
“Sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra e altro non voglio se non che prenda fuoco” (Luca, 12,49)
Quale parola ha la forza di un evento oggi? Siamo inondati di parole, ma quale può fare la differenza? Esistono parole ancora capaci di commuoverci, di toccare qualcosa della realtà? Penso che il sermone della vescova episcopale Mariann Budde davanti a Donald Trump nella cattedrale di Washington abbia avuto la dignità di un evento. Perché il suo discorso è stato così commovente? Lo chiedo ai miei amici, credenti e non, tutti ugualmente impressionati.
Innanzitutto chi parla. Una donna, una donna vescovo, cosa insolita per tanti di noi.
In secondo luogo, dove parla e come lo fa. Davanti a una manciata delle persone più potenti e temibili del pianeta, parla con straordinaria compostezza, calma e morbidezza.
Terzo, cosa dice. Un invito a pensare all’unità e alla coesione sociale a partire dalla differenza, dall’alterità e dall’estraneità. Il successivo appello a porre fine alla persecuzione contro i più deboli (minoranze, migranti) proprio quando il governo Trump si preparava ad annunciare imminenti arresti e deportazioni di massa.
Il sermone è stato allo stesso tempo un sottilissimo schiaffo in faccia, una delegittimazione radicale della stessa fede che Trump dice di professare e a cui si ispira, un appello alla mobilitazione contro le persecuzioni e un messaggio di incoraggiamento ai perseguitati.
Tutto questo contro la “cultura del disprezzo che si è normalizzata in questo Paese e minaccia di distruggerci”. Il complesso industriale dell’indignazione vittimistica e risentita. La demonizzazione e il ridicolo dell’altro. La politica dell’inimicizia. E dal luogo più inaspettato, imprevisto, più impensabile. La voce più forte dal corpo più fragile.
Che tipo è quella voce, con cosa risuona storicamente? Alcuni articoli su siti web cristiani lo identificano rapidamente. È una voce profetica. Erich Fromm, in alcune bellissime pagine del suo ultimo libro intitolato And You Will Be Like Gods, spiega così la qualità di quella voce:
– Il profeta non predice nulla, non annuncia ciò che verrà, ma piuttosto ciò che potrebbe essere, ciò che potrebbe accadere. Non “prevede” il futuro, ma piuttosto “vede” il presente e la posta in gioco in esso. È un veggente del presente.
– Il profeta non dice “la verità dei fatti”, non parla di ciò che è già stato fatto, di ciò che è già concluso, ma di ciò che sarà, di ciò che dovrà essere fatto. Delle tendenze, latenze e potenze del presente. Delle alternative, delle possibilità e dei compiti. Apri il futuro.
– Il profeta mette in guardia e mette in guardia contro il potere e la forza. Li spoglia del loro travestimento religioso, della loro sacra giustificazione. È alleato dei deboli e dei sofferenti, dell’orfano e della vedova, del povero e dello straniero, contro re e sacerdoti. Rompe l’incantesimo della forza.
Anche noi non credenti, laici, progressisti possiamo ascoltare e comprendere tutto questo?
Da Walter Benjamin a Mario Tronti, alcuni dei più penetranti pensatori politici laici degli ultimi tempi hanno rivendicato questa forza del profetico (e del poetico) per la rivoluzione. Perché? Notano un’insufficienza della parola critica, della critica puramente razionale, quando si tratta di trasformare le cose.
La parola critica ha lo scopo di informare, sensibilizzare, svelare, ma non tocca i corpi. Lascia le cose com’erano. Denuncia, addita, cancella, ma resta intrappolato in ciò che viene criticato, senza indicare vie d’uscita, altre strade possibili, nuovi punti di partenza. È prevedibile: convince chi è già convinto, seduce chi è già sedotto, cuoce nella sua stessa salsa. È una lucidità impotente.
Oggi meno che mai i dati non smentiscono le storie, né gli argomenti sono in grado di dissolvere le bugie. La sola verità dei fatti non può nulla contro le fake news. Ciò che può cambiare le cose è qualcosa di diverso. Un altro luogo dove parlare, da cui parlare, capace di promuovere un altro ascolto. Altra posizione di enunciazione, altra cultura politica, altra sensibilità. Un’altra verità.
Il più grande idolo del presente, il grande tentatore, sta diventando virale. Tutte le aziende, tutti i politici, tutti i media adorano questo nuovo vitello d’oro. Hanno sogni bagnati riguardo al fatto che i loro contenuti diventino virali. Progettano campagne sofisticate. Fanno studi di marketing. Calcolano gli obiettivi e i segmenti di popolazione. Ciò che questi strateghi-imprenditori non hanno è alcuna verità.
Il vescovo Budde non aveva altro che la sua verità. Questa verità è difficile da elaborare e da dire, difficile da sostenere, il che può portare a conseguenze e spiacevoli. Verità esistenziale, verità etica, verità che conta. Questa verità può essere contagiosa, ma non virale. Si diffonde senza volerlo, senza calcolarlo, senza alcuna garanzia. Il contagio arriva in aggiunta alla sua stessa forza.
La verità è sempre intima anche se diventa comune. Appartiene ad ogni persona, ma può essere condivisa. Mons. Budde ha espresso, in un linguaggio particolare, aperto e inclusivo, verità universali, come l’accoglienza dello straniero o la compassione per la sofferenza degli altri. Ha così sfidato persone di diverse credenze, ideologie o religioni. Ha parlato al cuore e alla responsabilità di ciascuno.
Nonostante tutto questo, Trump e Musk si sono affrettati a squalificare lA vescovA e il suo sermone. Era necessario identificare subito quella voce venuta dal nulla, neutralizzare la potenza della sua parola sotto qualche termine infame, fermare il possibile contagio. Questa è la funzione che oggi svolgono termini come “buonismo”, “progre” o “woke”. Vengono a dire: qui non c’è niente da ascoltare.
Oggi, in una corrente che sembra essere nemica, tutta nelle mani dei re e dei loro sacerdoti, ci sono potenzialità di cambiamento in latenza, ma per attivarle è necessaria una nuova voce che chiama. Una voce dotata di forza – credibilità, legittimità e sensibilità – per scuoterci, commuoverci e metterci in movimento. Non una verità oggettiva, ma un effetto di verità.
Pubblicato su ctxt.es, traduzione di Franco Berardi Bifo.
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