Quattrocento milioni di persone appartenenti ai popoli indigeni abitano la Terra in più di 90 nazioni diverse. Oggi sono il 5 per cento della popolazione mondiale ma si prendono cura dell’80 per cento della biodiversità del pianeta. Un pericoloso piano “ambientalista” prevede che il 30 per cento della superficie terrestre sia considerato “area protetta”. Spesso, però, le cose non sono come sembrano e l’istituzione di queste aree serve anche a distogliere l’attenzione dalle cause della distruzione dell’ambiente e dei cambiamenti climatici. Comporta inoltre molto spesso l’allontanamento forzato proprio di coloro che, nei fatti, custodiscono l’integrità del territorio per favorire invece interessi turistici e speculativi del modello estrattivista. Il caso degli immensi possedimenti di Benetton in Patagonia è emblematico: le evidenze dimostrano ovunque che i popoli indigeni gestiscono e si prendono cura dei loro ambienti naturali meglio di chiunque altro. Il 2 settembre a Marsiglia si apre il primo congresso per discutere di come decolonizzare la conservazione della natura e presentare alternative, basate sulla biodiversità e il pluralismo delle culture, che favoriscano l’affermazione dei diritti di tutti gli esseri viventi e della natura stessa
All’inizio di luglio, in Cile, Elisa Loncón, educatrice mapuche, assumeva la presidenza dell’Assemblea Costituente pronunciando queste parole: “Esta vez, estamos instalando aquí una manera de ser plural, una manera de ser democráticos, una manera de ser participativos. Por eso, esta convención que hoy día me toca presidir transformará Chile en un Chile Plurinacional, intercultural” [“In questo momento stiamo costruendo qui un modo di essere plurali, un modo di essere democratici, un modo di essere partecipativi. Per questo questa Convenzione che oggi presiedo trasformerà il Cile in un Cile Plurinazionale e interculturale”].
Solo tre settimane dopo, qui in Italia, i rappresentanti delle organizzazioni indigene restavano fuori in segno di protesta dal pre-summit delle Nazioni Unite che si apriva a Roma, dichiarando – insieme a centinaia di organizzazioni della società civile – il vertice illegittimo.
Da un lato, dunque, i delegati chiamati a redigere una nuova Costituzione scelgono una donna indigena a presiedere l’assemblea, dall’altro le Nazioni Unite decidono di cancellare con un colpo di spugna il percorso che negli ultimi anni aveva garantito la partecipazione delle organizzazioni della società civile nei processi di analisi e gestione delle politiche di food governance globale attraverso il Cilvil Society Mechanism nel quale le organizzazioni indigene hanno sempre avuto una forte rappresentanza.
Tutto questo accade in un momento in cui è sempre più evidente l’inadeguatezza dei modelli economici e di governance dominanti nei vertici dei “paesi più industrializzati” per far fronte alla crisi ambientale e sociale che, in ogni parte del mondo, stanno affrontando.
E’ proprio questa evidenza a far emergere l’esigenza di attingere a nuove fonti di pensiero, a esperienze diverse di organizzare le società umane e i loro rapporti con la natura, l’ambiente e gli altri esseri viventi.
I popoli indigeni contano oggi almeno 400 milioni di persone e abitano in più di 90 nazioni diverse. Tra loro, circa 150 milioni di persone vivono in società tribali. Pur costituendo solo il 5% della popolazione mondiale, gli indigeni proteggono l’80% della biodiversità del pianeta.
Come ricorda l’IWGIA[1], “almeno il 24% del carbonio globale immagazzinato in superficie nelle foreste tropicali del mondo, o 54.546 milioni di tonnellate metriche di carbonio, sono gestite dai popoli indigeni e dalle comunità locali. Questo è il risultato della gestione sostenibile dei popoli indigeni delle risorse naturali.
I popoli indigeni sono custodi non solo delle foreste, ma anche dei fiumi, dei mari, degli oceani, del ghiaccio, delle torbiere, dei deserti, delle praterie, delle savane, delle colline e delle montagne”.
Nonostante queste evidenze, una nuova proposta sostenuta da governi, organizzazioni della conservazione e industrie, prevede di raddoppiare le Aree Protette del mondo – una misura che, in base all’esperienza delle organizzazioni indigene, rischia di raddoppiare violenze nei loro confronti e miseria per le loro comunità.
Il piano di alcune associazioni ambientaliste o meglio, dell’industria della conservazione, che verrà presentato al Congresso dell’IUCN[2] a Marsiglia, prevede la trasformazione del 30% del pianeta in “Aree protette” affermando che le “Soluzioni basate sulla natura” (NBS) fermeranno la perdita di biodiversità e i cambiamenti climatici.
L’idea può sembrare buona, in realtà questa iniziativa distoglie l’attenzione dalle cause della distruzione dell’ambiente e dei cambiamenti climatici e da coloro che ne sono i diretti responsabili e rischia di restringere ancora di più i territori dove i popoli indigeni sono liberi di praticare il loro stile di vita e le loro attività di sussistenza.
Come ricorda Survival International, spesso, per fare spazio alle Aree Protette, i popoli indigeni vengono allontanati con la forza dai territori in cui sono insediati da sempre e dalle loro aree di caccia e raccolta e obbligati ad adottare diversi stili di vita, compatibili con i modelli dell’industria della conservazione e del turismo.
Anche se le evidenze dimostrano che i popoli indigeni gestiscono e si prendono cura dei loro ambienti naturali meglio di chiunque altro, i governi hanno finalmente la scusa per sfrattare le comunità e aprire le porte alle agenzie turistiche e persino alle industrie estrattive.
“Our land, our nature” è il primo congresso per discutere di come decolonizzare la conservazione dal 2 settembre a Marsiglia e in modo virtuale on line si presenteranno alternative basate sulla diversità culturale che protegge la biodiversità, per costruire una visione anticolonialista, legata alla giustizia sociale e climatica.
Perché oggi, per trovare soluzioni concrete alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità non possiamo affidarci a coloro che di questa crisi sono responsabili: abbiamo bisogno di ascoltare i popoli indigeni, riconoscere le loro culture come legittime e soprattutto decolonizzare la conservazione per evitare altre sofferenze e non commettere nuovamente gli errori del passato.
E’ possibile registrarsi e seguire i lavori del congresso su https://www.ourlandournature.org
[1]. International Work Group for Indigenous Affairs, The Indigenous World 2020, 34th Edition https://iwgia.org/images/yearbook/2020/IWGIA_The_Indigenous_World_2020.pdf
[2]. International Union for Conservation of Nature. Questo il sito del Congresso che si terrà sempre a Marsiglia dal 3 settembre https://www.iucncongress2020.org/
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