di Sara Forcella
Tanti degli equivoci che nascono nel confronto con i migranti, e persino nelle pratiche relative alla loro accoglienza, sono indubbiamente legati ad un difetto nella percezione verso chi si ha di fronte: al mancare, cioè, di una visione nitida che da un lato non dimentichi che un essere umano è sempre tale per la propria storia personale, con la sua specificità. Dall’altro, non rinunci alla sfida del comprendere – senza appiattire – le eventuali differenze, perché queste non vengano distorte e, come spesso accade, rimpicciolite, fino a diventare un minus dell’altro. Cimento, quello del conoscersi a fondo e del capirsi, che in verità si propone nella vita di ciascun individuo ad ogni nuovo incontro, al di là della provenienza geografica dello sconosciuto. Tuttavia, quando la distanza aumenta, i fattori che entrano in gioco nella dialettica si moltiplicano, fino ad impedire un confronto sincero e, talora, il rapporto stesso con l’altro.
Se oggi le discriminazioni si giustificano meno su basi biologiche, come dice Barbujani il razzismo odierno è culturale, perché spaventano da morire uno sguardo sul mondo o un sistema di tradizioni che sembrano essere irrimediabilmente lontani. Perciò, se non è la diversità fisica a generare a prima vista una percezione fuorviante, è allora la difficoltà a leggere tra le righe dell’appartenenza a contesti culturali differenti, un percorso di vita che ha per tutti le stesse tappe, sebbene possa esprimersi attraverso linguaggi e rappresentazioni diverse. In ciò, confluiscono ideologie sbagliate, istanze culturali, a volte i propri fantasmi. Per disegnarsi nella mente l’esatta immagine dell’altro, occorre, allora, essersi liberati dei propri spettri o di quelli che la realtà in cui siamo immersi ci propone. L’obiettivo è sempre quello di raggiungere un dialogo profondo, l’unico in grado di andare oltre le possibili diversità, spesso di poco conto ai fini della comunicazione. L’unico che valga la pena, e l’altro lo sa bene, di ascoltare.
Le reazioni nei confronti di un ragazzo africano, o verso chi viene da (troppo) lontano, e lo fa senza soldi in tasca o senza titoli da poter presentare, sono variegate. C’è quello che odia, l’altro che fa finta che i migranti non ci siano, chi si arma di pietismo. E poi ci sono quelli dell’inclusione e dei buoni sentimenti senza cognizione di causa, che credono basti una carezza sulla testa, perché, in fondo, i migranti si accontentano di poco, senza rispetto per l’intelligenza e l’esperienza di vita di un adulto, senza offrire stimoli e opportunità. Basta, in fondo, trovare il mondo di fargli passare il tempo, quel tempo che il sistema di accoglienza italiano continua a non saper gestire. Spesso, offrire una spalla dove piangere insieme, è il massimo che si riesce a fare, confidando in un miracoloso effetto catartico che finisce, però, per istupidire gli altri: come una pacca data senza speranza, che suona al pari di una condanna per il resto della vita.
Invece le cose non stanno così. Le persone non cercano consolazione (ci arrivano solo dopo anni di assistenzialismo), nessuno vuole essere accudito e dipendere dagli altri.
Ciascuno vorrebbe vivere dignitosamente, secondo le proprie prospettive: questo gli esseri umani sempre cercano e inseguono, per tutta la vita. Questo è quanto bisogna sempre tenere bene a mente, quando ci si impegna con i migranti.
Chérif Seckouna Kandé è un richiedente asilo, cittadino senegalese, arrivato in Italia da poco più di un anno. Nella video-intervista tocchiamo insieme a lui vari temi: il razzismo, il colore della pelle, la diversità di pensiero, la scuola, l’importanza della conoscenza, la società, le differenze; e poi il tempo che le persone trascorrono dentro i centri di accoglienza. Da una breve e informale conversazione estiva, rigorosamente in italiano, nascono riflessioni, frutto di domande complesse e risposte stimolanti. Un confronto diretto che va alla ricerca di idee nuove, al di là di un orizzonte politico che sembra dimenticare il fattore umano.
«Sì, ma c’è l’uomo», diceva Camus. “L’uomo è l’uomo”, ribadisce Chérif nell’intervista. Sempre come Essere Umano di qualunque “genere” sia.
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