità famigliare e l’indifferenza sociale. Una funzione così contraddittoria non può diventare un modello di interezza, l’esempio di una individualità concreta, e finisce per gravare come un peso sulla donna che la esercita, costretta a tenere insieme, affiancandole, sovrapponendole, due immagini di sé altrettanto astratte.
La ricerca, o la formazione di individualità concrete di maschio e di femmina, consapevoli di essere portatrici di diversità che non possono più essere confuse con le immagini di genere che abbiamo ereditato, è solo agli inizi. Forse bisogna chiedersi perché questo processo di individuazione, di cui si avverte il bisogno, proceda così lentamente, quali ostacoli incontra nelle persone stesse che potrebbero promuoverlo.
4. Il “ fuori tema”e la scrittura di esperienza
È necessario allora porsi alcuni interrogativi: si vuole davvero conoscere il corpo? Che cosa ci tiene lontani da una percezione più reale di noi stessi? Perché l’informazione relativa alla fisiologia, alla funzione riproduttiva, alla vita affettiva, alla sessualità, incontra resistenza o disinteresse, nonostante si insista per averla? Il mistero, l’oscurità, il pudore, che ancora ricoprono questa zona di esperienza, sono messi a difesa di un sogno: sogno di unità (che celi il distacco della nascita e la solitudine del singolo), e di complementarietà (a copertura di una diversità dei sessi che non presupponga l’indispensabilità reciproca, se non nella riproduzione, che consenta l’incontro e non il possesso dell’altro, quasi fosse una parte di sé).
Perché si possa affrontare un discorso formativo su questi temi, è necessario aprire la “stanza chiusa” dell’adolescente, il luogo del pensiero dove si affastellano sogni, desideri, interrogativi, preoccupazioni assillanti di ogni vita, bisogna avere il coraggio di portare sopra il banco, al centro dell’attenzione e della relazione tra insegnante e allievi, ciò che è rimasto fuori tema. L’immagine della “ stanza chiusa” è presa dalla lettera inviata alla “posta del cuore” del settimanale “Ragazza In” (Lea Melandri, La mappa del cuore, Editore Rubbettino, Soveria Mannelli, 1992, pagg.102-105)
“Uscendo dall’infanzia (…) ci si trova di fronte a una realtà faticosa e deludente. Troppa crudeltà, superficialità e ipocrisia, ci si estranea e si tracciano i confini del proprio mondo lungo le pareti di una camera”
“È triste essere soli, soli coi propri sogni e coi propri desideri, ma anche meraviglioso. Senza sogni la vita non è vita; io amo i sogni per questo. Ma per questo rimango sempre sola”. Ci sono interrogativi che interessano il corpo, ma anche la formazione di sé, il rapporto col mondo, che si affacciano nell’adolescenza e che poi sembrano scomparire, come se avessero fatto naufragio. Nei segnali di sottobanco non c’è soltanto la sessualità, ma anche la sentimentalità, il sogno che è subentrato a una realtà deludente, i pensieri che non hanno trovato cittadinanza o legittimità nel senso comune e nei linguaggi correnti. Nel libro Il Piccolo Principe Cannibale, di Francoise Lefèvre (Murzio Editore, Padova, 1993), l’autrice scrive:
“Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente. Il tempo fuggiva (…) Prendere tutto fra le braccia Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allontanamento, di separazione. Come reprimere tutto questo? (…) Non è la stessa cosa scrivere che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finchè questo campo non sarà seminato di tutte queste parole censurate nella ma infanzia. Perché, in fondo, le mie preoccupazioni da quel tempo non sono cambiate un granché, sono le stesse che mi ossessionano. Ed è, come per Sylvestre, la fine delle cose. La vite che finiscono. Gli amori che si spezzano. Tutto ciò che si ferma di colpo e si distrugge. Tutto ciò che è così difficile dire sulla tenerezza dei corpi. L’attaccamento. Il terribile. Lo spaventoso attaccamento che sbocca inevitabilmente nello spossessessamento. Era tutto quello che volevo esprimere da bambina. Invece di censurarmi, avrebbero dovuto
lasciarmi scrivere liberamente”.
Se si prescinde dalla “domanda”, che sempre accompagna la lettera inviata a una rubrica di “posta del cuore”, ci si accorge che ad emergere è la mappa di un territorio che ha una sua storia e geografia, fortemente resistente a quella del mondo esterno. È questo “altrove” il principale produttore di sogni, ma anche di quegli interrogativi eterni – sulla nascita, la morte, l’amore, la sofferenza, ecc. – con cui ogni individuo si affaccia alla convivenza con gli altri. La polarizzazione tra mondo esterno e mondo interno, realtà e sogno, solitudine e socialità, resterà tale finchè essi rimarranno inascoltati, e la formazione dell’individuo, maschio e femmina, lasciata in balìa di una eredità difficile da controllare, quale è quella biologica, storica e culturale. Non è un caso che questi interrogativi si pongano in modo pressante, vistoso e drammatico, nell’adolescenza, quando la partita esistenziale sembra ancora aperta, plasmabile. Poi subentra la resa, l’adattamento, il falso equilibrio e le astratte risposte di una ragione separata dal suo sostrato biologico, psichico, affettivo.
Se non viene ricacciata nel privato, la lettera può diventare un prezioso materiale di riflessione per chi voglia ricucire il rapporto tra interiorità, soggettività e storia.
Se nell’angolo della posta si ha l’impressione di ascoltare una lingua diversa, straniera, rispetto a quella che conosciamo, è perché l’adolescenza del mondo non ha trovato ancora luoghi e modi per comparire, che non siano queste forme marginali, sotterranee, svalutate. E, non comparendo, non può essere modificata, confrontata col tempo storico, coi suoi ritmi sempre più veloci e astratti. È questa lingua che bisogna ascoltare, far riecheggiare dentro di sé, cogliendone i segnali e viaggiando nei luoghi che essa indica, cercando dietro gli angoli bui del pensiero quello che di sé – adulto, uomo o donna – ancora non si conosce. Si tratta in altre parole di lasciare che i sogni e gli incubi escano dall’ombra, che tornino a incantarci o a terrorizzarci, non permettendo più che ci rendano ciechi. Ciò non significa rinunciare al patrimonio di cultura e di esperienza che abbiamo ereditato, ma rileggerlo, attraversare le discipline per vedere ciò che hanno tentato di cancellare e che tuttavia si portano dentro, prestando nel medesimo tempo ascolto alla lingua della nostra infanzia, della memoria del corpo, a quel sapere di sé che la scuola teme, o che è impreparata ad affrontare.
Valentina Degano, insegnante in una scuola per apprendisti commessi e impiegati, scrive delle sue attese e delusioni rispetto agli alunni, e così commenta sulla rivista “L’erba voglio” (anno 1°, n.1, luglio 1971) il fatto che le ragazze dichiarano di dedicare i momenti liberi alla lettura di riviste come “Gioia”, “Grazia”, “Intimità”, “Confidenze”:
“Non accettando di criticare dall’esterno questi loro interessi, senza tentare di capirne le motivazioni, mi sono messa anch’io a leggere questi giornali, mi sono fatta raccontare le trame e nel raccontarmele esse stesse si dimostravano scettiche e incredule sulla possibile realtà dei fatti che presentavano. Eppure per loro questo non era molto importante: contava invece che tutto andasse a finire bene, che cioè i protagonisti potessero finalmente amarsi senza ostacoli. Il mondo cui tendevano e tendono e che vedono riflesso in tali letture è un mondo fatto di vita non pressata dal bisogno di guadagno, una vita fatta di cose belle, di vestiti belli, di automobili sportive, di profondi affetti e di storie amarose sempre piene di ostacoli poi superati: vita che non vivono, e a cui pure tendono. Sanno benissimo che la loro vita non riflette quanto leggono, eppure tendono a vivere nella loro esperienza quei modelli. (…) Mi è bastato spogliarmi per un momento della mia veste di insegnante di sinistra per accorgermi che anch’io sono vulnerabile a questo proposito: mentre leggevo i fotoromanzi, ho sentito di essere in un certo senso affascinata dalla ragazza calzoni-blusa-capelli e gambe lunghe-viso dolce-sicura e caparbia sentimentalmente. Si tratta quindi di riconoscere questo stimolo, influente anche su di noi”.
Seguiva una Nota redazionale:
“Leggere “Intimità”, “Grand Hotel”, ecc., cioè, in un certo modo, sognare, può essere necessario per sopravvivere… si sogna, e in quel modo, perché si ritiene che il mondo è una macchina immodificabile (modificabile solo nei sogni) e ci si sente impotenti a mutarlo. Solo un agire che riesca a trasferire su sé la capacità di mutamento che è ora del sogno, potrà eliminare la necessità di quei sogni; un agire che spezzi la separazione tra sogno (impossibile) e realtà (più che possibile). Di qui, l’indicazione politica: per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni”.
Donatella Donati dice
Lessi L’erba voglio, il volume prima ancora delle rivista, nell’estate del ’70, pochi mesi prima di cominciare a insegnare, e mi piacque. E in genere sono vicina al pensiero di Lea Melandri, che mi sembra, in campo femminista, uno dei più radicali e profondi per il suo riferimento all’inconscio e il suo invito a indagare l’ambigua area della collusione.