Matt Huber, geografo socialista statunitense, ha scritto un saggio per avvicinare le grandi questioni ambientali alle classi lavoratrici e per domandarsi come potrebbe essere una proposta di politica ecologica capace di coinvolgerle. Dopo aver censito e classificato le diverse correnti ambientaliste esistenti, Huber invita i sostenitori dell’ecologia a uscire dal mondo dei “professionisti” e diventare la base ideale anche dei lavoratori. Per farlo bisognerà smettere di focalizzarsi sulle scelte individuali e costruire un movimento in cui masse di persone comprendano che tutte le nostre crisi – climatiche, sanitarie e abitative – sono interrelate, e richiedono di combattere le industrie che ne traggono profitto

In questi giorni è uscito un interessante saggio di Matt Huber, professore di geografia alla Syracuse University, che prova a tracciare una proposta di politica ecologica capace di coinvolgere anche la classe lavoratrice, per un ambientalismo di sinistra che, per diventare egemonico, non può prescindere dalle relazioni con il mondo del lavoro e dei lavoratori. L’analisi si inserisce in un filone di pensiero che anche in Italia vanta numerosi contributi (dal lavoro di Emanuele Leonardi a quello di Riccardo Mastini, per citarne alcuni), anche se con sfumature lievemente differenti. Nella prima parte, Huber traccia un’importante analisi delle forme di ambientalismo di oggi:
– quella basata sull’impronta ecologica (quindi l’insostenibilità dei consumi), che sostiene che con il cambio degli stili di vita possiamo risolvere l’attuale crisi, dimenticando che non è tanto la domanda che influenza l’offerta, quanto la concentrazione dei mezzi di produzione a determinare la domanda. Se si accolla a tutti i consumatori la stessa responsabilità di un pianeta sempre più insostenibile, inoltre, si fa un errore. Bisogna cercare invece le responsabilità lungo la filiera, caricandole in primo luogo sulle spalle di chi detiene il maggior potere (e quindi restringe l’offerta influenzando i consumi). In pratica, non bisogna prendersela tanto con chi soddisfa i suoi bisogni a malapena, chiedendogli pure di “decrescere”, quanto con chi trae profitto dalla produzione.
– quella denominata “ambientalismo della sussistenza”, che cerca le soluzioni al capitalismo ai margini del sistema, laddove indigeni e piccole comunità sono in lotta per conservare le risorse naturali da cui dipendono. Il problema di questa visione è l’essere per definizione marginale: rischia di non produrre, cioè, un movimento più ampio. Giusto quindi appoggiarla, secondo Huber, ma non utilizzarla come paradigma per aggregare le folle.

– quella della giustizia ambientale, che si focalizza sugli impatti, dimostrando che le fasce più povere ed emarginate, nelle città e anche nelle diverse regioni del mondo, sono le più colpite dalle esternalità negative della produzione (inquinamento, cambiamenti climatici). A partire da questo, chiede che a pagare siano gli inquinatori e che a guidare il cambiamento sia proprio chi ha subito le angherie ambientali sulla propria pelle. L’esperienza diretta di questi impatti conferirebbe lo status politico per capitanare la transizione, in questo avvicinando l’approccio della giustizia ambientale alla visione “indigenista”.
Il limite è che, a 30 anni dalla sua nascita, questa teoria non ha cambiato le cose: i poveri e le minoranze sono ancora esposti agli effetti peggiori di clima e inquinamento. Senza un allargamento della base sociale, queste battaglie non riusciranno a sovvertire gli equilibri fra le corporation che inquinano in tutto il mondo e i popoli di marginali che subiscono localmente gli effetti. Alcuni teorizzano una radicalizzazione ulteriore di queste battaglie che mettano fra gli obiettivi non solo il settore privato, ma anche lo Stato che non vigila e non tutela i suoi cittadini: per attaccare un sistema neoliberale che vede nello “Stato minimo” il successo per l’espansione del capitale, è una strategia corretta. Ma manca comunque della necessaria visione politica propositiva da costruire dopo un’eventuale vittoria contro le autorità o le imprese nocive.
Nella seconda parte, il saggio di Matt Huber si chiede come sarebbe, a questo punto, una politica ecologica per la classe lavoratrice. Il successo, secondo il professore, si avrà se l’ambientalismo saprà uscire dal mondo dei “professionisti” e diventare la base ideale anche dei lavoratori. Per farlo deve smettere di focalizzarsi sulle scelte individuali, l’austerità come via obbligata per ridurre consumi ed impatti, la magnificazione della scienza come unico paradigma per la salvezza. La chiave sarebbe costruire un movimento in cui masse di persone comprendano che tutte le nostre crisi – climatiche, sanitarie e abitative – sono interrelate, e richiedono di combattere le industrie che ne traggono profitto.
Ma come? Huber sostiene che non dobbiamo solo concentrarci sull’impedire la mercificazione della natura, ma anche svincolare la dipendenza della classe lavoratrice dal sistema di mercato. Nella pratica questo si traduce in politiche pubbliche molto precise: ad esempio, un piano di edilizia residenziale pubblica potrebbe incorporare criteri ecologici da un lato, dall’altro abbattere le bollette per gli inquilini e quindi il consumo di energia. Oppure un piano di trasporto pubblico gratuito e universale potrebbe ridurre la dipendenza dall’auto privata e quindi l’inquinamento. In società profondamente diseguali e precarie, queste politiche possono avere una presa importante, come dimostrano le proposte di Green New Deal negli USA o del labour in UK.

Dobbiamo ragionare sul diritto fondamentale ai servizi di base: non solo la sanità, ma anche l’accesso al cibo o l’energia. In sostanza si tratta di allargare gli spazi di vita non sottoposti all’accumulazione del capitale. Nel far questo, non può sfuggirci la necessità di trasferire numerose industrie chiave (i cosiddetti monopoli naturali come ferrovie, autostrade, reti energetiche e idriche…) dalla proprietà privata a quella pubblica, in modo che gli obiettivi ambientali prevalgano sulla logica del profitto. Mentre le campagne sulla crisi climatica sono spesso viste come fatto astratto dalle fasce più deboli e precarie, quelle sui servizi pubblici gratuiti riscuotono maggiore consenso.
Come si finanzia tutto questo? Secondo Huber, tassando duramente i super-ricchi e gli inquinatori, e riportando sotto il controllo pubblico i suddetti monopoli naturali, sostenuti sia da questo aumento della tassazione sul grande capitale che dalle nostre tasse (che già paghiamo). Per avere l’appoggio dei lavoratori serve infine costruire un “sindacalismo ecologico”, che individui in queste prospettive delle soluzioni e ne faccia degli obiettivi politici, contribuendo a mobilitare i lavoratori.
La conclusione del saggio, in sostanza, è: da una visione della sinistra come “resistenza” alla travolgente ondata del capitalismo estrattivo, dobbiamo passare a costruire una visione di “come togliergli il potere e riprendercelo”. Non servono think tank o grandi studi: il movimento è già tutto a noi, frammentato e disilluso. Bisogna organizzarlo.
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