Le persone che varcano la soglia del nostro studio, sto realizzando negli ultimi giorni, chiedono da noi principalmente due cose: verità e giustizia. Non necessariamente entrambe e non per forza alternativamente, ma certamente in questo ordine. Alcuni, privati già di qualsiasi illusione di giustizia, si accontenterebbero della “sola” verità, scevra di pene. Non si pretende necessariamente la punizione del “colpevole” ma solo che vengano stigmatizzate le sue azioni criminali o comunque nocive e che venga messo nella condizione di non reiterare le offese contro nessuno. Altri la verità già la conoscono o la intuiscono ma vorrebbero l’affermazione concreta dei loro diritti oppure una qualche riparazione per i torti patiti.
Chi ha perso un familiare o un amico per morte violenta, chi ha subito in Italia o all’estero abusi o crudeltà da parte di divise o organizzazioni, chi ha visto i propri figli annegare in mare senza che nessuno accorresse a salvarli, chi è stato accusato ingiustamente di qualche malefatta, chi è stato vittima di violenze, discriminazioni o soprusi, la prima cosa che chiede è di essere creduto per la parte che conosce della sua tragedia e di poter essere sostenuto o quantomeno non ostacolato nella ricostruzione completa di quanto occorsogli per poter recuperare i tasselli mancanti: il movente, le concause, l’identità degli autori, dei complici e dei mandanti anche morali.
Questa faticosa ricostruzione della verità è tanto più necessaria perché capace di restituire dignità alle vittime e ai sopravvissuti e fiducia alla collettività dei cittadini che possono confidare di essere tutelati dalle istituzioni nei confronti di chi viola diritti fondamentali.
Come dice, molto meglio di me, il Stefano Rodotà nel suo prezioso libro il diritto di avere diritti:
“Il diritto inalienabile alla verità apre una sequenza che continua richiamando il dovere di preservare la memoria; il diritto di sapere delle vittime e l’insieme delle garanzie necessarie perché sia reso effettivo..”
In un documento delle madri e dei parenti degli uruguaiani scomparsi durante la dittatura si afferma che
“La riparazione comincia con la verità dei fatti quindi sia per quanto riguarda le stesse vittime che i familiari degli scomparsi l’accertamento della verità e il suo riconoscimento ufficiale rappresentano la premessa di qualsiasi forma di riparazione fino a costituire essi stessi la riparazione”.
Questa verità costituisce quindi di per sè già una forma di giustizia, oltre a essere la condizione necessaria per la sua realizzazione.
Chi può vedere ricostruita la verità storica di quanto disgraziatamente sofferto per mano altrui, chi riesce a far mettere “nero su bianco” e resa pubblica la narrazione di eventi, autori e responsabilità, chi ottiene la piena e inattaccabile ricostruzione storica della verità, chi può conoscere e far conoscere “chi” “come“ e “perché” ha inflitto il male, inizia in parte a risanare ferite peraltro mai completamente guaribili .
I sopravvissuti delle stragi in mare così come i parenti di altre vittime di omicidi, torture, sparizioni forzate, non chiedono, almeno quelle che assisto io, di “prendere un colpevole e buttare via la chiave”. Chiedono prima di tutto di capire.
Capire come sia stato possibile, quali leggi, prassi, circostanze, falle di sistema, humus avvelenato, abbiano permesso tale violenza. Pretendono di non essere lasciati soli né tantomeno di essere intralciati in questo sforzo di comprensione. Chiedono che il male subito sia riconosciuto e chiedono, ovviamente, che chi ha agito il male la smetta e che altri non siano indotti seguire le sue orme.
La dignità che queste persone con le loro dolorose pretese sollecitano è un “bene comune” di cui tutti dovremmo prenderci cura. Stando dalla loro parte.
Pubblicato su Repubblica di Genova (e qui con il consenso dell’autrice)
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