La grande rivolta giovanile nelle università degli Stati Uniti non smette di crescere e mostra una meraviglia di organizzazione e l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le kefiah fanno parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade delle grandi città. “Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento mediatico faranno retrocedere il movimento – scrive in un reportage di grandissimo interesse Raúl Zibechi da Philadelphia e Los Angeles – Il percorso di queste settimane e già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte…”
Brecha (settimanale uruguayano per il quale hanno scritto, tra gli altri, Eduardo Galeano e Mario Benedetti, ndr) ha girato gli accampamenti nelle università della Pennsylvania e di Los Angeles, mentre migliaia di studenti in tutti gli Stati Uniti manifestavano contro l’aggressione di Israele a Gaza, chiedendo di porre fine agli affari redditizi tra le istituzioni educative e il regime di apartheid di quel paese. In pieno anno elettorale, la protesta preoccupa il governo e le élite statunitensi.
Il 17 aprile gli studenti della prestigiosa Università Columbia di New York hanno iniziato a piantare tende nel campus in solidarietà con Gaza. La polizia ha provato a sgomberare ma hanno resistito. La repressione ha indignato studenti e insegnanti e ha attirato un gran numero di persone all’accampamento. Una settimana dopo, quando centinaia di studenti si sono riuniti in uno spazio centrale dell’accogliente campus dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, c’erano già più di sessanta accampamenti in tanti altri edifici accademici.
Quest’esplosione di attivismo ha mostrato l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza. A Philadelphia i più attivi sono stati i giovani bianchi, spesso circondati da afroamericani; tanti anche i migranti latini che mostravano whipalas e bandiere messicane, un gruppo di mussulmani pregavano inginocchiati indossando abiti tradizionali, c’erano moltissime giovani donne e persone queer e trans. Alcuni professori si sono avvicinati con cartelli scritti a mano, manifestando il loro appoggio agli studenti, continuamente minacciati di rappresaglia. Un piccolo gruppo di ragazze ebree si è unito, con il prezioso e audace appoggio degli ebrei antisionisti alla ribellione causata da una guerra che sentono profondamente ingiusta, che non li rappresenta ed è una macchia indelebile nella storia dell’ebraismo. I canti risuonavano forti, cantati da una moltitudine che faceva eco ai “Viva la Palestina”. Né a Philadelphia né in nessun altro campus ha sentito il minimo insulto alla condizione di ebreo o di israeliano, nonostante ciò che dicono i media.
“Qui c’è una parte della generazione di Occupy”, dice a Brecha un docente di origine peruviana di nome George, riferendosi al movimento Occupy Wall Street. Aggiunge che queste sono le mobilitazioni studentesche più grandi dalla guerra del Vietnam, un famoso commento che ormai è diventato di buon senso. Un piccolo gruppo chiede come furono smantellate le enormi proteste di Occupy Wall Street nel 2011, quando ci furono grandi manifestazioni in 52 città contro l’1 per cento più ricco della popolazione. “La repressione fu molto forte, con moltissimi arresti”, concludono in molti, ma una voce aggiunge che ci furono anche molte dispute interne tra le varie correnti della sinistra radicale, nella quale anarchici e marxisti inaspriscono le mobilitazioni fino a consumarle.
La pietra nello stagno
La Columbia ha fatto il primo passo, solido, potente, con un gran numero di studenti manifestanti, ma la reazione a catena è stata impressionante. In due settimane sono sorti più di 100 accampamenti e giorni dopo la cifra si è andata moltiplicando, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le occupazioni in California sono in parte diverse da quelle della costa orientale. La più numerosa e simbolica, quella del campus dell’Università di California, Los Angeles (UCLA), ha mostrato un ampio nucleo militante molto ben organizzato, capace di garantire cibo e assistenza sanitaria a centinaia di accampati, ma con alcune caratteristiche simili a quelle dell’accampamento della Columbia.
L’ingresso dei visitatori solidali era a carico di un gruppo di sicurezza con volti coperti e criteri stabiliti per evitare contrattempi, perché piccoli gruppi sionisti spesso provocavano e aggredivano i campeggiatori, con l’atteggiamento passivo e complice della polizia. Quando è stato annunciato lo sgombero della fortezza in cui si era trasformato il campo della UCLA, barricato da tutte e quattro i lati, i manifestanti hanno deciso di dividersi secondo tre colori: con il rosso chi non aveva problemi ad essere arrestato, con il verde o giallo chi non voleva. Nella lunga notte dello sgombero la polizia ha arrestato 200 giovani, circondati da mille mani solidali che gli portavano da mangiare, che manifestavano fuori dai commissariati contattando media o avvocati difensori. Una meraviglia di organizzazione in cui risaltano vastissime reti di solidarietà quasi spontanee, sorte dal senso comune dell’autodifesa non violenta.
È stato sorprendente arrivare fino all’Occidental College, un’università relativamente piccola in una zona benestante della città, sopra una collina. Più di cento tende in un ambiente rilassato, senza problemi con le autorità accademiche né con la polizia, che non si è mai presentata. L’unica guardia di sicurezza indicava ai visitatori dove si trovava l’accampamento. Invece la California State University, in un lontano quartiere di lavoratori e migranti, mostrava uno stile simile a quello delle grandi occupazioni, anche se con meno partecipanti.
Nei fatti ogni accampamento è un mondo a parte secondo il settore sociale a cui appartengono gli studenti, anche se è evidente che hanno molto in comune, nella forma come negli obiettivi. Uno di questi è il “disinvestimento”, disinvestire in tutte le aziende che fanno affari con Israele e con i fabbricanti di armi, obiettivo che alcune università sono vicine a conseguire e che è stato una delle richieste centrali oltre il cessate il fuoco.
Come evidenzia l’analisi del portale anarchico CrimethInc, “le università dipendono dai finanziamenti e dalle relazioni di ricerca con militari, produttori di armi e sionisti”. In accordo con il Dipartimento di Educazione statunitense, negli ultimi vent’anni un centinaio di università hanno reso note donazioni da Israele o contratti con il paese per il valore di 375 milioni di dollari, una cifra che un’analisi di Associated Press considera molto sottostimata rispetto al valore reale ancora da calcolare. La quantità di denaro investito dalle università degli Stati Uniti in aziende e progetti israeliani dell’industria bellica e di sicurezza è al momento sconosciuta. Gli studenti dell’Università del Michigan affermano che la loro istituzione invia più di 6.000 milioni di dollari a manager di investimento legati a imprese o contraenti israeliani. Secondo CrimethInc, che segue da vicino il movimento delle occupazioni, “la richiesta essenziale di vedere i palestinesi come esseri umani è incompatibile con i programmi del governo e delle università statunitensi”, perché questo paese “ha bisogno di Israele come socio strategico per mantenere la sua presenza in Medio Oriente”.
Mentre sgomberavano la UCLA, in altri atenei si preparavano per gettarsi nella mischia, come a Binghamton e Santa Cruz, quasi agli estremi di questa inafferrabile geografia. Inizia a nascere un sentimento comune ai giovani di rifiuto del massacro indiscriminato di bambini e bambine, che si esprime appena ve n’è possibilità, e le possibilità non sono poche nell’edificio lacerato del potere statunitense. In alcuni quartieri di New York ci sono più bandiere palestinesi che nelle città dell’America Latina. Nel New Jersey per esempio, anche nelle periferie come Paterson, città antesignana dell’industrializzazione, oggi abitata da peruviani, asiatici e arabi. Le kefiah fanno parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade della Grande Mela.
Lo specchio del Vietnam
Le proteste contro la guerra in Vietnam, in cui gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo decisivo impiegando mezzo milione di soldati, sono iniziate nel 1963 e l’anno seguente centinaia di giovani iniziarono a bruciare in pubblico le cartoline di precetto per rifiuto al reclutamento. Con gli anni gli studenti sono diventati il centro della protesta, a cui si sono unite madri di soldati, afroamericani che protestavano contro la segregazione razziale, fino ai principali ambiti della società, tra i quali spiccano i militari veterani.
Ci furono enormi azioni di massa, come quella del 21 Ottobre 1967, quando 100 mila persone si riunirono davanti al monumento a Lincoln a Washington e più tardi almeno altre 50 mila circondavano il Pentagono. Nell’aprile del 1971 mezzo milione di persone marciò a Washington contro il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam. L’escalation di mobilitazioni giovanili cambiò il paese, che si polarizzò tra chi appoggiava e chi rifiutava la guerra. Il movimento ebbe una durata notevole e una decadenza lunga e turbolenta. Nel 1966 si era già esteso all’intero paese e a febbraio di quell’anno 100 militari tentarono di entrare nella Casa Bianca per restituire al presidente le loro medaglie. L’opposizione alla guerra continuò a raccogliere seguaci, a tal punto che la maggioranza assoluta degli statunitensi esprimeva il suo rifiuto nei sondaggi. Nonostante la repressione e l’infiltrazione di agenzie statali come l’FBI e la CIA, le manifestazioni non smisero di crescere e di espandersi, giocando un ruolo a parte nel formarsi di una coscienza globale contro la guerra in Vietnam. Artisti come Joan Baez e Bob Dylan, atleti come Muhammad Ali e moltissime altre note personalità contribuirono a espandere la coscienza del fatto che il loro paese non avrebbe dovuto combattere nel sudest asiatico.
Negli anni della guerra migliaia di reclute disertarono (le stime oscillano tra 80 mila e 206 mila); si calcola che mezzo milione di soldati abbandonò l’esercito e altro mezzo milione si licenziò senza onori, per disobbedienza. Cifre allucinanti che portarono la Casa Bianca a sospendere il servizio militare obbligatorio nel 1973. L’appoggio alla guerra cadde dal 61 per cento nel 1965 al 28 per cento nel 1971, ma alcuni fatti mostrano l’entità dell’opposizione: “Nel 1969, durante la cerimonia di apertura del corso della prestigiosa Brown University, due terzi dei laureati diedero le spalle a Henry Kissinger quando si alzò per pronunciare il discorso”, ha scritto lo storico Howard Zinn.
È evidente che la memoria di questo enorme ciclo di proteste aleggia sull’attivismo giovanile che trabocca dalle università. Però non è giusto fare troppi parallelismi o rallegrarsi troppo. L’1 per cento della popolazione quest’anno si sta giocando troppo. La vicinanza delle elezioni di Novembre sta accelerando i tempi della repressione, come si vede in questi giorni in cui sono state arrestate più di duemila persone che manifestavano nelle università. Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento mediatico faranno retrocedere il movimento. Il percorso di queste settimane e già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte.
Per gli analisti più critici, come il citato CrimethInc, gli Stati Uniti vivono una situazione inedita per l’alleanza tra repubblicani e democratici in sostegno di Israele. “Questo crea una situazione che potrebbe essere unica tra tutte le proteste di massa della storia recente”, afferma il portale. Come esempio cita la ribellione davanti all’omicidio di George Floyd nel 2020, soffocato dal ginocchio di un agente bianco. I grandi media e i democratici hanno tollerato le proteste senza censurarle o reprimerle, perché “pensavano di poterne approfittare per costruire una base elettorale contro Trump durante l’anno elettorale”.
Ottobre nello specchietto retrovisore
La percentuale di votanti che approva la gestione del presidente Biden è la più bassa mai registrata, secondo Gallup. Con il 38,7% di sostegno resta sotto anche a Bush padre, che aveva il 41,8% e ha potuto governare per un solo mandato. Se si osserva la grafica, è troppo piatta, e secondo l’impresa di opinione pubblica la popolarità di Biden “non mostra segni di aumento” (Gallup News, 26-IV-24). La stessa impresa sostiene che l’opposizione a Biden continua a crescere e si situa già nel 58% dell’elettorato. Nel frattempo l’indice di fiducia economica è meno del 29% e solo il 23% crede che le cose vadano bene negli Stati Uniti. Secondo i sondaggi l’immigrazione è considerata il primo problema e a livello finanziario l’inflazione è la preoccupazione più lontana dell’elettorato. Il fatto più noto però è che solo il 27% approva il suo coinvolgimento nella crisi tra Gaza e Israele. Una parte sostanziale delle critiche vengono dal suo stesso partito. La settimana scorsa 88 membri del Partito Democratico al Congresso hanno firmato una lettera diretta al presidente in cui denunciano gli ostacoli imposti da Israele agli aiuti umanitari nella striscia di Gaza, affermando che ci sono sufficienti prove per dire che la legge statunitense è stata violata.
In più aleggia il fantasma delle primarie nel Michigan, lo scorso Febbraio, quando 100 mila votanti democratici, per la maggioranza di origini arabe, oltre a giovani e progressisti, hanno voltato le spalle a Biden per via del suo appoggio incondizionato a Israele. “Storicamente, i capi di governo che vogliono essere rieletti con indici di approvazione inferiori al 50% poco prima delle elezioni, hanno perso”, evidenzia Gallup. Il ruolo degli elettori indipendenti sarà decisivo alle presidenziali di Novembre, oltre a un 10% di democratici che non voterebbe Biden anche se questo significasse il ritorno di Trump.
Con il passare dei giorni iniziano ad apparire dati rivelatori sull’atteggiamento della polizia, come il caso dello sgombero alla UCLA. “La notte di martedì un gruppo di persone in maschera ha circondato l’accampamento, lanciando petardi e attaccando violentemente gli studenti. Studenti e giornalisti di diverse testate hanno raccontato che le forze di sicurezza assunte dell’ateneo si sono rinchiuse in edifici là vicino e che la polizia è stata a guardare per ore prima di intervenire” (The Guardian, 2-V-24). Addirittura il pro Israele e lealista New York Times ha dovuto riconoscere, dopo aver revisionato 100 video, che “dei contromanifestanti” sionisti con indosso maschere bianche hanno attaccato l’accampamento pro Palestina per cinque ore davanti alla passività delle forze dell’ordine. Ovviamente il quotidiano newyorchese non ha detto che i violenti erano sionisti, ha detto solo che erano contro i manifestanti. The Times of Israel, edito a Gerusalemme, titola: “Studenti ebrei dicono che la violenza pro Israele nel campo di protesta della UCLA ne ha indebolito la difesa” (2-V-24). “La federazione ebraica di Los Angeles si è fatta portavoce del messaggio in una rara dichiarazione in cui critica le azioni dei sionisti nel campus”, scrive il quotidiano, e aggiunge che ora il prestigio di chi difende Israele è caduto molto in basso. Fatti come quelli della UCLA pongono due questioni fondamentali: che neanche i media più rispettabili possono più nascondere le atrocità del potere, e che il discorso di Biden che accusa gli studenti di violenza è molto lontano dalla realtà.
[10 maggio 2024]
[Traduzione per Comune di Leonora Marzullo]
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REVUELTA JUVENIL EN LAS UNIVERSIDADES DE ESTADOS UNIDOS
Una luz de esperanza
Raúl Zibechi desde Filadelfia y Los Ángeles
10 mayo, 2024
Brecha recorrió las acampadas de las universidades de Pensilvania y de Los Ángeles, mientras miles de estudiantes a lo largo de Estados Unidos se manifiestan contra la agresión de Israel en Gaza y piden terminar con los lucrativos negocios entre sus instituciones educativas y el régimen de apartheid de ese país. En pleno año electoral, el levantamiento preocupa al gobierno y a la élite estadounidenses.
El 17 de abril, los estudiantes de la prestigiosa Universidad de Columbia, en Nueva York, iniciaron un campamento en el campus en solidaridad con Gaza. La Policía intentó desalojarlos, pero resistieron. La represión indignó a estudiantes y profesores y atrajo a un mayor número de personas a la acampada. Una semana después, cuando cientos de estudiantes se desplegaron en un espacio central del coqueto campus de la Universidad de Pensilvania, en Filadelfia, ya eran más de 60 los campamentos en otros tantos establecimientos académicos.
La explosión de activismo exhibió la increíble diversidad de quienes exigen detener la matanza en Gaza. En Filadelfia, los más activos parecían jóvenes blancos, a menudo rodeados de afroamericanos; abundaban migrantes latinos que desplegaban desde wipalas hasta banderas mexicanas, un grupo de musulmanes rezaban arrodillados ataviados con sus vestidos tradicionales, podía verse a muchísimas mujeres jóvenes y personas queer y trans. Algunos profesores se acercaron con cartelitos manuales que enseñaban su apoyo a los estudiantes, siempre amenazados de represalias.
Un pequeño grupo de chicas judías se manifestaba enseñando el valioso y valiente apoyo de judíos antisionistas a la rebeldía causada por una guerra que sienten profundamente injusta, que no los representa y que es una mancha indeleble en la historia del judaísmo. Los cánticos sonaban contundentes y eran coreados por una multitud que hacía eco a los «vivas» a Palestina. No pude escuchar, ni en Filadelfia ni en ningún otro campus, el menor insulto a la condición de judío o de israelí, pese a lo que dicen algunos medios.
«Aquí está una parte de la generación de Occupy», dice a Brecha un docente de padres peruanos, de nombre George, en referencia al movimiento Occupy Wall Street de la década pasada. Agrega que estas son las mayores movilizaciones estudiantiles desde la guerra de Vietnam, comentario habitual convertido ya en sentido común. Una pequeña ronda responde cómo fue que se dispersaron las enormes protestas de Occupy Wall Street en 2011, cuando hubo grandes manifestaciones en 52 ciudades en contra del 1 por ciento más rico. «La represión fue muy fuerte, con detenciones masivas», concluyen varios, pero una voz agrega que hubo fuertes disputas internas entre las diversas corrientes de la izquierda radical, en la que anarquistas y marxistas suelen agriar las movilizaciones hasta desgastarlas.
LA PIEDRA EN EL ESTANQUE
Columbia dio el primer paso, sólido, potente, con una gran cantidad de estudiantes movilizados. Pero la cascada fue impresionante. En dos semanas había más de 100 campamentos y días después la cifra se duplicaba largamente, con contagios europeos incipientes.
Las ocupaciones en California son parcialmente diferentes a las que se registran en la costa este. La más numerosa y simbólica, la del campus de la Universidad de California, Los Ángeles (UCLA), mostró un amplio núcleo militante muy bien organizado, con capacidad de asegurar la alimentación y la asistencia sanitaria a centenares de campistas, pero con algunas características propias que se registraron también en Columbia.
El ingreso de visitantes solidarios estaba a cargo de un grupo de seguridad bien plantado, con rostros cubiertos y con criterios consensuados para evitar contratiempos, ya que pequeños grupos sionistas provocaron y agredieron a menudo a los acampados, con la pasividad cómplice de la Policía. Cuando se anunció la inminente desocupación de la fortaleza en la que se había convertido el campamento de la UCLA, amurallado con tablones por los cuatro costados, los acampados tomaron la decisión de dividirse según tres colores: en rojo los que no tenían problema en ser arrestados, en verde o amarillo los que no querían ser detenidos.
La larga noche del desalojo, la Policía detuvo a unos 200 jóvenes, rodeados de miles de manos solidarias que les llevaron alimentos, se movilizaron fuera de las comisarías y se contactaron con medios y abogados defensores que lucían cascos verdes. Una maravilla de organización en la que destacan los amplísimos cordones de solidaridad casi espontáneos, surgidos del sentido común de la autodefensa no violenta.
Sorprendente fue llegar hasta Occidental College, una universidad relativamente pequeña en una zona acomodada de la ciudad, sobre una colina. Más de 100 carpas en un ambiente distendido, sin problemas con las autoridades académicas ni con la Policía, que nunca se hizo presente. El único guardia de seguridad indicaba a los visitantes dónde se situaba el campamento. Sin embargo, la California State University, en un alejado barrio de trabajadores y migrantes, lucía estilos similares a los de las grandes ocupaciones, aunque con menos participantes.
En los hechos, cada campamento es un mundo aparte según el sector social al que pertenecen los estudiantes, aunque es evidente que tienen mucho en común, tanto en la estética como en los cánticos y los objetivos. Uno de ellos es la «desinversión», desinvertir en todas las empresas que hacen negocios con Israel y con los fabricantes de armas, algo que están en vías de conseguir en algunas universidades y ha sido una de las demandas centrales además del cese de la guerra.
Como señala el análisis del portal anarquista CrimethInc, «las universidades dependen de la financiación y de las relaciones de investigación con los militares, los fabricantes de armas y los sionistas». De acuerdo al Departamento de Educación estadounidense, en las últimas dos décadas unas 100 universidades han informado sobre donaciones de Israel o contratos con ese país por unos 375 millones de dólares, una cifra que un análisis de Associated Press considera muy por debajo del monto real aún a estimar. La cantidad de dinero invertido por las universidades estadounidenses en empresas y proyectos israelíes de la industria armamentística y de seguridad es hasta el momento desconocida. Los estudiantes de la Universidad de Michigan afirman que esa institución envía más de 6.000 millones de dólares a administradores de inversiones con vínculos con empresas o contratistas israelíes. Según CrimethInc, que sigue de cerca el movimiento de ocupaciones, «la exigencia básica de ver a los palestinos como seres humanos es incompatible con las agendas del gobierno y las universidades de Estados Unidos», porque este país «necesita a Israel como socio estratégico para mantener su presencia en Oriente Medio».
Mientras estaban desalojando la UCLA, en otras universidades se preparaban para lanzarse al ruedo, como sucedió en Binghamton y Santa Cruz, en extremos casi opuestos de esta inabarcable geografía. Empieza a nacer un sentido común de los jóvenes de rechazo a la matanza indiscriminada de niños y niñas, que se expresa apenas encuentran alguna posibilidad, que no son pocas en el agrietado edificio del poder estadounidense.
En algunos barrios de Nueva York pueden verse más banderas palestinas que en las ciudades latinoamericanas. En Nueva Jersey, por ejemplo, pero también en suburbios de este estado, como Patterson, la ciudad precursora de la industrialización, poblada ahora por peruanos, asiáticos y árabes. Las kufiyas forman ya parte del escenario urbano en metros, trenes y calles de la Gran Manzana.
EL ESPEJO DE VIETNAM
Las protestas contra la guerra de Vietnam, en la que Estados Unidos jugó un papel decisivo y se involucró con medio millón de soldados, comenzaron en 1963 y al año siguiente cientos de jóvenes comenzaron a quemar en público sus cartillas militares en rechazo al reclutamiento. Con los años, los estudiantes se convirtieron en el centro de la protesta, a la que se fueron sumando madres de soldados, afroamericanos que se habían movilizado contra la segregación racial y luego los principales sectores de la sociedad, entre los que se destaca el papel de los veteranos militares.
Hubo gigantescos actos de masas y acciones audaces, como la realizada el 21 de octubre de 1967, cuando 100 mil personas se manifestaron frente al monumento a Lincoln en Washington y más tarde al menos unas 50 mil rodearon el Pentágono. En abril de 1971, medio millón de personas marcharon en Washington contra la participación de Estados Unidos en Vietnam. La escalada de movilizaciones juveniles cambió al país, que se polarizó entre quienes apoyaban y rechazaban la guerra. El movimiento tuvo una notable duración, una larga y conflictiva década. En 1966, ya se había extendido a todo el país y en febrero de ese año 100 militares intentaron ingresar a la Casa Blanca para devolverle al presidente sus condecoraciones.
La oposición a la guerra fue ganando adeptos, a tal punto que la mayoría absoluta de los estadounidenses manifestaban su rechazo en las encuestas. Pese a la represión y a la infiltración de agencias estatales como el FBI y la CIA, las movilizaciones no dejaron de crecer y expandirse, jugando un papel destacado en la formación de una conciencia global contra la guerra en Vietnam. Artistas como Joan Báez y Bob Dylan, atletas como Muhammad Ali y cientos de personalidades contribuyeron de forma notable a expandir la conciencia de que su país no debía combatir en el sudeste asiático.
Durante los años de guerra desertaron miles de reclutas (las estimaciones oscilan entre 80 mil y 206 mil); se calcula que medio millón de soldados abandonaron el Ejército y otro medio millón se licenciaron sin honores por desobediencia, cifras alucinantes que llevaron a la Casa Blanca a suspender el servicio militar obligatorio en 1973. El apoyo a la guerra cayó de un 61 por ciento en 1965 al 28 por ciento en 1971, pero algunos hechos muestran el tamaño del rechazo: «En la ceremonia de apertura del curso de 1969 de la prestigiosa Universidad de Brown, dos tercios de los graduados dieron la espalda a Henry Kissinger cuando se levantó para pronunciar su discurso», escribió el historiador Howard Zinn.
Es evidente que la memoria de ese notable ciclo de protestas sobrevuela el activismo juvenil que está empezando a desbordar las universidades. Sin embargo, no sería adecuado trazar excesivos paralelismos o lanzar las campanas al vuelo. El 1 por ciento se juega demasiado este año. La proximidad de las elecciones de noviembre está acelerando los tiempos de la represión, como puede verse en estos días, en los que fueron detenidas más de 2 mil personas que se manifestaban en las universidades. Imposible saber si la represión y el bombardeo mediático conseguirán hacer retroceder el movimiento. Lo andado en estas tres semanas es ya bastante trascendente y toda una luz de esperanza para quienes se involucraron.
Para los analistas más críticos, como el citado medio CrimethInc, Estados Unidos vive una situación inédita por la alianza en respaldo de Israel entre republicanos y demócratas. «Esto crea una situación que puede ser única entre todas las luchas de masas de la historia reciente», señala el portal. Como ejemplo, coloca la rebelión ante el asesinato policial de George Floyd en 2020, ahogado por la rodilla de un policía blanco. Los grandes medios y los demócratas toleraron las protestas sin censurarlas o rechazarlas porque «pensaron que podrían aprovechar esas protestas para construir una base electoral contra Trump durante un año electoral».
OCTUBRE EN EL RETROVISOR
El porcentaje de votantes que aprueba la gestión del presidente Biden es el más bajo desde que existen registros, según Gallup. Con 38,7 por ciento de apoyo, está incluso por debajo de Bush padre, quien tuvo el 41,8 por ciento y pudo gobernar un solo período. Si se observa la gráfica, es demasiado chata, y según la empresa de opinión pública la popularidad de Biden «no muestra signos de aumentar» (Gallup News, 26-IV-24).
La misma empresa sostiene que el rechazo a Biden sigue creciendo y ya se sitúa en el 58 por ciento del electorado. En tanto, el índice de confianza económica es de menos del 29 por ciento y solo el 23 por ciento cree que las cosas van bien en Estados Unidos. Según las encuestas, la migración es considerada como el primer problema y, a nivel financiero, la inflación ocupa el lugar más destacado entre las preocupaciones del electorado.
Lo más notorio, sin embargo, es que solo el 27 por ciento aprueba su desempeño en la crisis entre Israel y Gaza. Una parte sustancial de las críticas las recibe de su propio partido. La semana pasada, 88 miembros del Partido Demócrata en el Congreso firmaron una carta dirigida al presidente en la que denuncian los obstáculos impuestos por Israel a la ayuda humanitaria en la Franja de Gaza, afirmando que hay suficiente evidencia para decir que se ha violado la ley estadounidense.
Sobrevuela además el fantasma de las primarias de Michigan, el pasado mes de febrero, cuando 100 mil votantes demócratas, en su mayoría de origen árabe, además de jóvenes y progresistas, le dieron la espalda a Biden por su política de apoyo incondicional a Israel. «Históricamente, los gobernantes que buscan la reelección con índices de aprobación inferiores al 50 por ciento justo antes de las elecciones han sido derrotados», destaca Gallup. El papel de los independientes será decisivo en las presidenciales de noviembre, además de un 10 por ciento de demócratas que no estarían dispuestos a votar por Biden aunque eso signifique el retorno de Trump.
Con los días comienzan a aparecer datos reveladores sobre la actitud policial, como es el caso del desalojo de la UCLA. «El martes por la noche, un grupo enmascarado rodeó el campamento en solidaridad con Gaza, lanzó fuegos artificiales y atacó violentamente a los estudiantes. Estudiantes y periodistas de múltiples medios dijeron que las fuerzas de seguridad contratadas por la universidad se encerraron en edificios cercanos y la Policía observó durante horas antes de intervenir» (The Guardian, 2-V-24). Incluso el proisraelí y oficialista The New York Times debió reconocer un día después que los demás, luego de revisar 100 videos, que hubo «contramanifestantes» sionistas con máscaras blancas que durante cinco horas atacaron violentamente el campamento propalestino ante la pasividad policial. Evidentemente, el diario neoyorquino no menciona que los violentos fueran sionistas, sino apenas opuestos a los acampados. The Times of Israel, editado en Jerusalén, titula: «Estudiantes judíos dicen que la violencia proisraelí en el campamento de protesta de UCLA socavó su defensa» (2-V-24). «La federación judía de Los Ángeles se hizo eco de ese mensaje en una rara declaración criticando las acciones de los judíos en el campus», destaca el diario, y agrega que ahora el prestigio de quienes defienden a Israel ha caído muy bajo. Hechos como los sucedidos en la UCLA enseñan dos cuestiones fundamentales: que los medios más respetables ya no pueden callar los atropellos del poder y que el discurso de Biden que acusa a los estudiantes de violentos está bien alejado de la realidad.
Fiorella Palomba dice
Brave e bravi! Era il novembre del 1967 quando l’università Cattolica di Milano fu occupata per protestare contro la guerra in Vietnam. Io c’ero e questo ha cambiato la mia vita. 🌸
Zavoli Gian Franco dice
Gli omicidi e le guerre avvengono perchè nell’inconscio umano esiste l’istinto di uccidere per sopravvivere. Tutti gli esseri viventi sono obbligati di mangiare, ma sfortunatamente nessuno è capace di creare il cibo senza uccidere cellule animali e vegetali. Gli esseri umani che sono i più avanzati, hanno creato dei mattatoi, dove si uccidono dalla mattina alla sera, esseri viventi più grandi di loro, come le mucche e tante altre specie. Sfortunatamente la scienza non è ancora capace di creare il cibo senza uccidere e questo la dice lunga sulla nostra arretratezza. Se riusciamo a creare il cibo senza uccidere, possiamo far scomparire questo istinto di uccidere che porta alle guerre ed agli omicidi. Se non ci riusciamo, con le bombe atomiche sempre più potenti, possiamo metter fine alla specie umana e non solo. La cosa la più importante da ricercare è di creare il cibo senza uccidere, se vogliamo far scomparire questo istinto dal nostro inconscio, altrimenti ci dobbiamo considerare tutti assassini per sempre.