L’emergenza Covid-19 viene gestita e raccontata dall’alto con il linguaggio della guerra. La prima conseguenza è sottrarre la situazione all’indagine sulle cause. La seconda è un rinnovato protagonismo dello Stato, anche simbolico, per regolamentare e controllare la vita di ogni giorno delle persone comuni, ma prima di tutto per proteggere i signori del profitto. Tuttavia, su larga scala nascono inaspettate vie di fuga, tutte ancora da rafforzare. Azioni collettive come cooperare, curare, creare mondi autonomi diventano antidoti alla solitudine e all’emarginazione. E rigettano l’idea che esista un’unica articolazione, quella dello Stato, per organizzarsi. “Non resta che continuare a lottare – scrive Alice Dal Gobbo -, forti del fatto che alla nichilistica battaglia per la sopravvivenza contrapponiamo la costruzione gioiosa della vita”
Appunti da un incantato spaesamento
Pare che uno dei modi in cui viene più facile pensare l’emergenza Covid-19 sia quello della guerra. Vale per il governo italiano, per la comunità internazionale, per giornalisti e illustri filosofi. D’altronde, le premesse ci sono tutte: un nemico, le comunità aggredite, i buoni e i cattivi, lo Stato e lo stato di eccezione, l’emergenza, persino una crisi economica (non solo quella che si prospetta, ma quella che era già in atto). E poi i proclami: nulla tra di noi, “dopo”, sarà più lo stesso. Anzi, secondo questa rappresentazione, il mondo è già cambiato, bisognerà adattarsi al sacrificio di libertà, alle nuove forme di controllo e di organizzazione della quotidianità, del lavoro, della socialità. Questa consapevolezza avrebbe dovuto diventare sommessamente e stabilmente parte del sentire comune, sostenuta da apparati di comunicazione che si muovono compattamente a livello globale. Ma non sembra che sia così facile convertire a una rappresentazione la materialità delle nostre vite – il dolore, la speranza, la solidarietà.
Da dentro il tempo e lo spazio sospesi della quarantena, la narrazione di guerra comincia a essere oggetto di una critica esplicita, soprattutto da parte delle realtà e dei movimenti che delineano alternative socio-ecologiche e politiche. La narrazione incentrata sulla guerra e sul ritorno alla normalità è il problema, perché sottrae la situazione attuale all’indagine sulle cause, a una riflessione sul futuro e alla critica ai modelli sociali che ci hanno portato a questo punto. Ora che, per ironia della sorte, un nemico invisibile rende più visibili i rapporti di forza in campo, tornare alla “normalità” pre-crisi appare anche impossibile, non più solo poco auspicabile. La crisi, i morti, l’asimmetria con cui si distribuiscono le difficoltà quotidiane o le possibilità di cura, ci stanno mettendo di fronte a un bivio, in un modo così diretto e profondo da non consentire molte vie di fuga. Da una parte c’è il tentativo disperato di serrare i ranghi di un sistema moderno-capitalista ormai allo sfascio: intensificare l’esistente per riprendere il controllo. Dall’altra c’è l’idea che bisognerà cambiare completamente il nostro modo di vivere, le categorie con cui abbiamo costruito il mondo. Tornare alla normalità significa compensare una crisi economica, sociale, politica e di relazioni dentro lo stesso schema di sfruttamento esasperato che ci ha portato a questo punto. Ma la narrazione di guerra non potrà nascondere la realtà e i bisogni materiali, non potrà giustificare le diseguaglianze che la crisi ha contribuito ad acuire. Su larga scala nascono linee di fuga che si oppongono alla distruzione e le potenzialità presenti di trasformazione radicale sono sempre tutte da scoprire, interrogare, sperimentare. Emergono e si rafforzano proprio nel contesto più estremo della crisi.
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La modalità della guerra
Il palesarsi della Covid-19 ha catapultato tutte e tutti dentro una dimensione di vita apparentemente nuova. Torniamo alla narrazione ufficiale, quella di uno Stato che si fa sempre più presente nella quotidianità, vi entra con dispositivi di sorveglianza e di controllo, di sicurezza, ma anche a livello simbolico. È la guerra che lo giustifica: lo Stato chiama a raccolta tutti i suoi membri, i “cittadini”, affinché si compattino contro un nemico invisibile. Ognuno deve fare la propria parte, essere responsabile. Si tratta però di una strana “responsabilità”, quasi paradossale. È di tutti, ma ognuno la esercita individualmente; chiama le persone a combattere attivamente, ma è tutta fatta di divieti. Le direttive e i decreti di istituzioni pubbliche, spesso lontane e astratte, dettano l’interpretazione morale di ciò che è giusto e sbagliato, infiltrando la vita anche nei suoi aspetti più intimi. E seppure questa nuova moralizzazione di massa mira a far sì che i singoli si comportino in modo “adatto” agendo da sé, in un autodisciplinamento che non richiede interventi esterni, il governo dispiega un vero e proprio apparato di guerra – droni, esercito, polizia, controllo digitale – per assicurarsi che lo facciano. Non si tratta di un’eccezione, ma di un’intensificazione di schemi di funzionamento tipicamente moderni: la governamentalità biopolitica è caratterizzata dall’idea che esistano degli individui astratti e istituzioni che li integrano dando una forma appropriata ai corpi, alle abitudini e ai simboli. D’altronde, la narrazione – tutta europea e maschile (leggi anche Stragi, guerre e orrori privati hanno un sesso di Lea Melandri, ndr) – sullo Stato moderno inizia proprio dalla guerra. Prima c’era lo stato di natura, la guerra di tutti contro tutti, la perpetuazione della vita dipende da un qualcosa di superiore che la governi e la controlli togliendole un po’ di libertà: non riusciremmo a sopravvivere senza una forma paternalista di regolazione.
Ma in cosa può consistere davvero questo rinnovato protagonismo dello Stato nel quadro della crisi del capitalismo globale? Come si situa la narrazione dell’intervento per la salute pubblica di fronte alla realtà dei decreti d’emergenza? Sembra evidente che nonostante scioperi e proteste, la produzione nelle fabbriche e nei call center, la distribuzione delle grandi catene e l’intero apparato della logistica anche per i prodotti non essenziali, siano state quanto più protette e garantite. La digitalizzazione delle comunicazioni, del lavoro, dell’istruzione, è stata realizzata tutta a favore delle grandi piattaforme private (leggi anche Il dominio di Big Tech, di Davide Lamanna). Mentre si manda qualche milione di persone al lavoro, spesso su mezzi pubblici affollati, si chiudono i parchi e criminalizzano le attività all’aria aperta. Il pericolo si identifica nell’azione individuale “irresponsabile”. Un conflitto sociale sempre più profondo si diluisce in un proliferare di piccole campagne private falsamente unificate dall’appello al sacrificio collettivo. E mentre è chiaro che le premesse della pandemia sono state poste dal degrado degli ecosistemi e dall’inquinamento prodotti da attività industriali e agroindustriali capitaliste; nella guerra tutto si riduce a un antagonismo tra esseri umani e un “singolo” ente biologico – per altro aprendo potenzialità di ulteriore profitto (vaccini, privatizzazione delle cure).
Nel favorire la circolazione e l’accumulazione di capitale, il governo dell’emergenza agisce per disciplinare, e non per salvaguardare, la salute e la libertà collettive. È ovvio che siamo ancora dentro al grande progetto neoliberale e che il “bene superiore” è la tenuta del sistema. E, certo, le modalità di questa “guerra al virus” hanno il vantaggio di evitare la problematizzazione del regime socio-ecologico contemporaneo. C’è però da domandarsi per quanto ancora tutto questo sarà possibile, per quanto si potrà nascondere la selezione sociale che si sta perpetuando. Il fatto che l’irruzione violenta del biologico, del virus, rischi di portare il sistema al collasso è già di per sé espressione del fallimento di un sistema che per secoli ha preteso di potersi appropriare di tutto, di poter manipolare e sfruttare a piacimento la biosfera. Le rivendicazioni per il diritto alla salute dei lavoratori (oggi, come in passato) esprimono la fondamentale incompatibilità tra logiche di riproduzione e logiche di valorizzazione, tra vita e accumulazione capitalista. Le differenti lotte contro la precarietà suggeriscono inoltre che lo sfruttamento generalizzato è seriamente insostenibile e lo è su larga scala. Nel frattempo lo Stato, molto più che rafforzato, sembra indebolito da un nemico che non si può più né pensare né gestire all’interno del suo schema vetusto, fatto di confini, esclusioni geografiche e sociali, “sovranità”. Perfino la sua chiamata all’“unità nazionale” si traduce in una frammentazione del tessuto sociale: buoni e cattivi, privilegiati e meno privilegiati, civili e incivili, immunizzati e untori. La linea tra amico e nemico si spezzetta e frastaglia in una moltitudine di confini interni, finché si perde completamente di vista che cosa sia, in fondo, ciò contro cui combattere. Si combatte e basta.
Le modalità della ricostruzione
L’incapacità di risposta, l’acuirsi della repressione e del controllo, di varie forme di immunizzazione biologica e sociale, le piccole libertà negate a fronte della riorganizzazione massiva dei processi di valorizzazione… Tutto ciò evidenzia la violenta debolezza di un sistema che non accoglie ma combatte l’alterità, rende visibile l’isolamento e inutili i tentativi di contrapporre il progresso alle esigenze materiali. Non basteranno l’innovazione tecnologica e il potenziamento delle catene distributive a supplire alla necessità di incontrarsi.
L’emergenza può produrre come risposta anche una completa ridiscussione del modello moderno-capitalista di organizzazione socio-ecologica. Emergono in modo deciso forme di mobilitazione creativa, dentro cui un grande bagaglio di abilità organizzativa, contatti, proposte diventano nuovi strumenti di sussistenza in risposta alla crisi. Le brigate volontarie di emergenza, per esempio, sono anche antidoti alla solitudine, all’emarginazione, al semplice stato di necessità in cui molte persone erano state abbandonate. Il proliferare di assemblee e movimenti che rivendicano la costruzione di forme di economia più giuste, le campagne per il diritto alla salute, che si fondono con le istanze ecologiste, le reti di economia solidale. Anche il semplice e quotidiano occuparsi di altri esseri umani e non umani, l’orrore per le diseguaglianze che continuano a rinforzarsi, il desiderio di una socialità liberata e di una capacità di scelta autonoma sono diventate forme di resistenza. Tutte queste mobilitazioni possono tracciare attivamente il secondo lato della biforcazione: proporre modi radicalmente diversi di vivere e organizzarsi.
La precarietà ecologica e sociale che la pandemia evidenzia è il frutto di sistemi basati sullo sfruttamento e l’oppressione degli esseri umani su altri esseri umani e sul resto della biosfera. La sua gravità non lascia più spazi: il cambiamento deve essere radicale e rifiutare qualsiasi pratica di dominio. La visione della vita come guerra giustifica rapporti oppressivi in nome della sopravvivenza: la società è in lotta con una “natura” ostile e per questo la deve assoggettare; gli individui mirano all’appropriazione e possono solo essere parzialmente contenuti da istituzioni superiori che ne tengano a bada la voracità. In questo quadro la libertà è sempre negativa, si può esperire solo nonostante le limitazioni imposte dal vivere sociale, politico, ecologico. Costruire percorsi di cambiamento implica porre le basi materiali e simboliche perché vita e libertà siano altro: cooperare, curare, costruire in modo autonomo, collettivo, immanente, forme di esistenza autodeterminate. Esse rigettano l’idea che esista un’unica articolazione possibile della democrazia e che le forme prevalenti finora, come lo Stato, siano le uniche possibili. La responsabilità qui non è auto-limitazione in nome di una legge astratta: è pratica di risposta, sensibile, all’altro concreto – alla necessità, al desiderio. Ma la nostra responsabilità rimane soprattutto quella di lottare contro un sistema che sacrifica costantemente la vita al profitto.
La risposta sarà violenta e dura. Per una macchina da guerra divenuta ipertrofica, il nemico può improvvisamente diventare “non specificato, multiforme manovratore e onnipresente”. Non più soltanto il virus, ma qualsiasi oppositore dell’ordine costituito. Per questo fa paura la grande sperimentazione che sta avvenendo nella gestione dell’emergenza: la macchina, ora così ben equipaggiata, non si ferma facilmente; il nemico nell’emergenza continua sempre a proliferare; tutti noi siamo sulla linea di confine che separa l’essere vittime dall’essere il nemico. Non resta che continuare a lottare, forti del fatto che alla nichilistica battaglia per la sopravvivenza contrapponiamo la costruzione gioiosa della vita.
Alice Dal Gobbo, sociologa e ricercatrice presso l’Università di Trento.
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