La violenza è più forte e pervasiva di quanto comunemente si creda. La completa liberazione dalla violenza è una meta in continuo movimento, è un percorso, non esistono modelli. Di certo, il rifiuto delle logiche di dominio verticale resta prima di tutto una liberazione dal dominio economico: è in questo orizzonte che si profila la speranza di vivere oggi lo spazio umano secondo relazioni sociali orizzontali

di Alessandro Pertosa*
Per quanto si provi a liberare il linguaggio dalle strettoie del dominio, il rischio di fare del bene ricorrendo alla violenza, seppure in modo inconsapevole, è sempre dietro l’angolo: e forse proprio quando il desiderio di sopraffare l’Altro matura senza consapevolezza, perché non si riconosce come tale, anzi vorrebbe apparire addirittura liberante, ecco quando un tale desiderio si manifesta, lo fa al massimo della potenza, non ha quasi rivali, perché appare più subdolo e sfuggente. Il linguaggio, allora, persino nel dialogo salvato dalla pretesa di dire il vero presenta insidie costanti e rischia ogni momento di trasformarsi in lògos di guerra.
I parlanti possono farsi del male nonostante si amino, ferirsi mentre si abbracciano, dominarsi a vicenda proprio quando pensano invece di liberarsi l’un l’altro, dichiararsi la guerra mentre predicano la pace. Il desiderio di sottomettere l’altro, di sottometterlo magari per fargli del bene, è infatti il male radicale dell’Occidente, è quel male che uccide senza accorgersi del livello di brutale predominio espresso dal soggetto anche quando desidera rivolgersi al bene, o a qualcosa che suppone tale.
La violenza è pervasiva
Per spezzare la catena che lega l’uomo al male radicale – e per immaginare quindi una eradicazione di questo stesso male – è indispensabile avere la consapevolezza che la violenza è più forte e pervasiva di quanto comunemente si creda. La ragione di ciò non va rintracciata nella supposta propensione naturale dell’uomo a fare del male, quanto piuttosto nell’incapacità del singolo di concedere al suo interlocutore uno spazio vitale autonomo, di lasciargli la sua libertà di scelta. E proprio per questo motivo anche «fare il bene» – ammesso ma non concesso che «fare il bene» sia possibile, e soprattutto che esista un unico bene universalmente riconosciuto – può uccidere con violenza: e in senso ancor più radicale, «fare il bene» uccide proprio perché è un fare che vuole salvare l’Altro ad ogni costo, uccide perché vuole disperatamente l’amore dell’Altro, che però non ha alcuna intenzione né di farsi salvare, né di essere amato nel modo in cui l’Io-dominatore(inconsapevole) lo desidera.
In questo volere oltre ogni misura il bene per l’Altro (e il bene voluto per l’Altro è un bene soggettivo, individuale, perché colto a partire da un certo punto di vista: ma nel momento in cui propongo all’Altro un bene che ritengo assoluto – un bene oltre misura – l’Altro subisce il dominio di questo mio bene parziale imposto come universale) si nasconde la forma radicale della violenza che si insinua fra le pieghe della realtà; violenza che penetra negli angoli più reconditi della coscienza umana, violenza che sembra quasi impossibile da estirpare, che assume atteggiamenti camaleontici e talvolta prende per l’appunto in modo subdolo la forma di ciò che gli si oppone con maggiore nettezza, l’amore. Sì perché, se l’uomo non si libera dalla colpa originaria di voler imporre la sua visione all’Altro, quand’anche desideri salvare l’umanità intera dal male che vede dilagare, trasforma il suo desiderio d’amore in autentica tirannia. Perché la potenza che esprime quel desiderio amoroso impone con violenza e senza condizioni – è per l’appunto incondizionato – agli interlocutori e alla realtà di diventare altro da ciò che sono, di trasformarsi in altro: l’amore dice all’odio che deve morire; l’amore dice all’odio che non ha alcuna speranza di sopravvivergli; l’amore dice all’odio che l’amore deve vincere e l’odio perdere, perché l’amore è un bene e l’odio un male.
Fuori dalle logiche del dominio verticale
Ma se la realtà è odio e se l’interlocutore che si presume malvagio adora il conflitto, la potenza che vuole l’amore – la potenza che impone all’odio di morire nell’amore – dice alla realtà e all’interlocutore che bisogna volere ad ogni costo l’amore e non l’odio. Ma questo volere ad ogni costo, questo volere assolutamente l’amore, è il vero problema. Perché un volere siffatto può giustificarsi solo nella verità incontrovertibile, che è appunto assoluta e incondizionata, ovvero priva di condizioni, una verità che non scende a patti, che non lascia all’altro la libertà di dire «no», che non gli consente di affermare la sua preferenza per l’odio, e pretende quindi l’asservimento – ch’è un farsi servo – dell’odio agli scopi dell’amore. Ma proprio nel momento in cui l’amore domina l’odio imponendogli la sua subordinazione al bene, la violenza emerge di nuovo dagli abissi in cui si pensava di averla ricacciata e torna – semmai se ne fosse davvero andata – a svolgere il suo potere onnipervasivo.
Ciò avviene se il dialogo persiste nella guerra e segue la logica stringente del PNC (Principio di Non Contraddizione). Tuttavia, l’ho già accennato, anche il dialogo salvato, anzi anche il dialogo che si presume salvato, corre lo stesso rischio di far esplodere la violenza verbale. Chi opera linguisticamente nel «fondamento contraddittorio» deve allora tener sempre presente dinanzi a sé la possibilità della caduta fondamentalista del suo discorso, e non può dimenticare che per quanto si dialoghi seguendo il metodo della mutua comprensione e dell’inter-esse reciproco, la completa liberazione dal dominio è una meta in continuo movimento, perché la liberazione dalla tirannia è un percorso, una conquista che si ottiene lungo la via. Chi si ferma è perduto, elabora un’ideologia, un modello, un pensiero che si pretende fondato sulla roccia. E non c’è nulla di più pericoloso di un dialogo che formalmente si presume salvato dalla violenza e che invece parla con volontà di potenza violenta, che parla con una volontà violenta che vuole liberare dal dominio l’orizzonte dialogico, e nel farlo usa un linguaggio di guerra. Quando avviene ciò, il desiderio più altruistico, l’aspirazione più solidale, l’intenzione più fraterna, la condivisione più ampia diventano volontà di potenza incondizionate, volontà di organizzare il mondo secondo principi e scopi ritenuti «buoni» e «giusti» in assoluto, e non rappresentano affatto una visione relativa a un singolo aspetto, a una cultura o a luoghi parziali. Ma in quel contesto, anche se verbalmente si predica l’amore e la condivisione, le relazioni umane continuano a strutturarsi secondo logiche di dominio verticale. Non è certo quello lo spazio dell’eutéleia, né tanto meno la via di autentica liberazione dal dominio economico.
Giustizia distributiva e conviviale accesso alle risorse
Chi infatti continua a ragionare nell’ottica del potere dispotico, anche quando vuole la bontà e la giustizia, radica il proprio desiderio sulla verità incontrovertibile e non sul «fondamento contraddittorio», che è il fondamento del nostro parlare, è il fondamento di una parola fragile, titubante, utopica. Chi radica il suo linguaggio sulla verità incontrovertibile rischia di far rientrare dalla finestra il dominio che aveva tentato di cacciare dalla porta. Perché il volere che vuole in assoluto la salvezza dalla tirannia, l’uguaglianza fra gli uomini, la liberazione di tutti, la giustizia distributiva e un conviviale accesso alle risorse (e la «salvezza dalla tirannia», l’«uguaglianza fra gli uomini», la «liberazione di tutti», la «giustizia distributiva» e un «conviviale accesso alle risorse» vengono concepiti dal teorico della verità incontrovertibile come assolutamente volibili perché buoni oltre ogni condizione) è un volere che la realtà si organizzi in un certo modo piuttosto che in un altro, è un volere che esprime una potenza rigida, una potenza che non ammette smentita, e che in tal senso assume proprio le sembianze della violenza cieca.
Chi resta nell’orizzonte della verità incontrovertibile è costretto ad ammettere allora che dal dominio non si esce anche quando si vuole fare il bene, perché il solo tentativo di liberarsi dal potere che schiaccia il singolo dall’esterno verso l’interno, il solo desiderio di oltrepassare il potere dispotico, la mera aspirazione a rompere le imposizioni tiranniche provenienti dall’alto si configurerebbero a loro volta come dominio. Magari preferibile alla tirannia dei pochi sui molti, forse persino infarcito di buone intenzioni – così come la strada che conduce all’inferno – e finanche ispirato dalle idee migliori, ma resterebbe pur sempre un dominio, un volere dispotico che la realtà funzioni in un modo piuttosto che in un altro.
Proporre, non imporre
La via o le vie di liberazione dal dominio possono concretizzarsi realmente solo nel momento in cui il singolo individuo comprende che la sua volontà di potenza deve limitarsi a pro-porre e non im-porre una visione, perché la condizione relativa da cui matura la visione personale non consente alcuna universalizzazione di sorta. E allora se si esce dalla logica stringente del PNC (principio di non contraddizione), che costringe il linguaggio nel recinto della violenza, il discorso autenticamente salvato potrebbe manifestarsi come un dipinto o una sinfonia polifonica. La filosofia, a quel punto, si configurerebbe come «gesto estetico» e con la dovuta saggezza che la contraddistingue (la filo-sofia è infatti l’arte del sophós, del saggio, che si prende cura di ciò che è saphés, di ciò che sta nella luce) potrebbe davvero esimersi dall’esercitare violenza, assumendo come suo oggetto non la verità incontrovertibile, ma la buona conformazione del discorso, il cui obiettivo consisterebbe nella messa in discussione, con una certa coerenza logica (che non può avere alcuna pretesa oggettiva), dei pre-giudizi e del pensiero comune.
Un discorso coerente diverrebbe quindi un discorso filosofico presentato all’interlocutore: pro-posto e non im-posto nel dià-lógos. In questo senso la volontà di liberare il dominio assumerebbe il carattere di una relazione libertaria e non di una violenza ideologica che tende a produrre modelli buoni di libertà, conformati una volta e per sempre.
La speranza
La consapevolezza di non poter dire nulla con pretesa oggettiva spalanca le porte alla gloria pacifica della salvezza, libera il dialogo dalla barbarie della violenza e converte finalmente i lógoi di guerra in lógoi salvati dal dominio dispotico. Ma, attenzione, questi lógoi non sono mai salvati in modo definitivo, perché se lo fossero, ovvero se si dicesse una volta per tutte «questo, e solo questo, è il modo di liberare la parola dalla violenza» si cadrebbe di nuovo nel gorgo della violenza. La liberazione dalla violenza è infatti una promessa an-ideologica che dobbiamo rinnovarci insieme ogni giorno: ogni giorno dobbiamo volere – con volontà di potenza salvata dal dominio – che l’Altro esprima pienamente se stesso, e nell’esprimere se stesso, in virtù della comune esperienza di umanità, dobbiamo sperare e desiderare che l’Altro con cui siamo in relazione sarà capace di manifestare in se stesso e agli Altri la gloria dell’amore fraterno, nonché il tramonto definitivo della violenza dispotica. Violenza che nell’orizzonte dell’oikonomia in cui ci troviamo ha assunto ormai le sembianza gloriose della tecnica, che ora è davvero in grado di spalancare davanti ai nostri occhi le porte della notte.
Ma la gloria della tecnica e il buio della notte, è questo il punto, non sono un destino! Perché otre la nebulosa del presente, piagato dalla violenza del linguaggio economico e tecnologico, si profila, infatti, la speranza di riuscire ad organizzare lo spazio umano secondo dinamiche orizzontali che non medino rapporti di forza e di potere violento. Questo nuovo spazio umano è l’eutéleia; è uno spazio che illumina un immaginario popolato dalla fraternità di stampo evangelico (si tratta della fraternità che dona senza aspettarsi nulla in cambio, che dona gratuitamente se stessa senza risparmiarsi). Ma non è tutto, perché verso quell’orizzonte bisogna costantemente tendere con pratiche buone, convincenti, de-potenziate, frugali, sicché l’eutéleia assume la conformazione di uno spazio cosmico che cammina nel tempo sorretto sulle due gambe (ma sarebbe la stessa cosa dire, sulle due pratiche quotidiane) dell’anarchia e della decrescita.
Una scimmia un giorno vide, dall’alto di un ramo che sporgeva su un laghetto, un piccolo pesce che nuotava. Rimase a lungo a guardarlo, ed ebbe l’impressione che anche il pesce, girando la testa da un lato e dall’altro, rivolgesse lo sguardo verso di lei; tornò l’indomani, e ancora il pesce sembrò cercare di guardarla attraverso l’acqua, e lei scese su un ramo più basso. Per giorni e giorni la scimmia tornò a guardare il pesce che la guardava, e divennero amici; ma lei cominciò a pensare che quel pesce fosse prigioniero. Non poteva mai uscire da quel laghetto, non poteva far altro che nuotare là. A lungo la scimmia lo osservò, mentre il pesciolino nuotava allegro, muovendo la coda e guardandola ora con un occhio, ora con l’altro, finché un giorno la scimmia decise: “Non puoi vivere così”, affermò con certezza, “ora ti salvo io!”. Scese sulla riva, attese con calma che il pesce le si avvicinasse, lo prese delicatamente e lo portò con sé sull’albero, per mostrargli un altro punto di vista. Arrampicandosi sul tronco la scimmia parlava, parlava, contenta di poter indicare al pesce tutto ciò che lui non aveva mai visto prima. Solo quando si sedette sul ramo per mostrargli il laghetto dall’alto, si accorse che il pesce, senz’acqua, era morto.