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di Carlo Ridolfi*
In un passo della sua autobiografia Giovanni Franzoni – una di quelle persone che sono state importanti per molti e che ci mancherà per sempre – scrive:
«…questo interrogativo: se i piccoli successi nell’impegno sociale e politico possano essere iscritti in un percorso lineare e progressivo, o se invece il “regno di Dio” si realizza ogni volta che Francesco bacia il lebbroso. Non credo più ai mattoncini di una grande costruzione di cui è assicurato il successo finale»1.
Ecco, io credo che in quel «non credo più» sia riposta una chiave interpretativa che ci può molto aiutare, anche in questi tempi di totale disincanto e apparente supremazia del cinismo, dell’arrivismo, dell’impegno politico e sociale mirato al guadagno e al successo personale e non al bene comune.
Esiste nella storia, sia collettiva che individuale, una lunga, lunghissima tradizione di convincimento e agire conseguente secondo il quale è possibile e raggiungibile un traguardo finale (che lo si chiami “regno di Dio” o “rivoluzione”, “terra promessa” o “socialismo”, poco cambia nella sostanza) che si avvicina man mano che la nostra pratica quotidiana aggiunge mattone su mattone. In nome dell’obiettivo ultimo, gli esempi potrebbero essere, ahinoi, innumerevoli, è ammessa e concessa qualsiasi deroga alla verifica sulla coerenza tra fini che abbiamo dichiarato di voler raggiungere e mezzi che stiamo utilizzando per il compimento dello scopo.
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Se avessimo voluto, per utilizzare l’esempio presentato dallo stesso Franzoni, debellare la lebbra, secondo questa impostazione finalistico/storicistica, ci saremmo potuti sbizzarrire nei più disparati interventi, dalla profilassi più accurata al passaggio col napalm sopra i villaggi in cui si trovassero gli ammalati, perché comunque il nostro fine nobile avrebbe giustificato anche ignobili mezzi.
I risultati pratici di questa impostazione, anche storicamente recenti, sono sotto i nostri occhi. Caduto ogni velo di infingimento l’agire politico, che pare sia possibile considerare solo ed esclusivamente sotto l’aspetto della razionalità strumentale, è diventato puro calcolo quantitativo di possibili risultati elettorali, che predisporrebbe a qualsivoglia disinvolta giravolta programmatica, se non persino etica, in nome del mantenimento del potere. In pratica: posso dirmi “di sinistra” e perseguire in tutta serenità non solo provvisorie alleanze con partiti di destra, ma anche soluzioni ai problemi in termini di attacco alle Organizzazioni non governative, sgomberi forzati e violenti, razionalissime elucubrazioni sull’insostenibilità ‘ideologica’ dell’accoglienza e così via.
Almeno un ripassino a mezzo bignami di qualche pagina di Weber potrebbe tuttavia ricordarci che l’agire umano non è sempre e necessariamente motivato dalla razionale aspettativa di ottenere dei vantaggi pratici. Esistono motivazioni ideali, politiche o religiose; motivazioni che vengono dalla tradizione; motivazioni affettive. Ciascuno di noi potrebbe fare degli esempi su comportamenti e azioni che non hanno nessuna spiegazione riconducibile alla razionalità strumentale, ma che pervadono (positivamente) la nostra vita quotidiana. (Un solo e semplice esempio: cosa porterebbe di vantaggio pratico l’ascolto, per chi ascolta, di un brano musicale? E pure: qualcuno sarebbe in grado di sostenere come positivo un mondo da incubo privo di musica?).
Ecco quindi che “baciare il lebbroso”, azione in apparenza sconsiderata e irrazionale, diventa – Giovanni Franzoni va ringraziato per molti motivi e questo è uno in più, a mio parere fondamentale – il riassunto in tre parole di una concezione esistenziale affatto diversa e, questa sì, davvero rivoluzionaria.
È l’agire quotidiano, cioè, e non più l’attesa di un orizzonte tanto lontano quanto impalpabile, che dona il senso alla nostra esistenza.
Forse sarebbe il caso di prendere in esame tutti gli aspetti positivi di una sorta di fenomenologia del momento, dove il momento non diventa né un istante isolato da ciò che lo precede e da ciò che lo segue né un evento autosufficiente destinato a ripetersi senza lasciar tracce, ma il segmento di tempo e di spazio nel quale possiamo verificare se tra ciò che diciamo di voler fare e ciò che facciamo in concreto ci sia una, almeno tendenziale, coerenza. (Quando fra di noi ci diciamo – e ogni volta il pensiero corre al nostro grande maestro Mario Lodi – “c’è speranza se accade a…”, è l’accadere di qualcosa di positivo in un determinato e concreto luogo che dà il respiro alla speranza: una maestra che aiuta un bambino a crescere in serenità; un padre che si ferma ad ascoltare la figlia; un assessore che verifica che la biblioteca per la quale ha tagliato il nastro mesi prima continui a funzionare e così via…).
Con la modestia, anche, e quel pizzico di senso del limite e autoironia provvidenziali, che ci aiuti a considerare che non stiamo compiendo atti palingenetici che sovvertiranno il pianeta, ma che stiamo solo dando il nostro piccolo contributo a una vita migliore.
Come scrive, ancora, Giovanni Franzoni, qualche riga più sotto di quelle utilizzate in apertura:
«Il granello di senape si può trasformare in un arbusto, ma poi è sbagliato dire che l’arbusto può diventare la piramide di Cheope. Il paradigma è diventare arbusto e sperare che diventi una foresta. Lì ci fermiamo: dobbiamo saper gioire di quello che si diviene».
A pensarci bene, ci sono due grandi motori che possono dar forza e velocità alle nostre azioni. Uno è l’invidia. L’altro la gratitudine. Entrambi sono molto potenti. Dove ci possano portare, ciascuno di noi lo può verificare giorno per giorno.
Grazie a Giovanni.
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