L’accoglienza diffusa, attraverso la quale migranti e rifugiati sono inseriti in piccoli appartamenti e nel tessuto sociale, a differenza dei grandi Centri di accoglienza straordinari, si è dimostrata molto più adatta ad affrontare l’emergenza Coronavirus. Spiega Chiara Marchetti, sociologa: «La pandemia ha svelato – a chi ha saputo vedere – qualcosa che era già presente nelle nostre città e nei nostri paesi: riconoscere la comune vulnerabilità, anche di fronte alle tante disuguaglianze che attraversano le nostre comunità, ci può rendere reciprocamente più solidali e coesi. Molto più facile riconoscere che è già così a partire dall’esperienza di rifugiati e italiani “vicini di casa”, come avviene negli appartamenti Siproimi inseriti nel tessuto sociale e urbanistico ordinario, che non nell’isolamento – quello sì destinato a rimanere, anche alla fine della pandemia – di grandi centri collettivi»
Dal dossier Fare comunità. La pandemia e i migranti
Articoli di Andrea Staid, Annamaria Rivera, Daniele Moschetti, Roberta Ferruti, Caterina Amicucci, Chiara Marchetti, Manuela Vinay, Gianfranco Schiavone, Fulvio Vassallo, Sara Maar, Mauro Armanino, collettivo Malgré Tout
Sono anni che il dibattito sull’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati si divide tra i sostenitori di un approccio integrato e diffuso – incarnato storicamente nel Sistema Sprar – e i fautori di modelli emergenziali e securitari. Gli appartenenti a questa seconda categoria hanno avuto particolare successo a livello politico e mediatico, tanto da arrivare attraverso i noti decreti sicurezza (poi Legge 132 del 2018) a smantellare il sistema di accoglienza pubblico e a sancire la vittoria – speriamo provvisoria – dei Centri di accoglienza straordinari (Cas). In questi centri migliaia di richiedenti asilo (62.741 a fine aprile 2020) rimangono di fatto senza servizi e senza molti diritti, in attesa di un verdetto sulla loro domanda di protezione che sarà quasi sicuramente negativo come effetto dei già citati provvedimenti: nel 2019 le Commissioni hanno riconosciuto solo il 19 per cento dei richiedenti.
Ma che succede quando – forse per la prima volta nel nostro paese – i termini sicurezza ed emergenza si applicano non più (o non solo) alla gestione delle migrazioni, ma invece a un’epidemia in corso, come è accaduto nei mesi del Covid e del lockdown? La tutela della salute e della sicurezza sanitaria è diventata una priorità assoluta delle istituzioni e dei cittadini. Al di là delle valutazioni sulle politiche messe in atto per far fronte all’emergenza Coronavirus, è interessante guardare a come questa priorità si è concretamente tradotta nel mondo dell’accoglienza.
In primo luogo, si può rilevare che una volta in più si ha avuto riprova del fatto che grandi centri, con pochi operatori a disposizione e con scarsi strumenti di intervento, non sono assolutamente una soluzione adeguata per garantire una “buona” accoglienza. Ma nemmeno per offrirne una sufficiente: spariti i mediatori, spariti gli insegnanti di italiano, spariti gli operatori legali, spariti gli psicologi, spariti quasi tutti gli operatori con competenza multidisciplinari (come previsto dai nuovi capitolati dei Cas), chi si sarebbe dovuto occupare di informare adeguatamente gli accolti sui rischi per la salute loro e degli altri e i comportamenti da tenere? Chi si sarebbe dovuto preoccupare di tenere in qualche modo vive le giornate e occupare le tante ore svuotate di senso e di impegni? Chi avrebbe dovuto sostenere emotivamente coloro che avevano più paura e mostravano di patire maggiormente la chiusura e l’isolamento, quando i fantasmi dei traumi subiti tornano a bussare con prepotenza nella veglia e nel sonno? Chi si sarebbe dovuto prendere cura delle famiglie di rifugiati alle prese con la didattica a distanza, in assenza in molti casi di strumenti sufficienti per rispondere adeguatamente a queste nuove sfide educative e tecnologiche? Questi centri – così come è accaduto con ancora maggiore gravità negli hotspot, nei Centri per il rimpatrio e nelle carceri – non si sono rivelati posti sicuri: sicuramente non per gli accolti/detenuti, ma potenzialmente nemmeno per le comunità circostanti.
In secondo luogo, per contrasto, si può affermare che l’accoglienza integrata e diffusa ha avuto la sua piccola e parziale rivincita. In molti territori i servizi e gli operatori del sistema di protezione (ex Sprar, ora Siproimi, circa 22.000 posti attivi a fine marco) sono diventati dei presidi fondamentali per garantire informazione e formazione a distanza agli accolti (e non solo), anche nelle condizioni di distanziamento e isolamento imposti dal lockdown. A prima vista qualcuno potrebbe osservare che c’è poca differenza tra i centri che ho appena descritto e i progetti di accoglienza integrata e diffusa: anzi, paradossalmente i rifugiati che vivono negli appartamenti del Siproimi sono rimasti apparentemente più “soli”, dal momento che gli operatori non fanno un servizio di presenza e controllo ventiquattro ore su ventiquattro. Invece, nella maggior parte dei casi, è accaduto proprio il contrario. Gli operatori – in un numero proporzionalmente adeguato e qualificati per affrontare le sfide di una repentina ri-professionalizzazione imposta dalla nuova e inattesa situazione – hanno imparato a essere presenti “a distanza”, a riorganizzare i servizi e la tutela attraverso strumenti per lo più digitali, senza tuttavia rinunciare a pochi ma significativi momenti di prossimità in presenza. I rifugiati, da parte loro, hanno dimostrato complessivamente una grande responsabilità: adeguatamente informati e sensibilizzati, hanno avvertito nei loro confronti fiducia e riconoscimento, e forse per la prima volta – paradossalmente – si sono sentiti parte della medesima “comunità di destino” degli operatori e della comunità nel suo complesso. Non è un caso che si siano moltiplicate le telefonate degli accolti agli operatori: non per chiedere aiuto e assistenza, ma per informarsi sullo stato di salute dei loro interlocutori e delle loro famiglie. Così come sono stati molto diffusi gli esempi di rifugiati che hanno voluto attivarsi come volontari e portare aiuto e conforto agli italiani.
Questo articolo fa parte del dossier Fare comunità. La pandemia e i migranti, che raccoglie interventi di Andrea Staid, Annamaria Rivera, Daniele Moschetti, Roberta Ferruti, Caterina Amicucci, Chiara Marchetti, Manuela Vinay, Gianfranco Schiavone, Fulvio Vassallo, Sara Maar, Mauro Armanino, collettivo Malgré Tout
Il merito di questa forte condivisione di esperienze non può essere certo attribuito in toto al modello di accoglienza: i rifugiati e la loro soggettività hanno fatto la loro parte. Ma mi sembra interessante, per concludere, osservare che in questo periodo di grave crisi sanitaria proprio l’approccio dell’accoglienza integrata e diffusa ha dato conferma che non esiste sicurezza senza tutela e che non c’è una “protezione” che può essere garantita alle comunità locali senza essere garantita al contempo a chi viene da lontano: che siano rifugiati o altri migranti (come dimostrato dal tema della regolarizzazione). E la pandemia ha svelato – a chi ha saputo vedere – qualcosa che era già presente nelle nostre città e nei nostri paesi: riconoscere la comune vulnerabilità, anche di fronte alle tante disuguaglianze che attraversano le nostre comunità, ci può rendere reciprocamente più solidali e coesi. Molto più facile riconoscere che è già così a partire dall’esperienza di rifugiati e italiani “vicini di casa”, come avviene negli appartamenti Siproimi inseriti nel tessuto sociale e urbanistico ordinario, che non nell’isolamento – quello sì destinato a rimanere, anche alla fine della pandemia – di grandi centri collettivi.
Chiara Marchetti, docente di Sociologia delle relazioni interculturali presso l’Università degli Studi di Milano e di Sociologia della globalizzazione presso l’Università degli Studi di Parma, lavora nell’ambito della progettazione e della ricerca sui temi dell’asilo con l’Associazione CIAC Onlus di Parma.
Lascia un commento