di Francesco Paniè
A prima vista può sembrare soltanto un gesto inutile, ma la chiusura dei nasoni – le tradizionali fontanelle pubbliche di Roma – è invece molto di più. È un atto grave e pericoloso, che dimostra la strutturale inadeguatezza della politica (locale, ma non solo) nell’affrontare gli effetti combinati del cambiamento climatico e della gestione privatistica del bene comune.
In molti ricorderanno che l’estate scorsa tutti i media italiani hanno dedicato molte attenzioni al disastro ambientale del lago di Bracciano, i cui livelli si sono abbassati drasticamente in seguito alla siccità e ai prelievi per le attività umane, operati soprattutto dall’Acea, la multiutility partecipata al 51 per cento dal Comune di Roma che gestisce il servizio idrico. Di questa seconda causa, tuttavia, si è parlato meno e più confusamente: eppure le ultime relazioni dell’Ispra, pubblicate ad ottobre, hanno dimostrato che le captazioni rappresentano la principale causa dello stato di crisi del lago.
Quando a luglio, sull’onda dell’emergenza idrica, la Regione ha minacciato di imporre lo stop ai prelievi dal lago di Bracciano, l’Acea ha risposto agitando lo spauracchio dell’interruzione del servizio per i cittadini romani. Da questa diatriba politica è nata la decisione di chiudere perlomeno le 2.800 fontanelle pubbliche della capitale.
Con il silenzio assenso della sindaca Virginia Raggi, l’Acea ha iniziato a chiudere i 2.800 nasoni di Roma ad agosto e continuerà finché non ne resteranno aperti appena 85. Contro questa decisione, cinica e inutile, gli attivisti di Terra!, Coordinamento Romano Acqua Pubblica, Associazione 21 luglio e A Sud hanno voluto lanciare una campagna di pressione. La richiesta alla sindaca è semplice e diretta: #RiallacciaIlNasone.
Negli ultimi dieci anni, le perdite della rete idrica di Acea sono raddoppiate per la mancanza di manutenzione e investimenti, e oggi toccano il 40 per cento. Al contrario, gli azionisti hanno intascato dividendi per circa 60 milioni di euro l’anno. Di fronte a questi dati, riaprire le fontanelle pubbliche non è soltanto una questione di principio, ma un atto dovuto. Dai nasoni passa appena l’1 per cento dell’acqua che ogni secondo arriva a Roma, ma quel rivolo continuo consente a circa 10 mila persone – tra migranti, senzatetto e famiglie rom – di lavarsi e dissetarsi. E dire che l’accesso all’acqua è un principio chiave della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dal 2010, mentre nel 2015 una storica risoluzione del Parlamento europeo ha proposto di inserirlo nella legislazione dell’Unione.
Tutti questi principi sono stati violati a causa della cattiva gestione dell’acqua a Roma e nel Lazio: prelievi idrici non controllati da enti indipendenti hanno causato il disastro ambientale di Bracciano, ma quegli stessi prelievi sembrano indispensabili a causa delle enormi perdite nella rete idrica romana, su cui l’Acea non interviene da anni perché preferisce distribuire dividendi da capogiro agli azionisti. Il tutto a scapito delle comunità locali e dei cittadini romani, vittime della beffa di una misura ingiusta e vana come la chiusura dei nasoni.
Mentre nelle sedi internazionali, come la COP 23 di Bonn, sindaci, governatori e ministri promettono di mettere in campo misure territoriali e internazionali contro le siccità e l’inquinamento, all’atto pratico mancano clamorosamente di coerenza e programmazione. La vicenda delle fontanelle romane è un esempio fulgido di come al riconoscimento di un problema non corrispondano soluzioni strutturali. Contro l’ottusità della gestione emergenziale, la campagna #RiallacciaIlNasone vuole riaffermare il diritto dei territori a una gestione sostenibile e partecipata dell’acqua, che va ricondotta in mano pubblica al più presto. Solo così sarà possibile investire i ricavi della gestione nell’ammodernamento delle infrastrutture, evitando scelte inutili e dannose che ricadono sulle fasce più deboli della popolazione.
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