Abbiamo bisogno di combattere la cultura della morte. Nel tempo dello sconforto e dell’angoscia per il dominio del nazismo, Mirò tradusse il suo disagio e la sua rabbia in un linguaggio poetico e sorprendente, un dialogo con il cielo in ascolto. La serie delle Costellazioni sono prima di tutto un modo con il quale cercare un mondo senza oppressioni. “Non importa se nel presente siamo perdenti – scrive Emilia De Rienzo -, noi camminiamo seminando parole e azioni. E non ci fermeremo. Con i nostri colori contro il grigio e il nero della guerra. Guardando appunto il cielo per non lasciarci sopraffare…”
Ci vogliono esempi positivi, persone che ci aiutino a non perderci nello sconforto e nella disillusione, che ci regalino il coraggio ad attraversare periodi troppo duri da sopportare, in cui cadono certezze, speranze e tutto si colora di grigio se non di nero: i colori della guerra. Uno di questi è Mirò. L’arrivo del nazismo e il pericolo della guerra destarono in lui una profonda inquietudine e angoscia, proprio come credo capita a chi la guerra la subisce e non la vuole. Seppe affrontare il suo disagio e malessere con la sua arte che si tradusse in un linguaggio poetico e sorprendente, un dialogo con il cielo in ascolto. Iniziò, infatti, a dipingere la serie delle Costellazioni, frutto di uno spazio interiore in cui non c’era posto per la guerra, per la morte, per le lacrime e per la disperazione, ma per qualcosa di vasto, imponente, più grande; di fronte al cielo l’uomo è nulla. Lo stesso artista affermerà: «Sentivo un profondo desiderio di evasione. Mi rinchiudevo liberamente in me stesso. La notte, la musica e le stelle cominciarono ad avere una parte sempre più importante nei miei quadri».
Miró voleva portare sotto gli occhi di tutti i veri valori dell’esistenza umana, valori così pieni di colore, di vita, di speranza che nemmeno il conflitto più sanguinoso della storia avrebbe potuto cancellare, nonostante la brutalità e la crudeltà degli uomini: “Ciò che conta non è tanto un’opera, ma la traiettoria dello spirito che attraversa la totalità della vita, non ciò che si è riusciti a fare durante il suo corso, ma ciò che essa lascerà ad altri in un giorno più o meno lontano“.
E questo desiderio di spazi di vita, di desiderio di combattere la cultura della morte, ci viene proprio di lì, dall’essere consapevoli che non siamo nulla in confronto a tutto l’universo in cui siamo inseriti, di cui dovremmo godere, invece che giocare a chi è più forte facendoci del male. Perché ha ragione Mirò, guardare il cielo, lasciarsi prendere dall’infinito in cui siamo immersi, ci dà la dimensione di una grandezza con cui non possiamo e non dobbiamo competere. Quando lo facciamo produciamo disastri e miniamo la nostra stessa esistenza. Credo che molti uomini non sopportino l’idea che abbiano dei limiti, che siano soggetti a una fragilità da cui vorrebbero sottrarsi solo esibendo la loro “forza muscolare”. Certo sentirsi padroni della vita di tanta gente, può seppellire quel niente che sei. Scrive Joan Miró: “Lo spettacolo del cielo mi sconvolge. Rimango sconvolto quando vedo, in un cielo immenso, un quarto di luna o il sole. Del resto, esistono nei miei quadri delle forme piccole in grandi spazi vuoti. Gli spazi vuoti, gli orizzonti vuoti, le pianure vuote, tutto ciò che è spoglio mi ha sempre fatto molta impressione”.
La guerra ha indubbiamente i suoi effetti su di noi, e provoca dentro le nostre menti e nei nostri cuori, e può lasciare ferite indelebili, e soprattutto mette in atto sentimenti tutti forti e spesso negativi. L’angoscia è uno stato d’animo che si muove dentro molti di noi di fronte all’orrore a cui assistiamo anche se ancora da lontano. Stato d’animo che si impadronì anche della mente di Mirò: “A quest’epoca ero molto depresso. Credevo che la vittoria dei nazisti fosse inevitabile (…) ed ebbi l’idea di esprimere quest’angoscia tracciando segni e forme sulla sabbia, in modo che le onde li trascinassero via istantaneamente o creando sagome e arabeschi nell’aria come fumo di sigaretta, che poi sarebbero saliti in alto avrebbero accarezzato le stelle (…)“.
Avverte la difficoltà di esprimersi e di reagire. Era stato il padre, appassionato di astronomia, che gli aveva insegnato a osservare il firmamento con il telescopio. Il 21 gennaio del 1940, nel suo isolamento a Varengeville sur Mer Mirò comincia a dipingere le 23 Costellazioni. Sul bisogno di imparare a evadere dalla realtà scrive: “Il gioco delle linee e dei colori, se non pone a nudo il dramma del creatore, è soltanto un passatempo borghese. Le forme che l’individuo inserito nella società esprime devono svelare il moto di un’anima protesa a evadere dalla realtà presente, oggi particolarmente ignobile, poi devono approssimarsi a realtà nuove, e infine devono offrire ad altri uomini un‘opportunità di elevazione. Per scoprire un mondo abitabile, quale marciume occorre spazzar via! Se non ci impegniamo a scoprire l’essenza religiosa, il senso magico delle cose, non faremo che aggiungere nuove fonti di abbrutimento a quelle, già immani, offerte oggi ai popoli”.
Un invito di uscire dalla brutalità della realtà per andare “oltre”, per immaginare “altro”, per offrire altre visioni, altre possibilità. Per non perdere la propria anima, la propria umanità, per non lasciarci travolgere dalla negatività, dal senso dell’impotenza che annichilisce e paralizza ogni nostra azione, ogni nostro pensiero e quindi inchiodarci per sempre a un mondo brutale che esiste, è lì, ma un giorno potrebbe essere sconfitto. Per non perdere quella magia, quell’incanto del mondo che ci parla di armonia e ci indica la strada… nello sguardo del cielo. “Dopo aver lavorato (ai dipinti ad olio) intingevo i pennelli nella trementina e li pulivo sui fogli di carta bianca dell’album, senza alcuna intenzione premeditata. La superficie assorbente della carta mi metteva in uno stato d’animo positivo e suscitava la nascita di forme, figure umane, animali, stelle, il cielo, la luna, il sole. Le disegnavo a carboncino con tratti vigorosi… Avevo dato ai miei dipinti dei titoli molto poetici perché così avevo deciso e perché tutto ciò che mi restava, allora al mondo era la poesia”.
Con questi dipinti l’artista trova la sua dimensione. C’è sempre la donna, la sua fedele compagna, e i cerchi che evocano l’armonia e l’uccello che significa libertà. I colori puri sono il verde, il giallo, il rosso e il nero, i colori della natura.
Sopravvive così a un decennio d’angoscia e paura. senza perdere la sua forza interiore nonostante l’angoscia.
Passage de l’oiseau divin
Nel maggio del 1940 i nazisti bombardarono la Normandia e Miró si rifugiò a Palma di Maiorca con il cuore pieno di angoscia. L’ultimo dipinto della serie ebbe come titolo Passage de l’oiseau divin. Nel frattempo era tornato a casa, a Mont-roig, dove tutte le notti contemplava il cielo con il telescopio del padre. «La gente capirà sempre meglio che aprivo porte su un altro avvenire, contro tutte le false idee, tutti i fantasmi», dirà più tardi.
In un discorso all’università di Barcellona, nel 1979, sulla responsabilità civile dell’artista, Miró ha detto: «quando un artista parla in un contesto dove la libertà è difficile, deve trasformare ognuna delle sue opere in un rifiuto dei divieti, in una liberazione da tutte le oppressioni, i pregiudizi e tutti i falsi valori ufficiali».
Forse non siamo artisti, siamo persone comuni in cerca della pace, dell’uguaglianza, del benessere non solo materiale, ma quello dell’anima, dello stare bene insieme, del prendersi cura dell’altro, del dialogo, dell’ascolto, del dubbio e opponiamo, a volte inutilmente, il nostro “no” a ogni sopraffazione dalla più piccola alla più grande. Non importa se siamo nel presente perdenti, noi camminiamo seminando parole e azioni. E non ci fermeremo. Con i nostri colori contro il grigio e il nero della guerra. Guardando appunto il cielo per non lasciarci sopraffare.
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