Stralci di un libro straordinario, La potenza dei poveri (Jaka Book 2010).
I poveri che le società di mercato hanno già spinto nelle varie forme moderne della miseria in numero sono già superiori ai quattro miliardi di donne e di uomini che vivono con meno di due dollari al giorno. Trattarli come biglietti di banca sempre più svalutati per chiedere all’economia di rivalutarli non fa che aggravare la miseria che minaccia le due categorie di proletariato (quella della penuria e quella dell’abbondanza), le quali secono Jacques Ellul compongono l’altra faccia della modernità. Si tratta piuttosto di ascoltarli, di aprirsi a loro, di comprenderne il linguaggio, di amarli e di affidarsi alla loro potenza di poveri, affinchè un giorno, forse, i popoli passano riscoprire la gioiosa libertà della povertà scelta.
Insistere sulle definizioni quantitative della povertà, definirla secondo i criteri dei cataloghi dei bisogni, della precarietà o dell’assenza di mezzi di esistenza ritenuti necessari è frutto della cecità selettiva a cui sono addestrati il ricco e il moderno esperto di povertà: egli vede quello che, secondo i suoi cataloghi di bisogni, al povero «manca» e di cui egli, l’esperto, è abbondantemente fornito (…). Egli è cieco di fronte alla potenza del povero, che è in pericolo proprio a causa degli interventi di cui il povero è oggetto (…). Spinoza distingueva la potentia (potenza), dalla potestas (potere); la prima è il dominio e la pienezza interiori, mentre la potestas è il potere esteriore la cui essenza è l’esercizio di una forza di intervento sugli altri.
Le cifre, che non hanno sostanza, permettono di ridurre il senso di ciò che è buono, di ciò che è sufficiente e di ciò che è superfluo qui e ora in valori astratti, universali e intercambiabili (…). Si trova così condannato all’invisibilità, un modo di vita vernacolare, basato sui principi della povertà conviviale e che, in più, è stato comune a tutte le civiltà della storia (…). Finchè questo modo di vivere sarà ignorato dai cittadini dei paesi ricchi, esso continuerà a essere non solo invisibile per questi cittadini, ma sistematicamente assalito e perseguitato dalle politiche economiche dei loro paesi, imbevute dall’idea quantitativa delle «soglie di povertà». Comunque questa vera e propria guerra contro la sussistenza (per dirla con Ivan Illich) non è nata ieri (…). A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, lanciando i cuori sensibili dei paesi ricchi all’assalto della sussistenza delle nazioni povere, ha preso sovente l’aspetto di sviluppo.
L’homo oeconomicus (…) incarna un’idea della ricchezza quantificabile che è l’antitesi del senso della pienezza delle società «povere». In queste ultime, le fonti della ricchezza non possono essere separate, estratte dalle relazioni umane vissute, dai doni e dai controdoni che formano la trama di un mondo di intersoggettività condivisa.
Le donne e gli uomini che sussistono con i propri mezzi, quelli il cui modo di vivere è in presa diretta con la natura e per conseguenza dà vita a una civiltà materiale di per sé sostenibile (…senza ambulanze del progresso) hanno un margine di sperimentazione limitato in estensione, ma profondo e vissuto intensamente. Ogni sapere è per loro un saper fare e un saper vivere ma anche un sapersi trattenere, saper non fare. Ogni conoscenza ha un diritto e un rovescio, un pieno e un vuoto. Scienza e prudenza sono qui indissociabili.
Per avere un’idea di ciò che significava essere poveri in un passato tutto sommato ancora recente, occorre sforzarsi di concepire l’esistenza di un terzo ambito, né pubblico né privato (…). Questo ambito, che si apre al di là della soglia di casa, è un luogo di sussistenza mantenuto indenne dalle attività economiche nel senso moderno del termine. Gli usi definiti comuni o comunitari potevano riservarsi qui le radure o il margine dei boschi, là la rete disgenata dai percorsi delle carriole (…) potevano essere luoghi ben definiti o disposizioni culturali. Tra queste, fondamentale era la regola di protezione della sussistenza del più debole (…), tuttora la regola nella maggior parte delle società povere, non ha nulla a che vedere con quella che oggi chiamiamo assistenza pubblica (…) perché presuppone l’esistenza di ambiti comuni di autonomia e gratuità (…). Questi ambiti comuni sono luoghi nei quali il più povero trova dove preparare il proprio cibo o allevare qualche animale, mentre lo spazio pubblico moderno è in generale dedicato alla circolazione delle merci.
La sussistenza, che è un concetto molteplice e irriducibile a qualsivoglia denominatore comune formalizzabile, è stata formalizzata, cioè matematizzata a forza per costruire con i suoi cocci una scienza economica formalmente basata sull’assioma della scarsità. Da scienza della gestione della casa come era per Aristotele, l’economia è diventata scienza matematica dell’allocazione delle risorse scarse a fini non «alternativi», cioè non limitati (…). I poveri in procinto di cadere nella miseria sono gli esclusi di questa formalizzazione sfrenata (…) si vedono loro stessi matematizzati, ridotti a una cifra: «due dollari al giorno», per esempio (…). Erigere i saperi-empirici della sussistenza a campo autonomo e sovrano, e sottoporli alla formalizzazione matematica, corrisponde prorio alla logica di un episteme di dominio e di colonizzazione degli spazi vernacolari ancora autonomi.
Per Michel Faucault l’episteme è il corpo di idee che inquadra e modella la percezione e i saperi propri a una particolare epoca (…). L’episteme dei poveri e quella che è propria dei dispositivi di dominio parte, in verità, da una distinzione più generale fra due tipi di espisteme: quelle che rappresentano l’insieme delle conoscenze e delle pratiche messe in atto da un gruppo sociale in un dato periodo per comprendere la realtà e agire su di essa, e quelle il cui obiettivo principale è lo sviluppo, da parte di una minoranza, di tutti i saperi necessari al mantenimento di un potere di intervento sul campo di possibili degli altri per diminarli e proteggersi contro ogni minaccia a quanto conquistato. Una episteme del primo tipo (…) è quel che abbiamo chiamato l’episteme dei poveri, insieme delle conoscenze principalmente orientate verso la ricerca di una via conviviale e sobria. Il secondo tipo di episteme che abbiamo chiamato «episteme di dominio», rappresenta al contrario l’insieme dei saperi e delle pratiche di gruppi dominanti e privilegiati preoccupati di mantenere i privilegi (…). Consideriamo le forze epistemiche presenti nel paesaggio delle lotte sociali e politiche di questo primo decennio del nuovo secolo. Da un lato c’è l’efficacia di saperi insorti come quelli dei Sem Terra in Brasile, degli zapatisti in Messico o di quel vasto movimento di contadini che rifiutano di sparire che è Via Campesina; dall’altro, la controffensiva dei saperi inglobanti corazzati di autogiustificazioni (…). Tutte le acque sembrano scorrere verso il mulino del pensiero formalizzato e inglobante, cioè totalitario. Ma in tutti i fiumi esistono dei punti, in genere vicino alla riva, dove l’acqua scorre controcorrente.
Quel che spesso la storia dei movimenti rivoluzionari nasconde è la somma di saperi storici, locali, pertinenti, sovente adeguati, scarificati sull’altare dell’utopia. È il rinvio della felicità a dei domani che canterebbero se solo arrivassero, ma il cui concretizzarsi è impedito dalla tristezza violenta inerente al progetto di un «avvenire» rivoluzionario programmato.
Movimenti inediti, i Sem Terra del Brasile, gli zapatisti del Messico, gli Insoumis del Maghreb si sono messi in movimento, suscitando riflessioni radicalmente nuove sulle sfide dei cambiamenti sociali. Questi movimenti hanno messo in luce fatti semplici, ancorati nel campo del quotidiano, rispetto ai quali i modelli rivoluzionari anteriori si erano mostrati ciechi. Questo ritorno al quotidiano è rivoluzionario quando consente a una percezione ragionata dell’intollerabile di sfociare in azione. Al contrario, i grandi schemi che promettono la libertà in un futuro incerto che occorre aspettare con pazienza fanno dell’azione rivoluzionaria un monopolio radicale che solo una fazione, un partito o un governo che agiscono «in nome del popolo» oseranno esercitare (…). Che avvenga di colpo o che sembri emergere da una maturazione progressiva, il cambiamento è spesso il prodotto di azioni che mirano a realizzare disegni limitati (…). Il divenire rivoluzionario naviga tra il pericolo di manipolazione dall’esterno e il pericolo dello scoraggiamento interiore di fronte alla difficoltà di un’azione intelligente che, in più, non porta ricompense visibili a chi ha il coraggio di sostenerla (…). I veri autori di ogni cambiamento rivoluzionario degno di questo nome sono sempre dei divenire rivoluzionari molteplici che, per natura, non possono essere detenuti e controllati da uomini di potere (…). Una delle minacce principali che pesano su ogni divenire rivoluzionario è che esso rappresenta una fonte di potere.
[Nella foto in alto, uomini e donne del movimento degli slum sudafricani, Abahlali base Mjondolo; nella seconda foto, un anziano del Movimento brasiliano dei Sem terra].
[Gli autori di questo articolo sono stati collaboratori di Ivan Illich]
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