Mentre leggevamo questo breve racconto, scritto da Stefania Consigliere e dedicato a Marco Calabria, abbiamo pensato molto, abbiamo sorriso e anche pianto
Un treno in viaggio, di notte, in un’epoca senza pace (e cioè, in un’epoca qualsiasi). È di quelli antichi, con gli scompartimenti a sei posti, e stanotte sferraglia senza fretta lungo la costa di una penisola. È finito il tempo in cui il rumore dei binari cullava i miei sogni fino all’arrivo: la santa pace del sonno ormai diserta i miei viaggi così come molte delle mie notti. Mi rigiro sul sedile, alzo e abbasso i braccioli, provo ad allungare le gambe, metto sugli occhi la mascherina, infilo i tappi nelle orecchie: niente. Il mio compagno di scompartimento ha lo stesso problema. È un uomo poco più anziano di me, col viso di qualcuno che ne ha viste molte. Condividiamo l’insonnia, il tragitto e il piccolo spazio dello scompartimento a cui siamo stati assegnati; quando infine entrambi ci arrendiamo alla veglia, ci sorridiamo e, col sorriso, arrivano anche le parole. Caute all’inizio, come si fa fra sconosciuti; ma c’è qualcosa, nel timbro di quest’uomo, che riconosco: ha l’inscalfibile gentilezza di chi ha imparato ad attraversare la ventura e la sventura, l’interminabile sconfitta come i radi colpi di fortuna che toccano ai mortali. C’è qualcosa di antico, in lui, e qualcosa che sta solo in un futuro utopico.
Succedeva un tempo, prima dell’alta velocità, che in treno dei perfetti sconosciuti si raccontassero le parti più intime della loro storia, quello che a volte neppure i loro amici più stretti sapevano. Così capita anche stanotte. Parliamo della desolazione dei tempi, dell’insensatezza di un mondo che distrugge scientemente i propri giovani, della trepidazione per i figli, di quello che a volte intravediamo fra le vecchie pietre e ai margini delle città, ma che continuamente ci sfugge. Parliamo della tristezza, ma anche delle gioie segrete: «Una volta, mille anni fa, a Chicago un signore nero, in un posto dove si faceva colazione, mi si è avvicinato mi ha detto: “Tu sei un uomo di blues!”. Sono rimasto di sasso, e ho farfugliato un grazie. Non avevo nessuna spilletta né altri elementi che potessero ricondurre al blues. È una delle cose di cui vado più orgoglioso», mi racconta. Condividiamo gli snack, i titoli dei libri che abbiamo portato con noi, due tiri di sigaretta a una fermata in stazione.
Ecco mio fratello, mi dico, perduto di vista all’inizio del tragitto di questa vita e ritrovato ora, per caso, su un treno. Non c’è bisogno di indirizzi, né di promesse di risentirsi e neanche di nomi: so chi sei senza sapere come ti chiami, so come ti sentirai e quel che farai di fronte ai prossimi orrori storici perché è quel che sentirò e farò io stessa, quel che sentiranno e faranno i nostri compagni di viaggio, già noti o ancora da incontrare.
Appena prima dell’alba il treno caracolla nella stazione a cui lui deve scendere. Avremmo voglia di parlare ancora, finiamo frettolosamente le ultime frasi, ci salutiamo con un abbraccio, poi lui salta giù dal vagone con una sacca sulla spalla. Le porte si chiudono, il capotreno fischia. Guardo fuori dal finestrino per fare ancora un ciao al mio compagno di viaggio. Lo vedo accasciarsi sul marciapiede. Due persone dietro di lui si fermano per aiutarlo, una spalanca la bocca e alza un braccio, il capostazione comincia a correre nella sua direzione. Il treno si sta già muovendo e mi trascina via, vorrei fermarlo ma mi accorgo, con sgomento, che non ha il freno di emergenza.
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