Per raccontare chi è, oggi che ha quasi settant’anni, Adela Gabarri sceglie due sostantivi e due aggettivi. La prima parola che usa è persona. Una parola che quasi tutti daremmo per scontata e che evidentemente non lo è per lei che ha visto e ricorda i cartelli con scritto “No gitani” sui portoni delle scuole in cui avrebbe sognato di entrare nella Spagna franchista. Le altre parole che sceglie Adela sono: donna, gitana e femminista. Laddove “femminista”, per lei significa che nessuno può ordinarle di far qualcosa o decidere per lei. In questa bellissima intervista che ci invia dalle Asturie Melissa Cicchetti, realizzata in occasione della presentazione del libro “Lagrimas de una gitana. Tradición y cambio. La vida de Adela Gabarri”, Adela, oggi presidente dell’Asociación Gitana de Gijón, nella Spagna nordoccidentale, racconta la sua straordinaria esistenza. Comincia dal sogno di poter giocare con una bambola sua, a lungo impossibile in una famiglia povera con dieci figli, e prosegue quando, madre, doveva camminare per chilometri sui pendii delle colline perché i suoi figli avessero acqua pulita per lavarsi e smentire così lo stigma che condannava al presunto rifiuto dell’igiene la sua gente, e poi così, via via, fino alla consapevolezza di dover morire “discriminata” perché nei cimiteri della sua città per i corpi dei gitani c’è ancora una spazio differenziato, separato da quello degli altri esseri umani. È per questo che Adela non ha ancora cessato di lottare. Così come non ha mai smesso di sognare: “Sono stata sposata con mio marito per molti anni, ma non c’è mai stato amore. Me lo chiese quando avevo 13 anni e, pochi giorni dopo averne compiuti 14, diventai la sua sposa, con matrimonio cattolico. Ecco, un giorno spero di innamorarmi”
Mancava più di mezz’ora all’inizio della presentazione del libro “Lagrimas de una gitana. Tradición y cambio. La vida de Adela Gabarri” e la sala del Vecchio Istituto di Gijón era già piena. Accompagnate dalle note di Djlem Djlem, l’inno gitano, sul palco sono salite Adela Gabarri, presidente dell’Asociación Gitana de Gijón, María Jose Capellín, autrice del libro e presidente del Fórum de Política Feminista de Asturias, Dulce Gallego, che ha curato il prologo, e Gloria García Nieto, presidente dell’Asociación Feminista de Asturias (AFA), che edita il libro insieme a Trabe. Quattro donne, quattro punti di riferimento del femminismo asturiano o, come preferiscono definirsi, quattro buone amiche unite dalla lotta per i diritti delle donne.
Un’amicizia e una complicità così profonde che hanno deciso di scrivere, a due mani, la biografia di Adela Gabarri, le cui parole sono state registrate su carta dalla penna attenta e rispettosa di María José Capellín. Pur concentrandosi sulla vita travolgente di Adela, il libro racconta anche la storia delle donne del suo quartiere, Ventas di León, delle tessere del razionamento franchista e dell’umiltà delle contadine appena arrivate a Gijón negli anni Settanta. La vita di Adela non è solo la storia di una donna gitana sopravvissuta alla fame e allo stigma razziale e sociale, è anche la storia di tutte le donne povere che non hanno potuto studiare. Come ci ricorda Dulce Gallego nel prologo, fino a 50 anni fa quello di poter studiare per le donne era un chiaro privilegio di classe. E, senza alcun dubbio, quella raccontata è la storia della lotta quotidiana e della resistenza di una donna che voleva, più di ogni altra cosa, lasciare alle figlie e alle nipoti un presente migliore. “Mamma, lasci una traccia profonda”, ha gridato emozionata la figlia di Adela al termine della presentazione. “È così, figlia”, ha risposto la madre, per concludere con un invito: “Ora tocca alle giovani donne continuare a lottare per far avanzare i diritti”.
Il libro inizia parlando della tua infanzia. Racconti le difficoltà che hai dovuto affrontare da bambina, avendo come riferimento principale una nonna. Quali sono stati i momenti più significativi della tua infanzia?
Sono nata e cresciuta a León. Ero una ragazzina come tutte le altre e trascorrevo le mie giornate con mia nonna, la persona che ho amato di più nella mia vita. Vivevamo con molti bisogni insoddisfatti, naturalmente, come tutte le famiglie di un quartiere povero negli anni Cinquanta. Però eravamo felici. Con nove fratelli non ti annoi mai. Presto, molto presto, però, mi accorsi che eravamo diversi dagli altri e poi che io, a mia volta, ero diversa dai miei.
Come hai capito che eri diversa?
L’ho capito poco a poco. Ho sempre desiderato, più di ogni altra cosa, il progresso per la mia comunità. Non mi rassegnavo alla vita di povertà e durezza che vedevo intorno a me. Ho pianto per anni dietro alla gonna di mia madre mentre le chiedevo una bambola per la Notte dei Re Magi. Non avevo giocattoli e sognavo di avere una bambola tutta per me. Solo quando sono stata un po’ più grande, ho finalmente ricevuto quella bambola tanto attesa. Era una preziosa bambola di cartone e io ero la bambina più felice del mondo. La portavo ovunque finché un giorno l’ho dimenticata nel patio. Il giorno dopo, all’alba, l’ho trovata tutta inzuppata e rotta. Non aveva sopportato la pioggia e il freddo di una notte invernale sull’altopiano. Piansi tanto, non puoi nemmeno immaginare quanto. Ho sempre visto poco spazio per la tenerezza attorno a me, tutto era sempre molto duro. A volte, fuori dal quartiere, vedevo bambine con bambole bellissime e ragazzini che facevano merenda con pane e cioccolata. È stato così che ho capito che io ero diversa: da un lato perché la mia bambola era molto più brutta e, dall’altro, ho capito che questa disparità era ingiusta. Lì ho capito che esisteva l’ingiustizia. Così mi sono motivata e ho deciso che quello che volevo fare da grande era lottare affinché alle mie figlie e ai miei figli non mancasse nulla, nemmeno una bambola. Sono riuscita a realizzare il mio obiettivo, sono una donna di parola. Sono la presidente dell’Asociación Gitana de Gijón, che ha compiuto già 23 anni, e ogni anno organizzo una campagna di raccolta di giocattoli per bambini. A volte me ne danno alcuni molto rovinati ma non voglio che nessun bambino ne abbia così. Ho imparato a fare cartelli, anche se scrivo e parlo molto male, ma sto apprendendo da ogni esperienza della mia vita. Sui volantini ogni anno metto “giocattoli nuovi o usati ma in buone condizioni”.
Hai imparato dalla vita e continui a farlo…
Sì, ho imparato dalla mia vita a migliorare, a migliorare sempre.
Dalla tua vita e da quella della tua gente
Esatto, ho imparato dalla mia vita. Ho sofferto molto e, pertanto, ho dovuto apprendere molto. Ho imparato a sbarazzarmi delle cose cattive e a conservare quelle buone, come mi ha insegnato mia nonna. Bisogna rispettare le persone, prima di tutto, ma bisogna anche saper vivere, figlia. Non tutto può essere sofferenza.
E poi, come dicevi, ho imparato dalla mia gente, dalla mia grande famiglia e dalla mia comunità. Mi sento orgogliosa di essere gitana. Non dobbiamo mai rinnegare le nostre radici, le nostre genealogie. Non possiamo dimenticare da dove veniamo, ma l’importante è sapere dove vogliamo andare.
Per te l’educazione è la cosa più importante. Lo dici molto chiaramente nel libro, lo ripeti più volte. In quale momento hai capito che l’educazione è la chiave per l’emancipazione delle donne gitane?
L’educazione è tutto. Saper leggere e scrivere è tutto. Che ti mandino una lettera o un WhatsApp e che tu capisca quell’insieme di lettere e sappia come rispondere, è essenziale. Te l’ho già detto, parlo e scrivo molto male, le mie nipoti adesso ridono di me e mi dicono “nonna, come parli male! Dai, ti insegniamo noi a parlar bene”. Per me non c’è niente di più confortante del fatto che le mie figlie e le nipoti abbiano potuto studiare. Da ragazzina piangevo molto davanti alla porta della scuola. A quel tempo, all’inizio degli anni Sessanta, era piuttosto raro che una donna potesse studiare, solo le più ricche avevano accesso all’istruzione. Era ancora più raro che lo facesse una donna gitana. Cconsidera che, in quegli anni, all’ingresso di ogni scuola c’era un cartello con la scritta “NO GITANI”. La persecuzione e l’emarginazione dei gitani in Spagna è stata particolarmente dura ed è durata a lungo. Ma molte cose sono migliorate. Abbiamo leggi che ci tutelano e insultare una persona perché è gitana, anche se succede ancora spesso, oggi è considerato un delitto d’odio. Vuol dire che l’antiziganismo è riconosciuto come una forma specifica di odio. Abbiamo fatto e ottenuto molto, ma molto resta ancora da fare.
Concludi il tuo libro e hai concluso la presentazione di oggi definendoti donna, gitana e femminista. Cosa significa per te essere donna, gitana e femminista?
Beh, prima di tutto, sono una persona. A volte questa società dimentica che anche i gitani sono esseri umani. Quindi prima sono una persona e poi sono una donna, gitana e femminista. Per me essere femminista significa che posso fare quello che voglio, che nessuno può ordinarmi di fare qualcosa o decidere per me. Insomma, che sono padrona della mia vita. E questo mi fa sentire viva, libera e molto felice.
Malgrado tu abbia avuto una vita molto dura, sei riuscita a far tesoro delle esperienze e ora puoi insegnare molto alla comunità e a coloro che sono disposti ad ascoltarti. Proprio come hai fatto oggi nella presentazione del libro. Ci sono stati tanti momenti molto emozionanti ed altri molto allegri. Da dove viene tutta questa allegria, dove prendi così tanta forza?
Ebbene sì, sono molto allegra e vanitosa. Guarda le mie unghie rosa, bellissime, no? Negli ultimi due anni ho imparato a prendermi cura di me stessa. Ho avuto il Covid e mi sono molto spaventata, non ho avuto altra scelta che imparare a prendermi cura di me stessa. Da un giorno all’altro ho iniziato a mettere la crema sul viso e sulle mani, non l’avevo mai fatto in vita mia. Le mie figlie hanno riso tantissimo vedendo come, da un giorno all’altro, ho deciso di cambiare le mie abitudini e imparare a prendermi cura di me stessa. Mi considero una persona molto gioiosa e sorridente, conosco tantissime persone e di solito le persone vogliono stare con me perché sono simpatica, o almeno così dicono loro. Per me questo è importante, perché ho attraversato momenti molto duri, come la perdita di un figlio. Non c’è niente di più duro che perdere un figlio. Sono stata anche cattiva, molto cattiva, ma, si sa, superare le difficoltà è molto meglio che arrendersi, anche se costa molto e fa male. Ho capito che dovevo uscire dal tunnel del dolore da sola, con il sostegno della mia gente, e vivere per i cinque figli che ho ancora. Questo è ciò che mi ha fatto acquisire forza e andare avanti. Non c’è altro rimedio, figlia, la vita va avanti e dobbiamo continuare a lottare.
Come è nata l’idea di questo libro? Come hai conosciuto María José Capellín e in quale momento avete deciso di scrivere un libro insieme? Com’è andato il processo?
María José ed io ci conosciamo da molto tempo, siamo amiche e compagne da più di due decenni. Ci siamo conosciute 25 anni fa nella casa degli incontri delle donne nel centro La Arena e da allora lei mi ha aiutato molto e io mi sono avvicinata molto a lei. Poi, condividere con Dulce l’appartenenza al PSOE ha rafforzato il nostro legame. Con María José mi sono sempre sentita molto ben accolta e con tanto affetto, mai mi sono sentita discriminata. Al contrario, mi sono aggrappata alla nostra amicizia, sono diventata militante del partito e ho imparato molto con e grazie a loro, entrambe.
Il libro è la storia di una gitana raccontata dalla penna di una donna che non lo è. Questo significa che dobbiamo scommettere sulle alleanze?
Beh, certo. Senza di lei non avrei mai potuto scrivere il libro e lei, senza di me, non avrebbe potuto raccontare la mia storia. Penso che formiamo un’ottima squadra, ci rispettiamo e ci comprendiamo.
Quali sono oggi le principali sfide per le giovani donne gitane?
Che si formino e prendano la patente di guida. Poi è importante che studino. Non è necessario andare all’università, non tutti devono per forza continuare a studiare, ci sono corsi che ti possono preparare per avere un lavoro dignitoso. Alle mie nipoti, ne ho ben 16, dico ogni giorno “studiate, figlie, studiate”. Anche le mie figlie hanno studiato e adesso lavorano. Oggi le giovani donne hanno la grande fortuna di poter studiare nelle scuole pubbliche e di poter chiedere borse di studio se non hanno risorse economiche sufficienti per acquistare libri e altri materiali. Adesso le gitane possono studiare come le altre donne, non ci sono più quei cartelli che impedivano di entrare nelle scuole. Sebbene esistano ancora stigma, pregiudizi e stereotipi, adesso abbiamo diritto allo studio e questo diritto deve essere esercitato, ogni giorno.
Qual è il tuo prossimo progetto?
Beh, guarda, farò uno spettacolo teatrale. L’ho già fatto nel 2003, l’ho intitolato “Toda una vida” e l’ho portato al Teatro Jovellanos, la cosa più bella di Gijón. Oggi c’era qui anche la direttrice del teatro, sono andata a parlarle del mio lavoro. È rimasta molto sorpresa quando ha sentito la mia proposta, così come lo sono state le persone a cui avevo accennato del mio progetto. Contro ogni previsione, quel lavoro è stato accettato e ho ricevuto anche molto sostegno da molti amici. Nella vita si raccoglie sempre ciò che si semina. Voglio riprendere quel lavoro e aggiornarlo. Metterò lo stesso titolo “Una vita. Vent’anni dopo” e voglio parlare della nostra cultura e, in particolare, dei nostri matrimoni.
Come ti sei sentita oggi? È stato un gran giorno, no? Circondata da tutta la tua gente…
Sono molto felice e molto grata a tutte le persone che mi hanno sostenuta e aiutata. Voglio ringraziare ancora Gloria, María José e Dulce che erano al mio fianco durante la presentazione. E voglio ringraziare Vitoria, la proprietaria di un negozietto, che mi dava a credito il cibo quando, appena arrivata a Gijón, non avevo nulla per sfamare i miei figli. Ringrazio Gloria, che mi ha permesso di lavorare come persona che si prendeva cura delle faccende domestiche vivendo a casa sua. Fino a qualche decennio fa, per le donne gitane trovare lavoro, con tanto stigma e pregiudizio, era davvero molto difficile. Pensavano che una gitana fosse sporca, che non si lavasse, che non sapesse pulire. Io dovevo camminare per chilometri sulle colline e poi fare tante scale perché le mie creature avessero acqua pulita con cui lavarsi. Le mie vicine delle case de La Tabacalera, quando le mie gambe non sopportavano più la stanchezza, lasciavano che i miei figli facessero la doccia a casa loro. Tutte loro, oggi, erano con me, continuiamo ad accompagnarci, ci stringiamo l’una all’altra. Gitane e non gitane, donne, siamo una comunità. Sai, lo so che sono nato discriminata e quando morirò, tra molti anni perché non ho ancora compiuto 70 anni, morirò discriminata. Perché? Ti potresti chiedere. Perché quando morirò mi porteranno in un cimitero pubblico, però in una zona riservata ai gitani. Che ciò accada nel 2023 è davvero una barbarità. Che oggi ci sia ancora una grande parete con tutti i morti gitani in tutti i cimiteri pubblici di Gijón è una vergogna. È così, è una realtà tangibile, stanno lì, puoi andare a vederli. Sono queste cose che mi spingono ancora a lottare per la mia gente, a credere e a sfidare le ingiustizie per la mia comunità. Perché, prima di tutto, siamo persone, esseri umani. Lo ripeterò altre mille volte se sarà necessario, finché tutti non mi sentiranno: prima di tutto siamo persone. E io sono una persona, una donna, una gitana e una femminista.
Qual è il sogno ti resta da realizzare, Adela?
Ho realizzato molti sogni. Le mie figlie e nipoti hanno studiato e hanno un lavoro dignitoso. Sono presidente della mia associazione e adesso, con molta educazione e rispetto, anche se non ho studiato, quando sento dire qualcosa di brutto sulla mia gente, rispondo. Non ho avuto la fortuna di studiare né di essere andata a scuola, ma la strada mi ha insegnato molto. I 50 anni di mia nonna, più i 50 anni di mia madre e i miei quasi 70 sono più di 150 anni di apprendimento. Non è cosa da poco. Però mi piacerebbe andare a Granada, mi incanterebbe. Restare un poco lì al sole e godersi il canto e il flamenco. Voglio anche innamorarmi. Sono stata sposata con mio marito per molti anni, ma non c’è mai stato amore. Me lo chiese quando avevo 13 anni e, pochi giorni dopo averne compiuti 14, diventai la sua sposa, con matrimonio cattolico. Ecco, un giorno spero di innamorarmi.
Il Fórum de Política Feminista de Asturias, ha organizzato – dall’11 dicembre all’8 gennaio – l’esposizione “Cambiamo prospettiva. L’antiziganismo è un delitto” nella Biblioteca Pubblica di Jovellanos.
L’intervista di Melissa Cicchetti è uscita prima in lingua castigliana su Nortes ed è stata tradotta per Comune-info da marco calabria
Tiziana Pozzessere dice
Non si finisce mai di apprendere quanto possiamo migliorarci. Ma incanta poterlo iniziare.