L’estrazione dei minerali e l’industrializzazione dell’agricoltura, ma anche l’imposizione del tempo scandito dall’orologio meccanico, hanno permesso al colonialismo europeo di modificare in profondità le cosmovisioni indigene e di creare la ricchezza dell’Europa. Sono state così distrutte idee, habitat, cosmologie, modi di comprendere il mondo. Abbiamo bisogno di un approccio ecologista decoloniale per riconoscere l’aggressione in corso fatta da un sistema coloniale, razzista, patriarcale e antropocentrico che alimentiamo tutti in diversi modi e di cui il cambiamento climatico è una delle conseguenze. «Quello che stiamo vivendo oggi – scrive Andrea Staid in Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente (Utet) – è il risultato di una modernità che si è basata sulla morte, sull’asservimento delle comunità indigene e sulla sottomissione degli altri esseri viventi. Una modernità che è stata costruita non solo sulla separazione degli esseri umani sotto l’idea di “razza”, ma anche sulla separazione tra “uomo” e “natura”…». Ampi stralci del capitolo Colonialismo e antropocentrismo


L’antropocentrismo (dal greco άνθρωπος, anthropos, “uomo, essere umano”, κέντρον, kentron, “centro”) è quel pensiero che tende a porre la specie umana al centro dell’universo e a considerarla superiore rispetto alle altre entità presenti sulla terra, quali gli animali e i vegetali. Una delle filosofie occidentali che più ha alimentato e sviluppato il pensiero antropocentrico è stato l’umanesimo. Questo approccio filosofico considerava e poneva l’uomo al centro di tutto, esaltandolo talvolta attraverso le sue peculiarità, la sua presunta vicinanza con la natura divina e marcando più volte e nettamente la distanza che separava l’uomo dall’animale. Questa teoria, o meglio questo modo di sentirsi dell’uomo nel mondo, fu messa in crisi dalla pubblicazione, nel 1871, dell’Origine dell’uomo di Darwin, dove il biologo britannico apporta prove scientifiche in grado di far crollare le teorie antropocentriche, mostrando l’origine comune dell’uomo e dell’animale. Grazie alle teorie e agli studi di Darwin, comprendere che siamo esseri viventi uniti da una ragnatela di connessioni è di sicuro più semplice, ma gli atteggiamenti antropocentrici e specisti rimangono invariati.
La visione antropocentrica che separa l’umanità dalla natura e che pone homo sapiens come superiore e quindi dominatore di tutto quello che lo circonda, non soltanto ha portato alla distruzione della terra e degli altri viventi, ma è stata uno dei motori del colonialismo. Gli europei, nel loro movimento di espansione e conquista, oltre a occupare militarmente terre, rubarne le risorse, colonizzare interi territori attraverso l’uso indiscriminato della violenza, esportare virus e produrre pandemie senza precedenti, hanno anche esportato e imposto con la forza la loro visione antropocentrica, che molto spesso era qualcosa di assolutamente estraneo alle popolazioni indigene.
Il colonialismo europeo ha modificato profondamente la cosmovisione indigena, ha attaccato, prima con le armi e poi teoricamente, la costruzione culturale del rapporto uomo-natura che caratterizzava le popolazioni indigene. In molte terre occupate dai nuovi coloni la ritualità che prima coinvolgeva la natura come un concetto indiviso dall’umanità, fu gradualmente sostituita dall’influenza del cristianesimo cattolico, che prevedeva e prevede la separazione duale uomo-natura. […] L’idea dei colonizzatori era molto semplice: l’uomo deve dominare il suo intorno, la natura è qualcosa di cui noi esseri umani non facciamo parte; di fatto sono stati i portatori di uno sconvolgimento del sistema indigeno che non prevedeva questa separazione duale uomo-natura.
La natura e la cultura sono identificate dall’uomo occidentale come due domini ontologici ben distinti tra loro: imporre questa visione è stato fondamentale per esportare e giustificare uno sfruttamento senza limiti della terra e delle sue risorse. […] Per molte popolazioni indigene, per esempio dell’Amazzonia, esisteva e ancora oggi esiste una relazione etica complessa nei rapporti tra uomini, piante e animali, in cui tutti vengono considerati come dei familiari, come delle persone. Umani e non umani non venivano e non vengono rappresentati come appartenenti a due mondi autonomi e tra loro impossibilitati a comunicare per la loro diversità; il mondo umano non risulta superiore e governato da leggi e principi separati da quelli che governano il mondo naturale, le piante, gli animali, le rocce, i fiumi. […] In parole più semplici, i non umani, per molte popolazioni indigene, condividono una condizione umana originaria, dialogano con la controparte umana e operano con autorevolezza pari o superiore a quella degli umani. Una relazione tra umani e animali che produce una configurazione relazionale unica, che possiede implicazioni sul piano corporale, cognitivo e affettivo, attraverso quei modi della percezione che sono capaci di conferire agli umani la possibilità di sentire come un animale e agli animali la facoltà di intendere il linguaggio e le abitudini della famiglia umana.
La dotazione sensoriale veniva e viene acquisita in un contesto eminentemente relazionale, a partire dalla tessitura di relazioni e collaborazioni tra persone umane e non umane, nelle attività che strutturavano e strutturano la vita quotidiana, come la caccia, la preparazione degli alimenti e il vivere comune. Una visione che non poteva essere accettata da chi si proclamava “figlio di Dio”, da quei colonizzatori che si facevano largo tra le popolazioni indigene con le loro spade insanguinate. L’impatto dell’indottrinamento religioso per queste comunità è stato senza dubbio devastante. Tutta la mitologia e la sacralità di queste terre furono sostituite da un cambiamento radicale che si rifletteva inevitabilmente anche nelle attività quotidiane dei nativi. La visione testamentaria dell’uomo come signore e dominatore della natura fu imposta alle popolazioni indigene, prendendo piede in tutte le terre conquistate con una violenta imposizione del modello ecclesiastico.
Nel momento della conquista, il lavoro agricolo e artigianale cominciò ad avere uno scopo commerciale. La terra, la natura, venne oggettificata e separata dall’uomo, quindi messa a profitto, mercificata. L’estrazione di minerali, metalli preziosi e legname venne orientata a finanziare le spese e le necessità dei colonizzatori, servì a creare la ricchezza dell’Europa.
Una volta imposto il sistema coloniale attraverso l’imposizione di una nuova lingua, uno sradicamento geografico, l’imposizione del denaro come unico metodo di scambio e con l’obbligo del lavoro salariato o schiavile, la possibilità di un ritorno ai propri costumi nativi e ancestrali scomparve quasi definitivamente tra gli indigeni. […]
Il colonialismo è stato, ed è tuttora, una politica economica di furto ed espansione, ma non solo: è anche la distruzione della memoria dei luoghi, del tempo, delle lingue che vengono sradicate, delle comunità e dei modi di vita che vengono cancellati. Serge Latouche sostiene che il produttivismo capitalista ha stravolto in modo rilevante il nostro rapporto con il tempo, il quale una volta scandito artificialmente dall’orologio meccanico, contato e ricontato, diventa l’elemento centrale dell’economia. Il colonialismo ha esportato anche questa nuova relazione con il tempo, alla quale tutte le comunità indigene dovevano adattarsi: bisognava produrre sempre di più e in un tempo dato; che fosse in una miniera a Potosí o in un campo di cacao in Brasile, era fondamentale accelerare i ritmi di produzione. Il tempo della vita si era tramutato in tempo per il lavoro, in tempo per produrre un surplus.
LEGGI ANCHE:
La perdita collettiva per l’umanità è stata incalcolabile: sono state distrutte culture, idee, specie, habitat, tradizioni, cosmologie, possibilità, modelli di vita e modi di comprendere il mondo. […] La distruzione della vita umana nelle Americhe, nel continente africano, nell’Artico e in Oceania fu così catastrofica e diffusa che gran parte della popolazione originaria fu spazzata via da guerre, epidemie, schiavitù, sfruttamento del lavoro e carestie.
Negli ultimi decenni del XIX secolo, decine di milioni di persone morirono di fame in India, poiché la politica coloniale britannica costrinse il paese a esportare grandi quantità di cibo. Lo sventramento del Congo, progettato per estrarre quanto più avorio e gomma possibile, ha ucciso almeno dieci milioni di persone, la metà della popolazione del paese all’epoca.
La storia del colonialismo, per quanto ancora oggi venga spesso cancellata dalla coscienza storica, dovrebbe essere ricordata per molte ragioni, non ultima la nostra attuale preoccupazione per il cambiamento climatico. Il colonialismo, nella sua esuberante distruzione − spazzando via gli ecosistemi e soggiogando le comunità che li sostenevano − ha scatenato un forte aumento delle emissioni. Il colonialismo ha cambiato il ritmo, la portata e l’entità della distruzione ecologica. Ha generato cambiamenti drammatici negli ecosistemi terrestri e marini e ha trasformato le dinamiche di crescita.
Jason Moore sostiene che l’ascesa della civiltà capitalista dopo il 1450, con le sue audaci strategie di conquista globale, di mercificazione infinita e di razionalizzazione implacabile, ha segnato la svolta più decisiva nella storia del rapporto dell’umanità con il resto della natura dall’emergere dell’agricoltura e delle prime città.
Il colonialismo ha plasmato anche il modo di concepire la conservazione della natura e l’ecologia. Gli sforzi per proteggere la natura, particolarmente intensi alla fine del XIX secolo, si trasformarono in nuove opportunità di controllo coloniale. Le aree di “natura incontaminata”, che in seguito sarebbero diventate parchi nazionali, furono svuotate degli abitanti, mentre le terre al di fuori di queste riserve furono destinate all’estrazione intensiva. La natura ancora una volta vista come oggetto, in questo caso da “preservare”.
Ci troviamo davanti a un grande paradosso (che tra gli altri l’associazione per i diritti indigeni Survival solleva ormai da decenni): per “salvare” una foresta spesso si delimita un territorio che diventa parco nazionale, riserva naturale, patrimonio dell’umanità, e toglie la possibilità agli abitanti ancestrali di quelle terre di continuare a viverci.
L’80 per cento della biodiversità terrestre si trova in territori abitati dai popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità del mondo si trova nelle terre indigene. Basterebbero solo questi due dati per affermare che i popoli indigeni sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro. Ciononostante, il modello di conservazione oggi dominante continua ad adoperarsi per creare in tutto il mondo aree protette “inviolate” – libere dalla presenza umana – mancando così completamente di riconoscere il ruolo giocato dagli indigeni nel plasmare e alimentare la natura.
Accade quindi che le terre in cui questi popoli hanno vissuto e che hanno gestito per millenni vengano erroneamente definite “vergini” o “selvagge”, e che gli indigeni vengano sfrattati nel nome della “conservazione”. Una volta cacciati dalle terre ancestrali, gli indigeni perdono la loro autosufficienza e si ritrovano a vivere di stenti o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.
A risentirne, però, non sono solo le comunità sfrattate dalle loro terre ma anche l’ambiente, che si ritrova privato dei suoi tradizionali “custodi” e spesso vede il bracconaggio e lo sfruttamento eccessivo delle risorse aumentare di pari passo con il fantomatico ecoturismo gestito dalle imprese che si arricchiscono sulla pelle delle popolazioni indigene, ma tutto sotto la meravigliosa bandiera di un nuovo e giusto ecologismo, che in realtà è soltanto una facciata, un vero e proprio greenwashing. […] L’errore di fondo sta nel considerare le terre indigene come “selvagge” o “vergini,” perché in realtà sono abitate, attraversate, vissute e gestite da millenni proprio dalle popolazioni indigene che vengono cacciate.
Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta “wilderness”, governi, società, associazioni e altre componenti dell’industria della conservazione si adoperano per farne “zone inviolate”, libere dalla presenza umana.
Tutto questo significa cadere in una logica etnocentrica che non riesce a uscire dalla cosmovisione antropocentrica e occidentale che vuole preservare una fantomatica natura esterna, lontana, selvaggia. Dobbiamo fare i conti con tutto questo e comprendere l’importanza di un approccio ecologista decoloniale, che ci porti a capire che il problema non è solo il cambiamento climatico, o meglio, che se stiamo vivendo nell’era dell’Antropocene è anche e soprattutto a causa di un sistema coloniale, razzista, patriarcale e antropocentrico che è stato imposto a gran parte del mondo dall’Europa attraverso un violento processo di colonizzazione durato più di cinque secoli. Quello che stiamo vivendo oggi è il risultato di una modernità che si è basata sulla morte, sull’asservimento delle comunità indigene e sulla sottomissione degli altri esseri viventi. Una modernità che è stata costruita non solo sulla separazione degli esseri umani sotto l’idea di “razza”, ma anche sulla separazione tra “uomo” e “natura”.
Andrea Staid ha aderito alla campagna Dieci anni e più
Lascia un commento