di Alessandro Pertosa*
La radice dell’economia è il dominio, e la radice del dominio è la verità incontrovertibile che esige di abitare la violenza dell’Assoluto; è la verità che pretende di non lasciarsi mai contraddire, smentire; è precisamente quella verità che nutre, da Parmenide in poi, la prepotenza del linguaggio filosofico occidentale; è la verità che impone una sola visione sulle altre; è la verità che dice, anzi che si arroga il diritto di dire come stanno definitivamente le cose; è la verità che mette in campo strategie di esclusione e manifesta la volontà di potenza del più forte. È la verità che si pone nello spazio cosmico con la pretesa di annullare il divenire; è la verità pronunciata dall’homo technicus che vuole permanere in eterno e che per farlo pretende di spazzare via il tremendum della morte, supponendo di sconfiggere così la possibilità stessa della dispersione del proprio essere nel nulla: perché, è questo il retroterra culturale da cui origina il suo pensiero, l’essere che persiste nella verità incontrovertibile non scompare, non può scomparire, resta immobile lì davanti a riaffermare in ogni istante la sua presenza inamovibile.
Ma proprio in questa volontà dell’homo technicus di poter eternizzare l’essere terreno usando la verità assoluta e incontrovertibile, mediata dalle conoscenze di cui dispone – quella verità, per intenderci, che si incarna oggi nel dominio economico e che pretende dirci una volta per sempre come «stanno le cose» –, c’è tutta la contraddizione pratica del pensiero contemporaneo. Perché l’homo technicus che vuole trasformare di continuo il mondo in vista del progresso tecnologico, e allo stesso tempo afferma con pretesa di incontrovertibile verità la permanenza eterna dell’essere che è, non scorge affatto il contrasto volitivo che lo sconquassa sin dal profondo. Per un verso, infatti, egli pretende di non morire e di mantenersi in eterno (per questo esprime con la violenza del logos-forte quei pensieri che ritiene incontrovertibilmente veri), mentre per un altro verso, esige di oltrepassare tutti i limiti terreni che gli si presentano davanti agli occhi, sfruttando la potenza soverchiante messagli a disposizione dal progresso tecnologico.
Ma la tecnica, è questo il punto, può sperare di oltrepassare tutti i limiti terreni e di tras-formare quindi l’essere della realtà solo se l’essere di questa stessa realtà che ha di fronte non è né immutabile, né eterno, perché appunto ciò che è eterno e immutabile non muta, e quindi non si trasforma in qualcosa d’altro rispetto a ciò che è. O detto in altre parole: la tecnica può spingersi sempre al di là dei limiti solo se l’orizzonte entro cui opera non è quello della verità incontrovertibile dell’essere. Perché la verità incontrovertibile dell’essere inchioda questo stesso essere a permanere nella forma in cui è, nella forma che non si lascia negare, che non ammette smentite, e che non può in alcun modo venire respinta, né superata da qualcos’altro. E allora bisogna prendere atto del fatto che se l’essere persistesse eternamente non sarebbe possibile la trasformazione concreta di alcunché, così come all’interno dell’orizzonte economico non si configurerebbe mai il benché minimo progresso tecnico, perché nulla potrebbe mutare forma, giacché per qualcosa il mutare forma consiste nel passare dalla forma A alla forma B, il che significa anche dire all’«essere di A» di «non essere più l’essere di A» e di diventare l’«essere di B». Ma se l’«essere di A» esistesse in eterno – ovvero nel caso in cui l’«essere di A» si trovasse all’interno di quell’orizzonte veritativo incontrovertibile che non ammette né smentite né divenire – lo stesso «essere di A» non potrebbe mai diventare l’«essere di B», dato che proprio a causa della sua necessità ontologica non potrebbe essere altro da sé, e sarebbe quindi destinato a restare l’«essere di A». Se ciò avvenisse, la tecnica non avrebbe il materiale sostanziale su cui esercitare la propria pressione trasformante.
Detto in termini più semplici: si tratta di capire che se l’essere è eterno, la tecnica è impossibile. Ma il vero problema consiste nel fatto che questa considerazione resta nel sottosuolo della coscienza contemporanea. L’homo technicus, infatti, continua a volere in modo ostinato la contraddizione, senza tuttavia essere in grado di concepire questo volere come profondamente contraddittorio; vuole cioè continuare a trasformare l’essere in vista del progresso tecnologico, ma allo stesso tempo esige che quello stesso essere da trasformare permanga in eterno e non muoia (il punto, però, è che se l’«essere di A» si tras-forma nell’«essere di B», l’«essere di A» muore necessariamente nell’«essere di B», e non c’è alcuna possibile alternativa a questo tra-passo). Questa volontà di potenza trasformante e al contempo conservatrice – mi sembra fin troppo chiaro – vuole e non vuole sotto il medesimo rispetto, esprime desideri inconciliabili e si mostra quindi molto debole, anche perché assume il «principio di non contraddizione» (PNC) come statuto logico insuperabile, salvo poi disattenderlo nella contraddizione massima, che vuole trasformare di continuo – in un processo diveniente – l’essere che si postula eterno. Tuttavia, incurante della difficoltà, l’homo technicus non pare accorgersi di nulla, e insieme al desiderio di trasformare il mondo continua a sostenere la verità incontrovertibile che permane in eterno. Ma si tratta di capire, una buona volta, che questa incontrovertibilità linguistica (che dà tuttavia conto di una incontrovertibilità anche ontologica: perché dire il «vero come incontrovertibile» è dire il «vero come eterno», è far essere eterno l’essere che si dice vero) non ci compete! E il solo parlarne, in tal senso, è autentica follia, che spalanca le porte alla violenza del potere dispotico; spalanca le porte a quel potere che pretende di spingere l’orizzonte umano, vivificato dall’economia tecnica, fra le braccia dell’Assoluto.
Ma la tecnica che punta al progresso costante non può stare nell’Assoluto, perché non persiste, il suo statuto è impermanente. E neppure l’uomo persiste, neppure l’uomo è allora in grado di conoscere l’Assoluto o, per dirla con Carlo Michelstaedter, lo conosce nel modo in cui chi soffre d’insonnia ha contezza del sonno, o come chi guarda l’oscurità conosce la luce1. E l’insonne desidera il sonno proprio perché non dorme, non riesce a dormire; allo stesso modo l’uomo – che vive in un contesto relativo – anela all’Assoluto proprio in quanto non ha, e non è, Assoluto. Sicché un uomo Assoluto non è più uomo; o è lo stesso dire, nell’Assoluto l’uomo muore, perché l’uomo esiste soltanto nella forma del relativo.
Nella forma del relativo, quando si sottrae alla violenza, l’uomo sfugge al dominio (sfugge al desiderio di dominare o di essere dominato) volgendosi verso quella luce opportuna e gradevole, verso quell’utopia che si manifesta come eu-topia. L’eutopia è un luogo buono, felice, che si contrappone alla distopia, all’indesiderabile, che non è sogno, ma incubo.
Il filosofo Pertosa con il suo pensiero rivoluzionario assorbe l’attenzione di colui che,essendo già in uno stato di annichilimento,cerca ossigeno perché crede nell’esistenza di salvezza e spera che l’infinito non si trasformi nel finito tunnel della rassegnazione