Esistono esperienze di uomini di diserzione dall’ordine patriarcale. Si tratta di percorsi che si sono intrecciati con la critica nonviolenta della politica e dunque con l’idea di potere. Percorsi maturati intorno a domande importanti: viviamo nel patriarcato o il patriarcato siamo noi? cos’è la “mascolinità egemonica”? come possiamo interrogarci insieme sul nostro modo di vivere la maschilità nella vita di ogni giorno? La prefazione del libro Maschilità smascherata. L’esperienza del gruppo GNAM (Gruppo Nonviolento di Autocoscienza Maschile)
Questo libro si conclude con un invito agli uomini: “diamoci una mossa”. Il modo di pensare il mondo, la politica, la scienza, le relazioni, l’amore che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti mostra in modo sempre più evidente i propri effetti oppressivi e distruttivi. Oppressione verso le donne e tutte le vite che non corrispondono al modello del maschio bianco eterosessuale, distruzione della natura e delle relazioni sociali ma, anche miseria nella vita di noi uomini, nelle nostre relazioni tra maschi, nella nostra sessualità, nel nostro incontro con le donne.
Questo è uno dei punti chiari sin dall’inizio del libro: esistono esperienze e percorsi di uomini di “diserzione” dall’ordine patriarcale dominante e questa diserzione si fonda su due elementi strettamente legati: un’assunzione di responsabilità rispetto al privilegio maschile, alle relazioni di dominio tra sessi e alle forme di stigma e discriminazione verso orientamenti sessuali e identità di genere differenti, e, al tempo stesso, un desiderio di libertà per se stessi, per le proprie vite. Un elemento senza l’altro rischia di rendere monco un percorso politico e personale maschile di cambiamento: o l’impegno volontaristico, un po’ di superficie degli uomini “buoni” che si fanno carico delle oppressioni generate dal patriarcato, che può diventare l’atto di riparazione degli uomini che se ne sentono colpevoli, oppure l’altrettanto ambigua ricerca di un maschile originario e puro, libero dalle scorie patriarcali, ma anche dai “pregiudizi ostili” e dei vincoli imposti dal femminismo e dal politicamente corretto. Insomma o la ricerca di un’autenticità che ci assolva o di una espiazione che ci redima.
Il gruppo GNAM, invece, prova a parlare di responsabilità e desiderio: assumersi la responsabilità di un sistema e di una cultura alla quale non possiamo dirci estranei e desiderio di liberarsi dei vincoli, dei condizionamenti e delle miserie che questo sistema implica per le nostre vite (incontrerete questa domanda: viviamo nel patriarcato o il patriarcato siamo noi?).
Questo sentiero stretto ha una sua originalità, ed è restato spesso invisibile, sommerso, certamente minoritario rispetto ad altre reazioni maschili al cambiamento. Sono molto più conosciute le associazioni che strumentalizzano il disagio dei padri separati per alimentare un revanscismo misogino e sempre un po’ reazionario. Incontriamo tutti le battute insofferenti verso “la dittatura del politicamente corretto” fatte da un commensale a cena o da un editorialista ben retribuito per dispensare luoghi comuni su un grande quotidiano o in tv. È anche frequente incontrare la retorica della “nostalgia” per una mascolinità perduta, che sia nella veste più autorevole dell’allarme per l’evaporazione della “norma paterna”, o più familiare della zia che lamenta la “scomparsa degli uomini di una volta” o quella più esotica dello “studio di una qualche università americana, sulla scomparsa degli uomini, sulla loro femminilizzazione o progressiva sterilità. Il discorso pubblico è segnato sempre più dal rancore e dalla frustrazione maschile, dalla paura del cambiamento espressa da uomini descritti come intimoriti e frustrati. Sempre più vediamo come questi richiami diventino riferimenti per leggere il disordine e il disagio delle nostre società e per “richiamarle all’ordine”. Un ordine di cui gli uomini sarebbero depositari e custodi.
Ma chi conosceva esperienze come quella raccontata in questo libro? Chi ha incontrato gruppi di uomini che si incontrano per mettere in discussione l’ordine patriarcale a partire dal proprio essere uomini? In fondo anche io, che da tempo sono impegnato in un gruppo di uomini, ho avuto poche occasioni di incontrare il gruppo GNAM. Come si legge nel libro queste esperienze sono spesso oggetto di ironia, sufficienza e, magari, un po’ di sospetto? Perché, infatti chi beneficia del privilegio dovrebbe metterlo in discussione? Il libro prova a dare una risposta che a me pare chiara e convincente.
I nostri percorsi sono nati spesso attorno agli anni Ottanta, liquidati come anni del “riflusso” ma in realtà fucina di pensieri e percorsi critici preziosi. Quasi per una convergenza astrale ogni gruppo si avviava separatamente ignorando l’esistenza degli altri ma “annusando” che qualcosa di nuovo – nuove domande e nuovi significati – sollecitava un diverso sguardo sul mondo e un diverso modo di stare al mondo di noi uomini. Ci siamo, infatti, incontrati molto tempo dopo e – tema che il libro sollecita senza dare, come è comprensibile una soluzione – abbiamo stentato a riconoscerci, a metterci in rete, a costruire insieme parole comuni, proposte, una cultura condivisa. Eppure avevamo e abbiamo molte cose in comune.
Innanzitutto l’insofferenza per i riti e i miti maschili che ci apparivano sempre più privi di fondamento e incapaci di dare senso alle nostre vite. Dopo l’esplosione di libertà, sperimentazione, domande, conflitti e trasformazioni realizzatasi a cavallo tra anni Sessanta e Settanta i residui maschili pesavano sempre più come un cupo richiamo all’ordine. Il re era nudo e i leader che parlavano in assemblea dando mostra di aver compreso come andava il mondo, gli schieramenti dei cortei, la militarizzazione della politica, le logiche di appartenenza, la riduzione del mondo alla dinamica amico nemico, le richieste di “intruppamento” nel gruppo ci apparivano sempre più soffocanti. Anche quando magari eravamo proprio noi a parlare in quelle assemblee e a “fare i cordoni” in quei cortei. Quelle espressioni non mostravano solo una subalternità a un ordine dominante nel momento stesso in cui si proponevano come “rivoluzionarie”, ma ci imponevano una maschera che diveniva impossibile non vedere. Forse non è un caso, quindi, che questi percorsi si siano intrecciati con la critica nonviolenta della politica: non affermavamo solo il rifiuto della violenza agita ma vedevamo la complicità con l’ordine simbolico dominante che i movimenti di trasformazione riproducevano, la ricerca quasi inconsapevole di una simmetria con lo schieramento avversario. Una critica radicale alla logica del potere e al potere come fondativo dell’identità e non solo una “tecnica” per redistribuire più equamente il potere.
Ma non c’erano solo l’estraneità e il fastidio verso linguaggi e forme politiche ereditate dal contesto maschile. C’era anche la percezione di una diversa qualità possibile delle nostre vite. Nel racconto troverete una frase piccola ma significativa: “Ci piacevano queste ragazze con la loro volontà di autonomia, con grandi capacità critiche, che lottavano, che contestavano”.
Non si trattava soltanto di fare i conti con le rivendicazioni delle donne, con la loro nuova autonomia e libertà. Non si trattava solo di prendere atto del fatto che le donne “non stavano lì dove ci aspettavamo” ma di scoprire che quella novità ci piaceva, ci attraeva e ci ingaggiava. Che alla fantasia un po’ stantia della bella addormentata in attesa del nostro bacio o della principessa in attesa di essere liberata e protetta o, peggio, della donna materna e accogliente, si sostituiva l’incontro con i desideri, il piacere, i progetti, l’autorevolezza, l’autonomia di ragazze libere e che ci chiedevano di esserlo altrettanto. Così, come avevamo conosciuto una stagione di madri che era uscita dal ruolo tradizionale dell’accudimento per realizzarsi nel mondo mostrando la propria forza e autonomia.
Non era tutto facile, come si legge nel testo: “Dovevamo fare i conti con la nostra capacità di stare con loro in questa nuova situazione, consapevoli che in qualche modo anche noi facevamo parte di un mondo sottoposto a critica”. Rispetto alle generazioni precedenti questo confronto non risultò paralizzante e frustrante, ma aprì una ricerca nuova di cui gruppi come lo GNAM sono espressione. Come ricordano i partecipanti, questa apertura li salvò dal “tunnel della depressione”. E anche dalla posizione un po’ inautentica del “maschio in crisi” che si colpevolizza dell’oppressione di genere senza mettere in gioco il proprio desiderio di cambiamento. Se le donne rimettevano in discussione ruoli e destini che parevano segnati “Perché non potevamo farlo anche noi?”.
Qui il testo prova a definire una collocazione maschile che sia capace di cambiamento e che ha un valore più generale nella discussione tra uomini che provano a criticare il sistema patriarcale.
Partiamo da una constatazione: “Questo sistema, se da una parte genera i nostri privilegi di maschi eterosessuali e ci mette in una posizione di indiscutibile vantaggio, dall’altra ci incastra nei nostri ruoli stereotipati, crea anche per noi le condizioni di una minore possibilità di scelta, costituisce una specie di gabbia che limita i nostri spazi di libertà ed espressione”. È necessario non fermarsi al “sentirsi in colpa, considerandosi parte del genere maschile oppressore del genere femminile, perché il sentirmi in colpa non mi fa fare dei passi in avanti” e non va confusa la costruzione sociale di un modo di essere uomini con “difetti dovuti all’appartenenza al genere maschile”.
Ma per pensare una diversa collocazione rispetto al femminismo, al movimento lgbtq+ e alle tante soggettività critiche dell’ordine patriarcale è necessario fare riferimento a un’idea diversa del dominio e del conflitto. Cos’è la “mascolinità egemonica”? La semplice posizione di dominio di uno specifico gruppo di maschi (quelli etero) su donne, maschi omosessuali e persone fuori dal modello binario di genere? O è un modello pervasivo che definisce valori, ruoli, attitudini e che plasma le vite di donne e uomini, etero e non? Nel primo caso i maschi eterosessuali potrebbero solo rinunciare al proprio potere in nome di una scelta etica e di un’assunzione di responsabilità. L’inferiorizzazione delle donne non porta con sé l’obbligo per i maschi a non apparire come “femminucce”? e lo stigma verso l’omosessuale quanti “effetti negativi ha anche su di noi facendoci vivere con imbarazzo il “contatto fisico tra uomini” o impedendoci “un gesto di tenerezza nei confronti di un altro uomo”? Non si tratta, dunque, di un impegno solidale verso altre vite stigmatizzate, non si tratta solo di riconoscere diritti altrui, ma di riconoscere che quel sistema, che nega diritti e dignità, è un dispositivo che imprigiona anche le vite di noi maschi eterosessuali. La leva del desiderio è dunque decisiva per qualificare queste esperienze.
Quando questi gruppi hanno preso il loro avvio la retorica sulla crisi degli uomini era solo agli inizi. Oggi è diventata riferimento dominante alimentando nostalgia, frustrazione, depressione, quando non una rabbia rancorosa. O lo “stereotipo uguale e opposto: il “maschio morbido, succube”, pentito delle colpe del proprio genere e che si affida a una guida femminile.
I protagonisti dello GNAM non vogliono essere considerati “l’avanguardia maschile moderna e progressista”. Tra frustrati, depressi, rancorosi o buoni, pentiti, rispettosi, democratici e altruisti l’elaborazione e la ricerca sviluppata da gruppi come questo possono provare a proporci “un’altra strada”: quella di uomini che non rimuovono il potere e il privilegio ma cominciano a cercare un altro senso per le proprie vite riconoscendo la miseria che quel potere ha prodotto per loro e per il loro stare al mondo. “La nostra maschilità può sperimentare un altro percorso che non è rinuncia, passività, abbandono, sottrazione, ma spazio di espressione libera e creativa, una forza che non è distruttiva”.
Come ricorda il racconto di questa esperienza “si parte sempre da sé, interrogandosi sulla propria esperienza e sul proprio modo di vivere la maschilità”, sulle proprie complicità, sui prezzi che ci si accorge di aver pagato, sulle proprie resistenze e il proprio imbarazzo nell’uscire dal recinto rassicurante della virilità tradizionale. Questa ricerca, questa interrogazione avvengono in un gruppo ma, al tempo stesso, si misurano con la dimensione problematica di essere un gruppo di uomini che provano a pensare e produrre cambiamento. Il gruppo maschile è tradizionalmente il luogo della complicità, del cameratismo, produce conformismo, relazioni gregarie, oppure competizione. Come fare gruppo in modo diverso? “Il gruppo, ci dice lo GNAM, può essere vissuto, oltre che come spazio di divertimento e socialità, anche come una risorsa che ti aiuta, ti sostiene, ti lascia libero di tirare fuori quello che sei, ti permette di sperimentare un’altra relazione e una comunicazione profonda e intima con altri uomini”.
Ma il rischio complementare è trasformare il gruppo in cerchio chiuso, rassicurante, una “comfort zone” che non si misuri con la necessità anche di un confronto esigente, capace di conflitto, tra uomini e che rimuova la spinta a “essere nel mondo” a parlare ad altri e ascoltare altre storie e altre domande. Gli amici del gruppo GNAM ci dicono che “La trasformazione che è solo agli inizi richiede anche la capacità di ‘uscire allo scoperto’ per comunicare le proprie posizioni su contenuti di attualità e la costruzione e consolidamento di una rete che metta in relazione i singoli nelle proprie città e i gruppi di diverse città”.
Spesso l’investimento nel lavoro dei gruppi di condivisione tra uomini era frutto di una sorta di sfiducia in se stessi e nella capacità di produrre comportamenti diversi da quelli tradizionali da cui si era cercato di distaccarsi: “lasciarsi prendere” e “dedicarsi completamente ed esclusivamente all’obiettivo”, “asservirsi alla finalità da raggiungere”, essere “uomini della mission (aziendale o politica che sia), fare proselitismo, cercare la gratificazione data dalla visibilità, produrre una “linea” e magari dei leader…
Questo testo nasce dall’esperienza di un gruppo, ma si basa sull’esigenza e il desiderio di andare oltre il gruppo: cercare modalità per parlare fuori di noi, costruire strumenti per pensare un punto di vista maschile critico dell’ordine di genere, produrre parole e rappresentazioni per dare visibilità sociale a un desiderio di cambiamento maschile.
Come si legge a un certo punto: “Sta nascendo un soggetto politico maschile che ha cominciato a confrontarsi e collaborare con l’arcipelago dei gruppi femministi e con le realtà lgbtq+”. Forse dovremmo darci una mossa.
Stefano Ciccone, fondatore dell’Associazione Maschile Plurale
Liliana Sannini dice
Da attempata femminista desidero esprimere il mio apprezzamento per le riflessioni e le domande poste dall’articolo. Una volta tanto ho la sensazione che si possa cambiare insieme. Bravi, avanti così