Il femminismo non è il nemico degli uomini, e nemmeno gli uomini – visti come un “tutto” – sono il nemico del femminismo. Lo è il sistema sesso-genere e lo è il modo in cui esso sostiene il resto delle disuguaglianze. Codificare la disuguaglianza di genere in termini di guerra tra i sessi è completamente funzionale all’estrema destra. Anche perché le identità sociali di genere stanno cambiando, si moltiplicano soprattutto tra i giovani. Non abbiamo bisogno di un femminismo che viene rappresentato come un blocco senza differenze interne, senza contraddizioni – senza conservatorismo, transfobia, esclusioni o razzismo -, e nemmeno di un progetto che deve essere difeso con le unghie e con i denti, come un blocco granitico, senza analizzarne le complessità e le tensioni per “non fornire armi al nemico” e poter continuare ad avanzare con la lancia in resta
È da tempo che discutiamo degli amici del presidente (spagnolo, ndt) Sánchez e del loro disagio nei confronti del femminismo. In alcuni settori, questo “femminismo scomodo” è stato identificato con un femminismo combattivo in cui essere molto inflessibili con gli uomini e denunciare “i loro privilegi” genera una reazione che si interpreta come un segno di avanzamento. Vedi? Reagiscono alla nostra avanzata inarrestabile, dicono. D’altra parte, il femminismo viene rappresentato come un blocco senza differenze interne, senza contraddizioni – senza conservatorismo, transfobia, esclusioni o razzismo -, e un progetto che deve essere difeso con le unghie e con i denti, come un blocco, senza analizzarne le complessità e le tensioni per “non fornire armi al nemico”, per continuare ad avanzare con la lancia in resta.
Però le cose sono sempre un po’ più complicate. Naturalmente, la rabbia è spesso un potente motore politico; non saremo certo noi la polizia del tono. Ci deve essere spazio per esprimerla, quella rabbia, ma contro chi? Chi è il nemico? Come si costruisce? Sono gli uomini o sono il patriarcato e la disuguaglianza? Qual è l’utilità politica di individuare gli uomini come un “tutto”? Se gli uomini sono il nemico, tutte le donne sono “compagne”?
Sì, il femminismo è scomodo (anche per noi)
Se facciamo un passo indietro per osservare il quadro nel suo complesso, diventa evidente che mettere in discussione i ruoli di genere – destabilizzare l’ordine sessuale – ha conseguenze più inquietanti per le persone di quanto possa sembrare a prima vista. Affermare che il genere non è naturale ma una costruzione sociale, come fa il femminismo, è in grado di scatenare un certo panico profondo perché il genere è un elemento centrale del modo in cui le persone si autoidentificano. Come spiega Christine Delphy, per molti questo rappresenta un attacco alla propria identità, alle coordinate che organizzano il proprio mondo e le proprie relazioni sociali. Questo disagio di genere esiste e forse, come dice Miquel Missé in questo intervento, dobbiamo farcene carico, dargli spazio e portarlo nella discussione pubblica.
Si sta verificando anche un’effettiva trasformazione nel modo in cui ci relazioniamo con il genere, essa è guidata dal femminismo e dalla pratica vitale e politica delle dissidenze sessuali. Jack Halberstam dà conto di come le identità sociali di genere stiano cambiando, si stiano moltiplicando, soprattutto tra i giovani. Il binarismo esplode, ci sono più modi per identificarsi – come trans, genere non binario, queer, ecc. – il che mette in discussione persino il significato dell’eterosessualità, che “non può rimanere stabile”, dice Halberstam. Non è così chiaro, spiega, cosa significhi essere uomo e cosa significhi essere donna, questo spinge a smuovere il terreno dell’eteronormatività, in un mondo in cui il matrimonio perde peso, la riproduzione non richiede questa sanzione sociale o religiosa né relazioni monogame; né esiste una relazione organica e inevitabile tra uomini, donne, figli e vita familiare.
Tutti questi cambiamenti sono profondamente destabilizzanti per alcune delle persone che vogliono sapere che il loro modo di vivere è eterno e necessario, e che tutti lo condividono o dovrebbero condividerlo. Judith Butler ha descritto l’ossessione della destra per il genere con precisione: un modo per sostituire, condensare o riassumere altre ansie vitali. Nel cocktail di malesseri economici e culturali che colpisce una parte della popolazione del pianeta, certe lobby, composte da intellettuali e politici ultrà, hanno trovato il modo di rappresentarsi nello spazio politico e di definire una lotta che riesca ad agglutinare le ossessioni del conservadurismo e che diventano potenti motori per i loro progetti di potere, progetti in cui i ruoli di genere diventano importanti basi identitarie. Quindi sì, il femminismo genera disagio a un livello molto profondo, e la brutta notizia è che può essere strumentalizzato dalle estreme destre. La questione è come affrontare questa situazione, con la spada in mano, accada quel che accada, o dando più spazio alla gente per porsi domande, rendendo più complessa la discussione pubblica su questi temi e, ovviamente, elaborando un progetto femminista che si faccia carico di lottare per le condizioni materiali di vita di tutti?
Va inoltre ricordato che questi “malesseri di genere” proliferano tra gli adolescenti, in un momento chiave della costruzione della loro identità e delle prime esperienze di relazione con il genere, come spiegano Miquel Missé e Noemí Parra in Adolescenti in transizione (Bellaterra, 2023). Sono precisamente i più giovani che nei sondaggi esprimono le posizioni più critiche nei confronti del femminismo. E cosa stiamo dicendo loro? Molte volte, quel che gli arriva è un femminismo che si rivolge loro in modo colpevolizzante – con l’ariete dei “privilegi” sempre pronto –, trasformandoli nel nemico, invece che in potenziali alleati di un progetto che può comportare anche un miglioramento per le loro vite – l’ho spiegato più dettagliatamente qui.
Siamo davvero convinte che tutti gli uomini si aggrappino alla mascolinità egemonica perché conferisce loro status e potere? La mascolinità non genera disagio o pericoli? Tutti gli uomini la vivono allo stesso modo senza alcun margine per metterla in discussione o sovvertirla? Gli uomini non vanno confusi con la mascolinità. Se siamo tutte così sicure di poter evadere dal ruolo femminile che la società eterosessista ha disegnato per noi, se non siamo quel che vuole per noi, se non ci facciamo rinchiudere in quelle scatole, e abbiamo pure imparato a difendere quelle evasioni, allora perché crediamo che gli uomini non possano fare lo stesso? Perché non pensiamo a come accompagnare quei processi, quegli uomini che disertano la mascolinità egemonica? Eppure esiste anche un femminismo essenzialista che è profondamente colpevolizzante. O almeno, un femminismo che, nel tentativo di analizzare il funzionamento della società, genera uno stampo interpretativo che schiaccia le persone reali – uomini e donne – e la loro capacità di fare.
È probabile che ci sia una misoginia organizzata sulle reti, ma i ragazzi che gli danno ascolto su YouTube o TikTok e che imparano i suoi argomenti non stanno né nella trincea opposta, né sono irrecuperabili per un progetto femminista di trasformazione. La domanda da porci è come politicizzare il loro malessere verso un luogo emancipativo piuttosto che conservatore, e la risposta non è facile. Perché questi ragazzi stanno confondendo il loro nemico, che non è il femminismo, è il sessismo ed è il sistema che li lascia sul filo del rasoio mentre assistono al crollo al rallentatore di ogni sicurezza della vita.
Il mantra dei privilegi
Non c’è interpretazione dell’emergere di posizioni antifemministe oggi che non faccia appello alla “perdita dei privilegi”. Se è indubbiamente vero che in certi uomini c’è una reazione perché, come abbiamo detto, il cambiamento culturale femminista li scuote e li obbliga a mettere in discussione i loro modi di entrare in relazione o i loro atteggiamenti, questa spiegazione lascia fuori troppe cose. Quando si introduce la questione di classe, per fare un esempio, questa spiegazione cade come un castello di carte.
Che privilegio potrà mai avere il giardiniere di Ana Patricia Botín rispetto alla sua padrona? E il cameriere, assunto con lavoro stagionale, che serve in bar Carmen Calvo o Yolanda Díaz? Qual è il privilegio di un adolescente marocchino, migrante non accompagnato, che vive per strada perseguito dalla polizia? Come sta opprimendo noi donne della classe media, nate qui in Spagna con tanti riconoscimenti sociali e statali e senza esperienza dello Stato come oppressore? Quando parliamo dei “privilegi maschili” in questo modo stiamo ignorando le differenze di classe e spariscono anche il potere, lo sfruttamento, il riconoscimento giuridico, la salute mentale, la diversità funzionale… o addirittura l’età. Quale potere sociale hanno i bambini o gli adolescenti? Dimentichiamo inoltre che una donna può sentirsi oppressa dal genere in alcune occasioni e poi sfruttare, oppure opprimere, altre persone – in quanto datrice di lavoro, o proprietaria che vive di rendita –, che siano uomini e donne. Non è possibile comprendere appieno il modo in cui il genere opprime se non si aggiunge all’equazione la questione della classe – oppure quella di altri fattori, come lo status di migrante. Parlare quindi dei “privilegi degli uomini” che il femminismo mette in discussione non ha molto senso, a meno che non ci si rivolga davvero soltanto agli “amici del presidente” – o lo si usi come “arma”, come avvenne nel caso delle primarie democratiche degli Usa nel 2016, quando Hilary Clinton usò tutto l’arsenale dei privilegi per affrontare Bernie Sanders, la minaccia che le veniva da sinistra.
Però il malesseri che produce il femminismo non colpiscono solo questi “uomini bianchi e ricchi”, gli uomini del potere come dice lo slogan. Sarebbe infatti più utile utilizzare il concetto di privilegio maschile come compensazione simbolica dello status o del potere – basata sul dominazione nei confronti delle donne –: potevi essere sfruttato e umiliato in tutti gli ambiti della tua vita ma il sistema ti ricompensava con una posizione superiore almeno nell’ordine di genere – o con una donna subordinata in casa. Funziona in modo simile al razzismo, come spiega María Fernanda Rodríguez in Familia, raza, nacion en tiempos de postfascismo (Traficantes de Sueños). In questo caso, sarebbe l’appartenenza alla nazione a darti questo senso di superiorità rispetto ai lavoratori stranieri. Ma, esattamente come per la “razza”, si tratta di una compensazione che ha una doppia faccia perché ti nuoce anche, poiché il privilegio della “razza” ti impedisce di lottare a fianco dei migranti o dei razzializzati contro lo sfruttamento lavorativo. Insomma, così inteso, il privilegio maschile è una triste compensazione in questo ordine di sfruttamento al quale alcuni uomini si aggrapperebbero invece di lottare al fianco delle donne contro il sistema di genere che li opprime e che serve a sostenere il regime di disuguaglianza – in altri ordini –. Ciò può sembrare paradossale dal momento che il sistema di genere dovrebbe posizionarti come vincitore, ma non c’è dubbio che la mascolinità ha tutta una serie di “danni collaterali”: dalla limitazione delle tue possibilità di espressione, di essere o di vivere la tua sessualità, fino a tutta una serie di bisogni legati all’assunzione di rischi, al coraggio o alla competenza. Per non parlare di quando la povertà e la mascolinità si ritrovano in ambiti dove i giovani non hanno altro che quella mascolinità per sentirsi “rispettati” e che sfocia nell’esercizio della violenza – con la morte o la prigione.
La guerra dei sessi è di destra
Codificare la disuguaglianza di genere in termini di guerra tra i sessi è inoltre del tutto funzionale all’estrema destra, a cui piace rappresentare il femminismo come motore di un conflitto tra uomini e donne – utile per promuovere la reazione antifemminista. Pertanto la sfida è articolare il nostro femminismo in altri termini. Non si tratta di causare disagio a persone concrete ma di affrontare le disuguaglianze strutturali in modo che tutti possiamo vivere meglio; di smettere di usare il senso di colpa come strumento e di trasformare le condizioni che danno origine a questi disagi. Il nostro femminismo deve saper mettere al centro la lotta al sessismo e anche alla violenza che esso genera.
Se il femminismo non è il nemico degli uomini – lo è della misoginia organizzata e dei suoi partiti – allora nemmeno gli uomini sono il nemico del femminismo, lo sono il sistema sesso-genere e il modo in cui esso è funzionale a sostenere altre disuguaglianze. Ciò comporta una battaglia per affrontare le peggiori conseguenze della mascolinità egemonica sia per le donne – che ne fanno le spese principalmente sotto forma di violenza – sia per gli uomini, perché la principale minaccia alla loro posizione sociale non è il femminismo, ma il sistema economico e il danno che esso gli infligge. Un progetto femminista che implichi il miglioramento della vita di tutti è, quindi, una buona ricetta contro gli effetti peggiori della mascolinità quando si combina con la paura o la precarietà della vita.
Un femminismo veramente scomodo non è quello che evidenzia atteggiamenti concreti ma quello che comporta una minaccia ai pilastri su cui è costruita la disuguaglianza. Un femminismo scomodo parla della situazione di coloro che hanno più difficoltà e non quello che serve per migliorare la posizione di alcune donne della classe media. Un femminismo scomodo è quello che lotta contro la legge sull’immigrazione e le morti alla frontiera, che si oppone all’aumento delle spese militari, che si organizza nei posti di lavoro, che ferma gli sfratti, che collega le lotte, che non si disinteressa di come vive la gente. Forse però codificare il problema come una guerra tra i sessi è più facile ed è socialmente più remunerativo.
fonte e versione originale in spagnolo: Ctxt
traduzione per Comune-info: marco calabria
Franca Bimbi dice
Cara Nuria, il tuo articolo è bellissimo. Non sono d’accordo con tutto ma coglie tutte le questioni cruciali.
Se posso avere la tua mail ti mando un mio articolo. Io uso solo mail. La Redazione ha il permesso di darti la mia