La storia dell’autogestione, una parola desueta, ma rinverdita vagamente da chi oggi vede nell’«occupy» una soluzione per molti mali, è una storia piuttosto lunga e controversa. Ogni «comune» che si rispetta, da Christiania, al carcere trasformato in centro sociale a Lubiana, alle comuni agricole in Maremma o nel Galles si ispiravano e si ispirano a quel vento che spirò a Parigi nel 1871 al tempo della «Comune». I comunardi volevano gestire Parigi come una comunità di eguali e la loro magnifica e coraggiosa impresa, pur finita nella repressione e nel massacro dette speranza e vita a molte delle imprese rivoluzionarie del ‘900. In esse c’ era lo spirito «del Comune», l’idea che i beni, mobili e immobili di una città appartengono anzitutto a chi li abita e che vanno gestiti avendo in mente che tutti ne devono beneficiare (…)
Oggi di «beni comuni» parlano in tanti, anche coloro che sono dentro perfettamentea una vecchia logica autoritaria di sinistra, da Toni Negri a Davi Harvey. I «beni comuni» invece si rifanno a una storia di usi civici, di diritti collettivi, di «economia morale», quella che ad esempio racconta E. P. Thompson nella Formazione della classe operaia inglese. Gli hippy, quel gruppo di matti di San Francisco, tra cui i miei amici Peter Coyote e Lee Swenson oggi settuagenari partirono dalle idee anarchiche per distribuire a sera i prodotti appena scaduti che i supermercati avrebbero distrutto e poi continuarono dormendo nei parking contro l’abuso di automobile, autogestendo case e chiese, concerti e fabbriche. Fu un movimento allegro, colorato, fiorato, ma soprattutto molto ironico, a dispetto di chi oggi vuole farne l’ agiografia. E fu un movimento di giovani colti, intelligenti che avevano letto Kerouac, ma anche Illich e Kropotkin. E che propugnava l’ autogestione e la sapeva spesso fare. Un movimento spento dalle ondate di repressione, dalla droga, dalla violenza di chi non ne capiva le ragioni. Ricordo ancora le botte subite dai comitati degli autonomi a Comiso per essere dalla parte della non violenza organizzata. Certo, perché l’ altra componente delle Comuni è la non violenza, quella di Gandhi e di Kropotkin, una non violenza organizzata che si rifiuta alla violenza perché sa quanto questa possa essere manipolata dall’ altrui violenza. Oggi la risorgenza del movimento «occupy» è abbastanza nello stesso segno. Non c’ è vittoria di piazza, non c’ è occupazione di luoghi che possa esistere senza una buona organizzazione. Lo insegnano i social network ed il loro uso da parte dei giovani egiziani, cinesi o turchi. L’idea che si possa comprare lo spazio di una comune, come è successo a Christiania, non è poi tanto strana perché non è certo la proprietà che fa scandalo al pensiero libertario: questa può essere un mezzo, individuale o collettivo da usare in maniera intelligente. Così le varie occupazioni italiane, dal Teatro Valle al Teatro Garibaldi a Palermo, potrebbero riflettere sul fatto che si può andare oltre il «volontarismo» delle occupazioni e il loro carattere rivendicativo. I Teatri, i Palazzi, le città si possono gestire in maniera differente, usando l’ economia creativa, inventandosi modi di produrre e di lavorare che siano strutture ed istituzioni diverse ed egualitarie. È la storia normale di molte imprese artigiane e non, industriali e non, condominiali e non. Non è certo l’ economia che spaventa i comunardi, ma è il non poterla o saperla usare per il bene comune. I soldi sono il diavolo solo per i dogmatici, ma per tutti gli altri sono uno strumento con cui costituire la reciprocità e la socialità, come ricorda il bel libro di David Graeber, Il debito, cinquemila anni di storia. Perfino il debito può essere cemento di solidarietà sociale. Graeber non per nullaè autore di un libro su Occupy Wall Street ed è oibò anche lui uno di formazione anarchica.
Ampi stralci di un articolo pubblicato da la repubblica il 14 agosto 2012.
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