Quello dell’emergenza non è un tempo sospeso in attesa di un ritorno alla “normalità”. In questi stessi giorni si sperimentano pratiche di mutuo soccorso e relazioni solidali che provano a mettere a nudo il vero volto del sistema

Oggi sono venuto a Changsha
e mi sono accorto che le strade
non sono quelle strade
le case non sono quelle case
nemmeno il cielo è quel cielo
e le persone non sono quelle persone
verso tutte queste cose e persone di cui non mi ero mai accorto
oggi mi ritrovo guardingo
e anche loro saranno guardinghe verso di me
ci teniamo d’occhio l’un l’altro
tratteniamo il respiro
come se ci fosse successo qualcosa
il mondo si è indebolito
Ni Zhou, “Cishi, Changsha”[Changsha, oggi]
“
“Non torneremo alla normalità – perché la normalità era il problema“. Sui social e anche su qualche balcone e spazio sociale sono apparsi cartelli con questo slogan – che si contrappone, anche se non necessariamente in forma antagonistica o polemica, con l'”andrà tutto bene” che è diventato un mantra piuttosto scaramantico per migliaia di persone e non a caso immediatamente fatto proprio dei media mainstream alla ricerca di normalizzazione.
Ecco forse da qui potremmo partire. Quello che spaventa è l’idea di normalizzazione che anche in questa fase d’emergenza – o forse proprio in questa fase d’emergenza – sta circolando e prendendo piede e rischia di diventare pensiero condiviso e unico.
Qual era la normalità prima di questa emergenza globale? Inutile perderci troppo tempo, ma parliamo di una realtà di sfruttamento e di discriminazione sociale, della supremazia del privato sul bene comune, dell’individualismo e della individualizzazione delle politiche, dei contratti, delle relazioni sociali.
La normalità del debito pubblico – strumento politico-economico e psicologico per convincerci che avevamo vissuto sopra le nostre possibilità e che dovevamo quindi fare sacrifici per mantenere le possibilità di uno sviluppo che avrebbe prima o poi premiato tutte e tutti.
La normalità di politiche liberiste che hanno distrutto la sanità pubblica, hanno dato priorità a sussidi in varie forme per le imprese e a spese per la “sicurezza” – cioè per eserciti e sistemi di sorveglianza, punizione, controllo. Lasciando agli ultimi posti la protezione civile, la salvaguardia ambientale, le politiche di welfare e benessere, la formazione permanente.
Evidentemente non ho la competenza per giudicare i provvedimenti di “distanziamento sociale” su un piano scientifico. Li comprendo, capisco che in mancanza di una conoscenza approfondita sulla trasmissione del virus sia necessario tenere il più possibile a distanza le persone per evitare un effetto domino che sarebbe ancora più devastante. – anche se questi provvedimenti sono in qualche modo conseguenti alle mancanze di dispositivi di protezione e di un’organizzazione precedente per la risposta a rischi pandemici.
Su questo mi viene solo da dire che servirebbero già oggi studi statistici e analisi su chi ha contratto il virus dopo l’implementazione dei provvedimenti emergenziali, per capire davvero quanto e come questi funzionino. Che non significa stare a guardare o peggio chiedere riaperture al più presto come fanno Confindustria e Renzi, quanto avere una maggiore capacità di indirizzare le risorse pubbliche e la responsabilità sociale.
Ma quei provvedimenti sono evidentemente scelte politiche e su quello invece abbiamo tutte e tutti la possibilità e la necessità di parlare.
Mi permetto solamente di fare qualche riflessione – nella forma di un lungo sfogocon qualche velleità di ragionamento politico – su quello che questa emergenza comporta nel profondo per tutti noi e che sicuramente non scomparirà né presto né facilmente.
Crisi economica e sociale. Da questa emergenza usciremo certamente con una situazione economica difficilissima e con un aumento delle povertà di lavoratrici e lavoratori (e ovviamente di chi un lavoro nemmeno lo aveva, nella precedente normalità…).
A parte l’evidenza che qualcuno comunque guadagnerà (anzi già lo sta facendo) da questa crisi, non saranno le misure emergenziali di questo periodo (anche ci fosse un necessario e sacrosanto “reddito di quarantena”) a sostenere milioni di donne e uomini che rischiano di doversi davvero inventare una nuova vita lavorativa e non solo.
Sicuramente il reddito universale diventa una necessità assoluta, senza il quale milioni di persone verranno abbandonate alla miseria o al peggiore sfruttamento. Riusciremo in questo priodo a trovare le forze per costruire reti di lotte, rivendicazioni, solidarietà che davvero facciano in modo che nessuna/o resti sola/o?

Questa emergenza non è una “opportunità” per farlo: semplicemente ci mette di fronte alla necessità di farlo.
Rapporto tra potere e consenso. Autoritarismo
Anna Applebaum ha scritto che le epidemie favoriscono i governi autoritari. Questo è sicuramente vero. Ma possiamo anche aggiungere che le epidemie favoriscono una tendenza autoritaria in qualsiasi regime. Non c’è bisogno di scomodare Orban e la sua richiesta (accettata) di pieni poteri per affrontare l’emergenza; è sufficiente guardare alla totale o quasi assenza dei parlamenti e delle assemblee elettive e della contestuale delega (più o meno implicita) e esecutivi e “tecnici” senza controlli o quasi.
Ma c’è di più. In queste settimane è molto crescita la fascinazione per il cosiddetto “modello cinese” di affrontare l’emergenza pandemica. Un buon esempio di cosa sia stato questo modello nell’Hubei e in tutta la Cina lo si può ascoltare nell’ottimo podcast di Giada Messetti e Simone Pieranni “Risciò”.
Quello che mi sembra importante notare è la voglia, più ancora che di autoritarismo (nel senso di affidamento di un potere emergenziale ad un’autorità quasi onnipotente) di accelerare l’utilizzo di tecnologie di controllo sociale ed individuale. Anche in Italia si parla di utilizzo di droni, di mappatura dei contagi attraverso app e smartphone e così via. Forme di controllo dell’individuo e delle relazioni sociali che vanno ben oltre la provvisoria limitazione di libertà per affrontare un’emergenza.
Ancora più preoccupante è però il rischio di uno scambio “sicurezza in cambio di controllo“, che è quanto in fondo viene invidiato ai cinesi: fino a quando il governo ci garantisce benessere e “sicurezza” (sociale e in questo caso anche sanitaria) siamo disposti ad accettare nuove e più pervasive forme di controllo (“se non fai nulla di male non devi temere nulla”….) che si sommano a quelle già presenti del capitalismo della sorveglianza.
E sappiamo bene che tornare indietro una volta che questi meccanismi prendono piede – più o meno pubblicamente o in maniera surrettizia – sarà molto difficile.

Emergenzialità – e interiorizzazione della stessa
Le misure e i provvedimenti di separazione sociale e di prevenzione alla diffusione del contagio non sono mai state davvero spiegate, non c’è stato mai un vero tentativo di “convincere” della loro necessità e/o efficacia. Si è instaurato un meccanismo diabolico per cui vengono presi provvedimenti da parte di autorità più o meno riconosciute e rispettate e si fa appello alla delazione, alla vigilanza degli uni sugli altri – e non in nome della solidarietà sociale, ma della cogenza di una regola in sé. E facendo appello a sentimenti di controllo reciproco, di invidia, di indifferenza alla razionalità delle misure ma semplicemente alla necessità di rispettarle e controllare che tutti lo facciano.
È la faccia emergenziale dell’appello alla “legalità” che conosciamo bene (“avete occupato lo spazio illegalmente” “vero, ma facciamo cose socialmente utili o necessarie” “non mi interessa, è illegale, è ilegale, è illegale!!!!”).
L’ideologia securitaria, legalitaria, l’indifferenza per gli effetti sociali di ogni “regola” è stata vincente negli ultimi decenni. Questa emergenza rischia di renderla ancora più diffusa e potente. E dobbiamo saperlo fin da ora.
Isolamento sociale. Così è stato definito il provvedimento che serve a tenere le persone il più possibili distanti ed evitare “assembramenti”. Confesso che il concetto di “isolamento sociale” mi fa paura, lo considero in qualche modo un ossimoro. Come può esistere “società” quando le persone sono isolate? Come è possibile mantenere relazioni se si continua a battere il testo dell’isolamento.
In questo caso vi è uno slittamento semantico significativo: il necessario isolamento sanitario diventa insistenza sul non avere contatti, non cercare contatti. E questo isolamento non è evidentemente uguale per tutte e tutti. In questo senso possiamo trovare almeno tre modalità di viverlo e/o subirlo.
Esiste un isolamento totale e rivendicato, quasi un privilegio da coloro – temo sempre meno – si possono permettere il lusso di non lavorare e certo, coltivano la paura ma soprattutto sanno che #iorestoacasa è il loro scudo. Si straniscono se altri non trovano lo slogan rassicurante
C’è poi un isolamento totale e sofferto, perché il lavoro è a rischio, o comporta un carico di fatica in più, o perché lo stare a casa comporta altri problemi, come ad esempio rapporti disfunzionali o violenti all’interno del nucleo familiare, o viceversa solitudine estrema per chi è solo.
In questa categoria rientra il colletto bianco come l’insegnante precaria, come tutti quei settori legati alla catena dello smart working e con poco tempo per “godersi questo meraviglioso spazio di riflessione fuori dai ritmi soliti di lavoro”. Questa condizione non è necessariamente produttrice di consapevolezza, ma troppo spesso lo è di rancore e istinti delatori.
Ci sono poi le persone isolate per ultime o non ancora isolate, quelle che non si possono permettere il lusso della paura. Dai migranti per i quali si sta costituendo un corridoio speciale perché possano tornare a spaccarsi la schiera nei campi, sino a chi in fabbrica ci deve andare, in colonna con tutti gli altri, ora visti come tanti possibili vettori, ma non c’è tempo né modo per prendere le distanze. Basta augurarsi che si stia tutti bene, the show must go on e non importa come.
Qui rientra chiunque la cui vita sia appesa ai desiderata di Confindustria. Ed anche, quello che resta del SSN, là nel pubblico dove l’onorata professione di medico non è più tanto una distinzione. Li chiamano angeli ma li mandano allo sbaraglio, spesso senza dispositivi di protezione. Abbiamo letto di infermieri in Piemonte pagati meno di 5euro lordi per un turno in reparto di malattie infettive

Senza alcuna forma di complottismo, l’idea di una società di individui (o famiglie mononuceari) isolate e in diretto rapporto con le forme del potere (gli esecutivi, le forze di “sicurezza”) è in qualche modo una possibile rappresentazione della società contemporanea . Evidentemente qui si tratta di un isolamento stretto, nella precedente “normalità” esistevano moltissimi luoghi e “non-luoghi” di contatto sociale.
Ecco – la mia paura è che un possibile insegnamento di questa emergenza sia quello che l’isolamento sociale si possa accompagnare a forme di finta socialità (shopping, consumo culturale – altro ossimoro – e così via…).
Oltretutto, come conseguenza ulteriore, queste modificazioni in senso “smart” delle relazioni sociali avrebbero effetti deleteri sulla capacità contrattuale di lavoratrici e lavoratori: non solo ci sarebbe un aumento della gig economy, che è l’apoteosi della precarietà, ma anche una categoria più “privilegiata” (mica sempre…) come i colletti bianchi inferiori si troverebbe più indebolita se, come qualcuno già suggerisce, si facesse uso più massiccio dello smart work.
C’è poi un altro aspetto che spaventa ancora di più. L’isolamento di cui parliamo non costringe a stare ognuna/o per conto proprio, ma a dover rimanere all’interno del proprio nucleo familiare. E quando questo è il luogo della violenza, fisica e/o psicologica? E quando all’interno di quel nucleo, in questa fase, si rafforzano discriminazioni, sopraffazioni, violezne, imposizione di ruoli? Come ne usciranno quelle donne (perché è chiaro a tutte/che sono le donne a subire principalmente quella violenza), o quei soggetti per qualche motivo vittime della relazione (transgender la cui identità è rifiutata, bambine/i maltrattate/i, e così via)?
Questo tra l’altro dimostra sul piano pratico quanto dicevamo riguardo la follia di un certo dottrinarismo legalitario: la “legge” vuole che stiamo tutti a casa e che questi luoghi di ascolto, incontro e protezione – non essendo… necessari! – chiudano, ma la vita reale esige ben altro.
Anche in questo caso è necessario mettere in campo fin da ora (come stanno facendo molti spazi femministi) attività di ascolto e intervento per non lasciare quelle donne e quei soggetti a dover subire e maggiormente interiorizzare la loro condizione – in quel caso in senso proprio – di isolamento sociale.
Riorganizzazione delle nostre vite. Penso che a tutte/i sia capitato di leggere qualche articolo o commento sulle “opportunità” che questa emergenza ci darebbe, quella di “ripensare” le nostre vite, di rimettere al centro alcuni “valori”.
In generale credo si tratti di una grandissima ipocrisia o semplicemente della necessità di riempire qualche pagina di giornale di carta o su web.
Indubbiamente abbiamo però tutte e tutti dovuto confrontarci con noi stesse/i e con le nostre vite, cercando di adattarci e di trovare nelle nostre relazioni più vicine la forza per andare avanti. E questo in alcuni casi ha significato ripensare alla fretta del “dover fare”, alla necessità di “esserci” in alcuni lughi o in alcuni momenti.
Oggi dobbiamo confrontarci con le necessità di base nostre e di quelli che vivono vicino a noi (parenti, amici, vicini…). Non intendo solamente quelle alimentari, ma quelle sociali e culturali. Altro che isolamento: questa emergenza ha messo molte/i di noi di fronte all’evidenza che viviamo in una società profondamente ingiusta, nella quale le fragilità quotidiane diventano terribili in una fase come quella odierna – spazzando via definitivamente (si spera) la pretesa di quella famosa signora britannica secondo la quale “la società non esiste”.
L’immaginario che è stato creato, diffuso, consumato in questi giorni avrà delle conseguenza, psicologiche e sociali. Per qualcuna/o potrebbe persino trasformarsi in una paura di ritorno alla “normalità” – e i messaggi diffusi sulla necessità di una sorta di emergenza continua per i prossimi mesi e anni (al di là della loro validirà o fondatezza scientifica) creano panico e rischi depressivi.
Riorganizzazione dei nostri consumi. In questi anni abbiamo lavorato in tante e tanti per modificare profondamente i nostri consumi. In particolare quelli alimentari, cercando di costruire filiere corte, scambi diretti tra produttori e consumatori, sostegno a produzioni indipendenti e così via.
In questa emergenza la parte del leone nei consumi – più ancora della precedente normalità – la fa la GDO. Per motivi pratici, logistici, e in alcuni casi per scelta politica (che non pensiamo sia casuale ma volutamente a sostegno di quella rete economico-commerciale). Questo non sarà senza conseguenze. Così come non sarà senza conseguenze l’aumento delle vendite online, della concentrazione di spazi pubblicitari verso alcuni media (l’agghiacciante video promozionale di Urbano Cairo è simbolo di questa tendenza di una parte del capitale ad approfittare dei disastri per aumentare i propri profitti).
D’altra parte anche in questo tema ci siamo dovuti confrontare con la possibilità stesso del consumo e sulle priorità che questo potrebbe avere. Non è un’opportunità, ma sicuramente possiamo provare a costruire una diversa propensione al consumo e a considerare alcuni spazi (socialità, cultura ecc.) come “senza prezzo” e necessariamente da difendere dalla ricerca di profitto (che non significa gratuità di ogni lavoro culturale, ma al contrario riconoscimento del loro valore d’so e non del loro prezzo).

Inesistenza dgli spazi pubblici. Come ha scritto Carlotta Caciagli “il modello urbano pre-Corona non è poi così diverso da quello di queste ore. L’arena politica e sociale è ridotta all’osso ora come allora, lo spazio pubblico marginale. La differenza è che oggi non ci sono happy hours e movida a mascherare questo dato di fatto. I numerosi eventi, i centri commerciali aperti nei fine settimana, le zone pedonalizzate e i tavolini dei bar ci hanno distolto dal riconoscere un dato cruciale: l’unica posizione che possiamo assumere nello spazio urbano è quella del consumatore o del produttore”.
Questa emergenza ha mostrato a mio avviso due aspetti riguardo questa questione: se da un lato ha reso evidente quell’inesistenza di spazi pubblici di cui parla Carlotta Caciagli, dall’altra ci permette di ragionare sulla nostra idea di “spazio pubblico”. In questo caso si tratta di qualcosa che si fonda su legami di appartenenza e di socializzazione che vanno oltre l’esistenza di uno spazio fisico e che possono esprimersi anche attraverso la costruzione e il consolidamento di quei legami.
Mi spiego. Mai come in questi giorni ci accorgiamo di quanto Ri-Make (ma è solo un esempio molto personale, che vale per moltissine esperienze di spazi sociali) sia davvero un bene comune ed uno spazio pubblico. È uno spazio di relazioni aperto, necessario, capace di rispondere ai bisogni e creare legami sociali. Non una comunità chiusa, ma una società basata sul mutualismo, aperta, dove nessuna/o resti sola/o.
Lo spazio fisico è evidentemente un mezzo necessario per poter sviluppare fino in fondo questa creatività e relazione sociale, ma non è sufficiente senza questa continua pratica di creazione di spazio pubblico.
E dopo? Cosa succederà quando l’emergenza sarà finita, o più probabilmente sarà finita la fase acuta dell’emergenza? Sinceramente non sopporto la retorica del “niente sarà come prima”: se da un lato è una banalità (qualsiasi evento storico, tanto più se globale, muta profondamente aspetti anche decisivi della nostra vita), dall’altro perché le cose cambino davvero e “nulla” sia come prima serve anche un’azione politica e sociale e non solamente le conseguenza di un evento globale.
Per capirci, Jeff Bezos in questi giorni ha aumentato il proprio patrimonio di oltre 2 miliardi di dollari grazie al mercato azionario. Il rischio che per qualcuno non cambierà di molto è molto forte….
Ma per noi cosa cambierà?
Quanto resterà dei provvedimenti e delle istituzioni nate o sviluppatesi nell’emergenza?

Cosa resterà degli spazi pubblici?
“Ci si adatterà anche a queste misure, così come ci si è adattati ai sempre più severi controlli di sicurezza aeroportuale in seguito agli attacchi terroristici. La sorveglianza invasiva sarà considerata un piccolo prezzo da pagare per la libertà fondamentale di stare con altre persone.” (Milano Finanza). In fondo questo sarà il lascito vero dell’esperienza cinese: maggiori controlli individualizzati e tecnologizzati. E un sostanziale consenso di massa segnerà l’adattamento a questa situazione. Ho qualche dubbio che il capitalismo della produzione di massa possa rinunciare ai luoghi fisici del consumo di massa, ma è vero che può sempre cercare di sostituirli con altre produzioni e altri consumi, sul modello Amazon (o AliBaba…).
Il rischio che abbiamo di fronte è che l’isolamento sociale “a yo-yo” lo decidano governi sempre più autoritari e/o autoreferenziali e che provvedimenti emergenziali saranno sempre più utilizzati come forma di governo e disciplinamento sociale.
Questo non ha nulla a che fare con la negazione della pandemia o con teoria cospirative. La “shock economy” non è un complotto, ma uno strunento di crescita del potere del capitale grazie alle emergenze reali. E ad essa spesso si accompagna una “shock politics”, cioè l’accelerazione della concntrazione delle decisioni politiche verso gli esecutivi.
Questa tendenza non è iniziata un mese fa, ma è in corso da anni – nella costituzione materiale e nei provvedimenti legislativi in Italia, in Europa e in gran parte dei paesi del mondo.
Conte non avrà la stoffa o il carattere del leader autoritario, ma assistiamo da un mese ad un dialogo diretto – unidirezonale – tra “premier” e cittadini, con qualche forma neocorporativa di accordo con le “parti sociali”e un fortissimo peso dei “tecnici” nel guidare ogni tipo di provvedimento.
Siamo sicure/i che questo non produrrà un punto di non ritorno? Cosa vuol dire l’appello ad un governo di “unità nazionale” guidato dal “tecnico” Mario Draghi?
In un altro articolo segnalavo il rischio che si rafforzi anche la “autorevolezza” di istituzioni quali le forze armate, impropriamente chiamate a svolgere compiti di protezione civile ma che avranno nuove funzioni e maggiori risorse.
Un rischio che si collega a quello di affidare sempre più a queste forze di “sicurezza” la gestione delle emergenze (la lettura delle statistiche quotidiane del Ministero dell’interno sui controlli è un misto tra patetico e speventoso…).
Quanto resterà del pensiero dell’emergenza?
Questi giorni di isolamento sociale e di una sospensione delle nostre vite “normali” lasceranno evidentemente un segno in ognuna/o di noi, come già scritto in precedenza.
Va ancora una volta sottolineato che non sarà solamente un processo economico e sociale, ma avrà forti risvolti psicologici e personali.
Quanto riusciremo ad uscire dall’idea che l’emergenza deve essere sempre nelle nostre menti, che non ci sarà più spazio per pensare il futuro e che questo potrà solamente essere fatto di periodiche sospensioni delle nostre vita?

Chi di noi in questi anni ha messo in guardia dai rischi epocali del cambiamento climatico e di altri pericoli ambientali è stato spesso accusato di catastrofismo. In realtà dietro quell’attivismo ambientalista non stava affatto un pensiero catastrofista, ma l’urgenza di mantenere aperto un futuro, di costruirlo giorno dopo giorno con l’impegno di tutte e tutti.
Ma se il “nemico” (ancora una volta il linguaggio e il pensiero della guerra) è un virus “invisibile”, che ci rende impotenti e che possiamo “combattere” solamente con l’emergenza e la sospensione periodica o permanente di libertà e spazi pubblici – quel potrà essere l’idea e la pratica del futuro?
Autogestione – beni comuni – mutualismo (e lotta di classe). Risposte nuovamente necessarie.
Per sintetizzare, questa crisi ci ha ricordato che esistono le classi e che esiste la lotta di classe, e i padroni la fanno anche in un momento come questo; e ci ha mostrato con evidenza che l’attuale sistema economico è totalmente inadatto anche a garantire la salute delle persone davanti a emergenze epocali come quella in corso. Siamo davanti non all’opportunità ma alla necessità di cambiarlo. Cominciando ora.
In queste settimane di emergenza per fortuna non abbiamo assistito solamente alla separazione e all’isolamento sociale, ma anche ad una grandissima diffusione di attività solidali. Provenienti da tantissime persone di diverse provenienza politiche e culturali.
Lo hanno fatto moltissimi enti locali e istituzioni pubbliche. Ma ancora di più abbiamo assistito al moltiplicarsi della solidarietà nei quartieri, nelle piccole cittadine, inventate o organizzate da realtà piccole e magari spesso considerate ai margini dello spazio pubblico.
Attività spesso autogestite, dove il centro non era tanto l’antagonismo verso istituzioni o poteri costituiti, ma la solidarietà e il sostegno mutuo. E che in alcuni casi si sono dovuti scontrare con alcuni poteri per affermare la solidarietà e la ricerca di sisurezza sociale (il caso degli scioperi contro Confindustria è stato a mio avviso significativo).
Autogestione, mutualismo conflittuale, costruzione di spazi pubblici e beni comuni. Non abbiamo mai considerato queste pratiche “semplicemente” come attività antagoniste, anticapitaliste e di opposizione alle politiche liberiste. Le abbiamo sempre pensate come costruzione di una società altra, di istituzioni alternative, di spazi che prefigurassero relazioni sociali fuori e contro la logica del valore e dell’individualismo.

Queste settimane ci hanno rafforzato in questa convinzione.
Vedere le lunghe file ai supermercati, a quella GDO – che consideriamo responsabile di gran parte dello sfruttamento agricolo globale e dell’orientamento a consumi dannosi per l’umanità e per l’ambiente – è qualcosa che ci spaventa e ci convnce della necessità, qui e ora, di inventare e costruire l’alternativa a quelle produzioni e a quella forma di consumo. Filiera corta, sostegno alle produzioni di qualità, cooperazione – sono le strade che permettono anche di affrontare le emergenza attraverso consapevolezza e sostegno dal basso e non assistenzialismo emergenziale dentro un quadro autoritario.
Abbiamo capito in questi giorni quanto siano necessari spazi pubblici e beni comuni, luoghi fisici e politici di organizzazione di una diversa relazione sociale e culturale.
Abbiamo anche avuto conferma di quanto abbiamo bisogno di un vero stato sociale e di come dobbiamo organizzare il conflitto perché le istituzioni pubbliche diano risposte adeguate alla necessità di reddito, al bisogno di un servizio sanitario nazionale orientato alla prevenzione e all sicurezza individuale e comunitaria, che garantiscano la sicurezza al lavoro e sul lavoro a chi viene invece sfruttata/o ogni giorno.
In questi giorni abbiamo mantenuto aperte tutte le strade, le discussioni, le reti che ci permettono di costruire quegli spazi e far vivere quei beni comuni.
Abbiamo capito che nessuna/o deve restare sola/o, che si devono e si possono costruire spazi di socialità alternativi e di sostegno mutuo, dove tutte e tutti possano contribuire a spezzare l’isolamento sociale, la depressione, la sensazione di non farcela.
Ecco. Non possiamo accettare che si torni alla normalità del sistema, ai sui poteri, alle sue forme di oppressione e discriminazione. E sappiamo che possiamo farlo. Anche in questi giorni, perché abbiamo capito che l’isolamento sociale non lo devono decidere altri per noi e anche nell’emergenza siamo capaci di tessere la rete di una società altra.
* con l’insostituibile collaborazione di Gaia Perini e Federico Picerni (che non hanno alcuna responsabilità nelle eventali scicchezze ci sono qui scritte) e la gentilezza di Sara Manisera per la sua lettura critica.
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