Le isole sono luoghi speciali, sempre, ovunque. Anche quelle grandi, quelle molto turistiche, quelle con le discoteche e la musica fino a tardissimo per spendere più soldi possibili, tutte hanno qualcosa di diverso. Fondamentalmente, sono una terra dalla quale puoi anche non andartene, restare lì perché il mare è grosso e non si può ritornare alla terraferma. Le isole sono terre non ferme, perché c’è sempre il mare intorno. È il mare che domina tutto, soprattutto la vita delle persone isolane.
Anna Pavignano ha scritto sceneggiature di film amati, come tutti quelli, assolutamente speciali, di Massimo Troisi, di cui fu la compagna per una decina d’anni e per sempre una grande amica. È anche una scrittrice, con toni delicati e struggenti, della vita semplice, come nel libro In bilico sul mare: la storia parte dal racconto vero di uno dei tanti Antonio di Ventotene, che alla scrittrice parla di sé e di tutti i giovani isolani che, nel tempo, hanno provato a svoltare il necessario attraverso il lavoro, d’estate sull’isola e d’inverno sulla terraferma. L’isola, come tutte le isole, offre lavoro estivo con il turismo, e la barca non serve più per mangiare almeno il pesce preso, quello ora lo fanno i grossi gruppi alimentari che surgelano sulla barca stessa quello che al mare rubano in quantità industriali. L’inverno cattura sulla terraferma la fatica che l’estate portava via insieme al sole e al mare, e l’inverno sono i cantieri il lavoro, soprattutto per chi non ha studiato e deve occupare il tempo per mantenersi.
Antonio vive sull’isola ed è bello come Raubove, dice la madre storpiando il nome del noto attore, guida le barche per le turiste che hanno freddo nel sole d’estate e vogliono essere riscaldate nelle notti stellate. L’inverno Antonio va per cantieri, lavoro non regolare come per Atanganà, che è africano e ha i denti bianchissimi a contrasto della pelle scura scura, scappato da casa sua perché le dittature e le tradizioni non vanno sempre assecondate.
Il libro racconta qualche estate e qualche inverno della vita di questo ragazzo, che si innamora di Jessica, così diversa da lui perché viene da Genova, dalla città in cui il mare c’è ma non si vive, il porto è dedicato ai cantieri, alle navi e basta. Parla di come per amore si possa stare male, e anche per un incidente sul lavoro si soffre, e per la giovinezza, per il lavoro che non c’è, oppure c’è e fa male. Il lavoro che il mare non ti dà l’inverno, che i giovani vanno a cercare accettando tutto, soprattutto di rischiare la vita su un’impalcatura di una casa non tua, per pochi soldi che sono meglio di niente.
Antonio capisce che nella vita si possono fare anche altre scelte, oltre l’isola e la terraferma, e riprende a studiare perché ama riamato Jessica, che però non sfugge alla logica della buona famiglia, del buon lavoro, del buon fidanzato. Antonio prova a darsi un’altra speranza, a riprendere quella scuola da cui era uscito troppo presto, come troppi ragazzi che devono faticare invece che dover studiare, a differenza dei suoi coetanei che poi vanno in vacanza sulle isole. L’amore fa strani giri, e passa per strade che a volte sono interrotte, ma spesso ti aprono una porta che lì per lì non avevi visto prima: per Antonio, l’amore era l’occasione che dava alla sua vita una nuova possibilità, un nuovo sguardo, un nuovo desiderio. E senza amore non riesce a vivere, però c’è anche la vita dell’inverno che significa rischiare la vita sulle impalcature, senza protezione e senza certezze.
Antonio salva Atanganà mentre sta precipitando, ma nessuno salva lui, una mattina presto in cui lavorava al restauro del carcere monumentale, con la nebbia che sale e mostra il mare e le rocce taglienti.
Il lavoro è nero, come la pelle di Atanganà, che prende decreti di espulsione ovunque va; la morte è bianca se cadi a piombo sul mare da un cantiere. Ma giustamente, dice la scrittrice, bianco non è il colore giusto per questo tipo di morte, è meglio il marroncino dei pesci che mangiano le barche affondante nel porto, pesci che costringono anche loro i ragazzi a partire l’inverno dalle isole per andare a lavorare in un posto che la morte la dà.
Non ci pensiamo mai al fatto che gli operai stanno sulle impalcature pure se stanno male, sono feriti, sono tristi. I muratori sono anche depressi, ma nessuno se ne preoccupa più di tanto; basta un pensiero di più e cadono di sotto, nel vuoto, e dopo le case da costruire sono sequestrate, come i campi dove muoiono i ragazzi indiani che raccolgono la verdura, la frutta, quello che mangiamo a basso prezzo perché è sporco, spesso sudicio del sangue di chi ci permette di mangiare.
L’isola continua a creare nuovi Antonio e anche nuove Jessica, ma la ruota gira, la barca anche: su e giù per l’isola, nascono nuove storie, nuovi lavori, nuove domande.
Si sta in bilico anche sul mare, finché c’è la morte bianca, si rischia per niente, a volte si muore ancora per amore, se vai a faticare dove non dovresti stare; proprio in quel momento lì, vicino all’isola che ami, ma lontano da essa, troppo lontano.
Anna Pavignano – In bilico sul mare, Edizioni E/O, Roma, 2009 (14 euro)
I libri di Anna Pavignano si trovano in diverse biblioteche italiane, ma è più facile trovare i video dei film di cui ha curato la sceneggiatura: tutti quelli di Massimo Troisi ed altri.
Questo articolo fa parte di Granai per la mente, uno spazio dedicato ai libri a cura di Cristina Formica (sociologa femminista, da sempre attenta ai temi dell’antifascismo e dell’antirazzismo, autrice di È capitato anche a me. Diario delle molestie nella vita di una donna, edito da Red Star Press)
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