Non sembra più così aliena l’idea di una scuola fuori dalle aule, che si apre agli orti, ai cortili, ma anche alle piazze esterne all’edificio scolastico, ai parchi, alle biblioteche, agli artigiani di zona, agli spazi sociali e culturali del territorio come luoghi di apprendimento. Un apprendimento che preveda più coinvolgimento da parte degli studenti, non più solo passivi e immobili uditori. Il documentario L’estate che verrà – Storie di un’altra scuola possibile, racconta questa trasformazione, necessaria quanto profonda, che in alcune scuola ha già cominciato a prendere forma. Buona visione
Dopo essere stati ignorati nei decreti, negli ultimi giorni bambini e ragazzi sono tornati a far parlare di sé, se non proprio nell’agenda politica, almeno sui media. Si è tornati a parlare molto di scuola e concetti come “didattica diffusa” non sono mai stati così in auge. L’idea che si può fare scuola diversamente è apparsa improvvisamente come una necessità anche a chi aveva sempre guardato con sospetto a forme alternative a quelle più tradizionali. Non sembra più così aliena l’idea di una scuola fuori dalle aule, che si apre agli orti scolastici, ai cortili, ma anche alle piazze esterne all’edificio scolastico, ai parchi, alle biblioteche, agli artigiani di zona, agli spazi sociali e culturali del quartiere come luoghi di apprendimento. Un apprendimento che preveda più coinvolgimento da parte degli studenti, non più solo passivi e immobili uditori.
Mi auguro dunque che le circostanze eccezionali che hanno portato a rinverdire il dibattito siano una buona occasione affinché anche nei luoghi della politica istituzionale si parli in maniera articolata di una didattica diversa da quella, dura a morire e ancora propugnata da molti, che punta su modalità come la trasmissione frontale dei contenuti e che si basa soprattutto su valori come la competizione o lo spirito di sacrificio. Lontane da questa concezione sono scuole pubbliche che già da anni sperimentano modalità che fino a poco tempo fa apparivano come rivoluzionarie. Su alcune di queste esperienze, cinque anni fa ho deciso di fare un documentario e ho passato un anno intero a scuola, anzi in tre scuole per precisione. “L’estate che verrà – Storie di un’altra scuola possibile”, questo il titolo del film, racconta questa rivoluzione, necessaria ma ancora poco conosciuta, che è già in atto in una parte, minoritaria, della scuola pubblica italiana.
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Le ambientazioni del documentario sono dunque scuole di tre gradi diversi d’istruzione e di tre luoghi diversi del Paese, perché avevo voglia di fare un viaggio non solo nella scuola ma anche lungo la Penisola, per mostrare come queste realtà si trovino sparse un po’ ovunque sul territorio nazionale. Il film inizia in una scuola elementare di Milano, prosegue in una scuola media dell’Emilia Romagna e termina a Salerno, in un Istituto superiore di agraria. I protagonisti sono insegnanti, studenti e genitori che, tra molte difficoltà e una cronica mancanza di fondi, portano avanti scelte coraggiose, controcorrente, e realizzano una scuola diversa, un luogo dove far germogliare piacere per il sapere e autonomia di apprendimento, dove si lavora in gruppo e si è aperti alla diversità e dove si esce dalle aule.
Non è un documentario dove la scuola è un pretesto per parlare di altro, perché mi interessava parlare proprio di scuola, nella sua quotidianità, nei suoi gesti, nelle sue parole. Per questo ho scelto di non mettere alcuna intervista: vedere insegnanti e studenti imparare e insegnare nel loro fare quotidiano era per me molto più interessante di tante spiegazioni e opinioni dette a un microfono. Credo che spesso si parli troppo di scuola ma si racconti ancora troppo poco che cosa può accadere in una scuola.
Quello de “L’estate che verrà” è il ritratto di una minoranza, forse meglio dire di un’eccezione. Quando parlo di eccezione non voglio dire però che si tratta di scuole “speciali”, di modelli irripetibili, anzi, il racconto mostra come con volontà, fantasia e spirito di gruppo una scuola come quelle de “L’estate che verrà” può esserci ovunque, senza voler dimenticare le particolarità di ogni contesto e senza dimenticare le crescenti difficoltà e gli ostacoli che incontrano quotidianamente insegnanti, studenti e tutti coloro che lavorano nella scuola. Seminando le loro idee e pratiche, i protagonisti mostrano come si possa coltivare un’idea diversa di scuola, e insieme, di società.
La motivazione più forte che mi ha spinto a portare avanti questo progetto, nonostante limiti e problemi di ogni sorta, è proprio l’idea che la scuola è intimamente connessa con la società che la genera e, se si vogliono ottenere visioni e pratiche diverse riguardanti “l’essere comunità”, è proprio dalla scuola che si deve partire.
Quando ho deciso di dedicarmi a questo lavoro, dopo la fase di ricerca e di interviste preliminari, ho deciso di concentrarmi su tre di realtà. Dover arrivare a una selezione è stato spesso difficile, soprattutto per la scuola primaria, dove avevo incontrato molte esperienze interessanti. Per le medie è stato meno doloroso scegliere perché il numero di realtà davvero innovative era, alla mia osservazione, diminuito drasticamente. L’individuazione dell’istituto superiore è stata l’ultima: dopo aver optato per una scuola elementare di Milano e una media dell’Emilia Romagna, la mia volontà era di trovare una scuola al sud e la scelta è caduta su un istituto di agraria, un indirizzo molto sminuito in Italia (basti pensare che in Francia viene chiamato Lycée Agricole, cioè è messo sullo stesso piano dei licei), mentre dovrebbe essere considerato una delle scuole più importanti in un Paese come il nostro, così fortunato da punto di vista climatico e ambientale.
Dopo aver scelto le tre scuole da filmare, ho avuto un po’ di disorientamento nel cercare di cogliere una direzione perché ero frastornata dalla gran quantità di temi possibili e così ho deciso che protagonista di ogni scuola non sarebbe stato un personaggio ma lo spirito che animava quella scuola. E mi sono resa conto che questo spirito seguiva il ritmo delle stagioni, ossia che le stagioni e le scuole ad esse associate (con le età diverse che rappresentano) erano una lo specchio dell’altra. Il racconto allora ha cominciato a fluire naturalmente, dovevo solo stare attenta a cogliere le suggestioni e gli spunti che mi venivano offerti dalle persone e dal contesto in cui quelle persone agivano. Il film comincia, come il calendario scolastico, nell’autunno colorato e vivace dei bambini di una scuola vicino ai navigli milanesi, per passare poi al raccoglimento di un inverno nebbioso in cui si nascondono gli adolescenti della scuola media della campagna emiliana, per arrivare infine in una calda primavera dove giovani disincantati non rinunciano a coltivare sogni di cambiamento. E così, trascorso un anno, ho capito che la mia scelta di accostare tre scuole e tre luoghi così diversi era stata giusta perché quello che le accomuna è la consapevolezza di poter cambiare la direzione delle cose tutti insieme, e la tenacia e di fronte ai problemi. La scuola elementare è la prima scuola milanese “senza zaino”. Arrivati in classe, i bambini entrano nell’ “Agorà”, uno spazio dove, seduti su grandi cuscini insieme alla maestra, si danno il buongiorno, raccontano come si sentono e provano a capire insieme cosa si andrà a fare durante la giornata, in lavori di gruppo e ricerche individuali. Poi proseguono le attività in classe ma anche nell’orto, nella falegnameria, e spesso uscendo dall’edificio scolastico per andare nel quartiere: nella biblioteca rionale, nel parco comunale, lungo i navigli da fotografare…
Nella scuola media emiliana gli studenti, seduti intorno a grandi tavoli circolari, creano testi interattivi con l’ipad, poi si spostano a un tavolo con vetrini e microscopi, di fronte a una lavagna multimediale, per la lezione di scienze, e fanno l’ora di letteratura in giardino. Al pomeriggio lavorano in classi di età mista e modellano insieme la creta o intagliano il legno.
Nell’ Istituto di agraria campano gli studenti lavorano la terra e studiano sui libri nel tentativo di preservare e rilanciare il proprio territorio, in una regione martoriata da ecomafie e speculazioni. La scuola è guidata da un preside e da un gruppo di docenti che si rimboccano le maniche per trovare i finanziamenti necessari per laboratori che combinano tradizione e tecnologia e per garantire una didattica davvero innovativa.
Così come alle elementari si vede come sia facile e utile praticare una didattica diffusa, le medie di Pontenure sono un ottimo esempio non solo di didattica non frontale ma anche di come si possono usare in modo valido le nuove tecnologie. In questi giorni in cui i bambini e i ragazzi sono costretti a usare solo computer e tablet, ci si rende conto di come la didattica digitale non possa essere uno scimmiottamento di quella “viva”, ma come possa e debba essere occasione per sperimentare un tipo di apprendimento diverso, in cui i ragazzi possono creare contenuti.
Quello che ci sta mostrando questa emergenza, con la didattica a distanza, è che la scuola non può essere solo trasmissione passiva, nozionismo e voti su una pagella. E ci mostra la necessità di confronto e condivisione di modelli alternativi a quelli considerati “normali”. È tempo di guardare ad esempi europei (in diversi Paesi del nord Europa si sta già mettendo in pratica ampiamente la didattica diffusa) ma soprattutto a chi in Italia sta facendo da anni questo percorso. Quanto sarebbe bello e utile se crescesse la consapevolezza di dover avviare una nuova stagione del nostro modo di produrre, di consumare, di lavorare e di condividere, tenendo fuori da logiche di profitto, diritti essenziali quella alla salute e all’istruzione. Abbiamo davanti una grande possibilità per tramutare, in breve tempo, modi, luoghi e dispositivi del fare scuola. Spero che il mio documentario, goccia in un mare, possa essere d’ispirazione. Sono grata a tutti coloro che negli ultimi quattro anni hanno usato questo lavoro come stimolo per riflessioni in dibattiti, seminari e momenti di formazione. “L’estate che verrà” infatti, come altri miei documentari, è frutto di una collaborazione con realtà che operano nel contesto in cui il racconto si dipana e dunque, in questo caso, con soggetti che operano nella scuola pubblica. Mi piace concludere con ciò che mi scrisse Tullio De Mauro a cui avevo chiesto un parere:
“Mi è parsa un’ottima idea far vedere in concreto quanto è possibile fare e viene realmente fatto dove gli e le insegnanti riescono a far nascere una comunità educante e studiante. Spero che molti possano accedere al film e lo mettano a frutto”.
Il documentario si può vedere a questo link:
Alberto Vacchi dice
Abbiamo bisogno di cambiare il paradigma della nostra scuola. I bambini e gli insegnanti devono tornare alla base dell’educazione stando in un’altra prospettiva, avendo il coraggio di fare un passo… Un passo fuori.
Silvia dice
Bellissimo ma bisogna cambiare le mentalità oggi è tanto difficile maestra di asilo da 18 ANNI. Però l importante è incominciare
Silvia dice
Bellissimo il video. Bisogna cambiare le mentalità oggi molto difficile. Maestra di asilo nido da 18 anni
Marco De Meo dice
A San Mauro Torinese c’è l’officina sul Po, col nido (Cirilanda) e la materna (La Terra dei Luminabó), più il centro estivo. Realtà meravigliose.