Diciamoci la verità: al di là di certe affermazioni di principio che lasciano il tempo che trovano, a noi non viene per niente facile considerarli tre elementi talmente correlati da non riuscire spesso più a distinguerli, ma la violenza della criminalità organizzata, quella che in América Latina si è ormai soliti chiamare “dei narco-paramilitari”; l’azione degli apparati degli Stati-nazione e il modello economico, ispirato all’estrattivismo, che prevede l’accumulazione senza limiti, costituiscono da un bel po’ di tempo un’unica, fitta rete per l’espropriazione. Raúl Zibechi racconta da tempo la crescita esponenziale di questa connessione, in questo caso lo fa prendendo spunto dalla conferma che viene da una ricerca del Consiglio latinoamericano delle scienze sociali. L’analisi di Emiliano Teran Mantovani si centra proprio sulla criminalità organizzata come estrattivismo, dall’intimidazione e lo sgombero forzato delle popolazioni al controllo delle miniere e dei territori produttivi, fino alla gestione dei “processi e dei canali di commercializzazione delle commodities“, un connubio perverso quanto ormai evidente, che non può non costringerci a riconsiderare fino in fondo molte delle idee consolidate in decenni sulle istituzioni e i luoghi di difesa della democrazia
La malavita organizzata, la criminalità parastatale o il traffico di droga sono le forme che assume l’accumulazione per espropriazione/estrattivismo nella zona del non-essere, cioè nei territori dei popoli originari, degli afrodiscendenti e dei contadini dell’America Latina. Sebbene di solito siano presentati separatamente, come se non ci fosse nessuna correlazione tra loro, la violenza criminale, gli Stati-nazione e il modello economico costituiscono un’unica rete per l’espropriazione dei popoli.
Questa conclusione scaturisce dal lavoro del ricercatore Emiliano Teran Mantovani, che in un suo recente saggio collega le tre modalità indicate sopra.[1] Sappiamo che la criminalità organizzata espropria i beni comuni dei popoli, spezza i tessuti comunitari, sfrutta e uccide le persone, oltre a degradare l’ambiente con le sue iniziative economiche, con il sostegno sia delle imprese private che degli Stati.
Ciò che più pare interessante del lavoro di Teran è la sua analisi della criminalità organizzata come estrattivismo, dall’intimidazione e dallo sgombero forzato delle popolazioni al controllo delle miniere e dei territori produttivi, fino alla gestione dei “processi e dei canali di commercializzazione delle commodities“.
A suo avviso, dobbiamo pensare alla criminalità organizzata come a “una chiara espressione della politica dell’estrattivismo nel XXI secolo”, quindi ben oltre le dinamiche economiche che rappresenta. Su questo punto, vedo una stretta relazione con il pensiero di Abdullah Öcalan, il quale sostiene che “il capitalismo è potere, non economia”. Nella sua fase decadente, il capitalismo è violenza armata e genocidio, per quanto risulti difficile accettarlo.
In una delle sue pagine più brillanti, Teran indica una progressione del modo di agire della criminalità, che ci riporta agli albori del capitalismo descritto da Karl Polanyi: sottomettere la popolazione locale attraverso il terrore; controllare le forme economiche cercando di raggiungere il monopolio; includere una parte della popolazione nell’economia criminale, proteggere quel settore con i propri servizi, naturalizzare la violenza e, infine, “trasformare parte della popolazione in macchine da guerra”, integrandola “soggettivamente, culturalmente, territorialmente, economicamente e politicamente nelle proprie logiche di violenza organizzata”.
I punti di confluenza tra criminalità organizzata ed estrattivismo sono evidenti: si scontrano con la popolazione che resiste o non si piega, si basano sulla stessa economia di espropriazione e cercano la protezione delle armi, quelle dello Stato e le proprie.
C’è poi qualcos’altro, ed è molto inquietante: la criminalità organizzata “è riuscita sempre più ad essere un fattore di canalizzazione del malcontento e del malessere popolare, riuscendo a catturare una parte delle pulsioni contro-egemoniche, di rivolta, di antagonismo nei confronti del potere, e potenzialmente a dare forma a quelle possibili insurrezioni”, dice Teran.
Terribile, ma reale. Di fronte a tale situazione, noi che ancora desideriamo cambiamenti di fondo, anticapitalistici, dovremmo sentirci spinti a riflettere, chiedendoci quale parte di responsabilità abbiamo nella decisione di tanti giovani di unirsi alla violenza criminale.
Una prima domanda riguarda la necessità di rompere con il desiderio affannoso di mascherare la realtà, di non voler vedere che il capitalismo realmente esistente è una guerra di espropriazione o una quarta guerra mondiale, come la chiamano gli zapatisti. La criminalità e la violenza, per diventare la principale modalità di accumulazione del capitale, devono avere il sostegno e la complicità degli Stati, che stanno diventando Stati dell’espropriazione.
Ecco perché il problema non è l’assenza dello Stato, come dice il progressismo. Non guadagniamo nulla espandendo la sua sfera, dal momento che lo Stato è il primo responsabile della violenza contro i popoli.
Una seconda questione riguarda il fatto che “i tessuti sociali sono essi stessi un campo di battaglia, un campo conteso”, come sottolinea Teran. La criminalità, il narco-paramilitarismo (indissociabile dagli apparati armati dello Stato), sono determinati a rompere i rapporti sociali per ricomporli secondo i propri interessi, da cui la violenza razzista e i femminicidi.
Ecco perché i gruppi di autodifesa ancorati nelle comunità che resistono sono diventati essenziali. Non devono prendersi cura e difendere soltanto la vita e la natura, ma anche le relazioni umane.
Infine, non pochi intellettuali parlano di “alternative all’estrattivismo”, pensandole sempre in termini tecnocratici e dicendo che saranno realizzate dall’alto. Impossibile.
Oggi le vere alternative sono le Guardie Indigene, Cimarronas[2] e Contadine del Cauca colombiano, i governi autonomi e le demarcazioni autonome dell’Amazzonia, i recuperi di terra dei Mapuche; l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, il Congresso Nazionale Indigeno, le fogatas[3] di Cherán, le guardie comunitarie e le molteplici forme di autodifesa. Non ci sono scorciatoie, solo la resistenza apre delle strade.
Fonte: “Crimen organizado y extractivismo”, in La Jornada, 13/01/2023.
Traduzione a cura di Camminardomandando.
[1] Emiliano Teran Mantovani, «Crimen organizado, economías ilícitas y geografías de la criminalidad: otras claves para pensar el extractivismo del siglo XXI en América Latina», in Conflictos territoriales y territorialidades en disputa, Clacso, 2021.
[2] I Cimarrones sono i discendenti degli schiavi africani riusciti a fuggire dalle piantagioni e a costruire importanti comunità indipendenti dal governo.
[3] In senso letterale fuochi, falò. Il termine è stato utilizzato per indicare i presidi e le assemblee comunitarie dei quattro quartieri della cittadina di Cherán (nello Stato di Michoacán, in Messico), nate dall’esperienza di lotta del 2011, quando le donne accendevano fuochi sulle barricate per cucinare.
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